lunedì 30 maggio 2011

BIBLIOFOLLIA : Chernobyl

BIBLIOFOLLIA : Chernobyl

Il 7 aprile 2011 l’Editore Sellerio ha pubblicato un volume di Francesco M. Cataluccio dal titolo

“Chernobyl” Dal sito Doppiozero abbiamo estrapolato alcune recensioni particolarmente interessanti di questo viaggio che con Seveso e Fukushima delinea e delimita il senso di una catastrofe per tutti e tre e per gli ultimi due un discorso sul nucleare sul quale non si riesce a riflettere abbastanza a causa di una quasi inesistente informazione rispetto alla sua portata culturale , politica e scientifica e in merito agli avvenimenti vicini e lontani nel tempo che li hanno caratterizzati .

**** **** ****

La stella nera di Chernobyl comincia dal suo nome: chornyi (nero) e byllia (steli d’erba) e immediatamente si lega a un destino di amarezza. L’erba nera si riferisce all’Artemisia absinthum, ossia la componente principale dell’assenzio, mentre “amaro” viene definito da Erodoto il Nipro, cioè il Dnepr.

A questo luogo che sembra predestinato al dolore Francesco Cataluccio dedica un libro rigoroso come una testimonianza ed emozionante come un film. La voce che racconta è pacata, le immagini che evoca sono veloci. Lo sfondo è vuoto, gli scenari distrutti, la voce fuori campo è sola. Cataluccio non è soltanto autore del libro intitolato Chernobyl ma attore, suo malgrado, di una vicenda che non avrebbe voluto attraversare: nell’aprile del 1986, allo scoppio della centrale nucleare a Chernobyl si trova in Polonia e viene colpito, come tanti, dalle radiazioni.

Da qui la volontà di ricordare andando fisicamente all’origine del male in quello spazio in cui tutto è cominciato. Un viaggio a Chernobyl e nel passato di Chernobyl che sembra conoscere una tregua solo quando, negli anni prima del disastro, i suoi cittadini sembravano, rispetto al resto dei russi, dei privilegiati, con macchina personale, belle case, stipendi più alti della media. Una trappola, la definisce Cataluccio: “pochissimi erano al corrente di quello che rischiavano”.


Chernobyl è un libro di storia nel senso esatto del termine, come suggerisce il nome di Erodoto, nume tutelare di ogni pagina, ma è anche un testo contaminato da generi diversi: confessione, meditazione, reportage, ed esposto a venti diversi che si chiamano Dostoevskij e David Grossmann, Rimskij-Korsakov e Babel, Tarkovskij e il polacco-napoletano Gustaw Herling. Una contaminazione retroattiva che risale il tempo fino agli anni di università e del servizio militare per depositarsi su nostre Chernobyl, come Seveso, nel cui dossier segreto il giovane soldato Cataluccio si imbatte. Quasi un preludio dell’incontro con la nube tossica e il viaggio nella Zona.

Cataluccio descrive il mondo di Chernobyl prima di Chernobyl, il suo rapporto è un registro di colpe e violenze accatastate sul dorso della storia. Le vittime si infittiscono, a partire dal XVIII secolo e sono soprattutto ebrei, stretti tra l’ambigua alleanza polacca e i pogrom dei cosacchi, poi falcidiati dall’armata bianca e trucidati dai rossi. Ancora una volta l’assenzio inscritto nel nome del luogo sembra legarsi al destino ebraico. Cataluccio cita le parole di Geremia


rivolte agli ebrei che avevano abbandonato la Legge: “Ecco, io darò loro assenzio da mangiare e acque avvelenate da bere, e li disperderò in mezzo a genti che non avevano conosciuto né essi né i loro padri…” e conclude: “agli incolpevoli ebrei ucraini accadde proprio questo”. L’elenco degli orrori continua. È la volta dei contadini. Tra il 1929 e il 1933 le ragioni politiche dello stalinismo pianificano la morte per fame di circa sette milioni di persone. La strage ha un nome: “Holodomor” e deriva dall’espressione ucraina moryty holodom: “infliggere la morte attraversola fame”. I pochi sopravvissuti furono testimoni di eventi di cannibalismo spesso nei confronti di bambini. Meno di dieci anni e l’Ucraina diventa una delle terre più tristemente famose delle esecuzioni di massa da parte dei nazisti mentre nel dopoguerra si moltiplicano i trasferimenti coatti delle famiglie polacche (tra queste quella di Adam Zagajewski che dedica a Leopoli una delle sue più belle poesie).

Chi legge prova una vertigine, un senso di nausea che sembra potersi solo tradurre in immagini di resti, di ostaggi, di rovina. Il libro di Cataluccio è un’immensa tela di Kiefer, un paesaggio ustionato dominato da un olio nero, privo di orizzonte.


Oggi Chernobyl viene chiamato il “Regno del Plutonio”, ovviamente per il metallo, tragicamente familiare in questi giorni, legato a Plutone, il pianeta delle tenebre, il regno di Ade per i greci, gli Inferi per i romani. I dintorni si chiamano “Ghost Town” o “Land of the Wolves”. Nomi esatti per luoghi sconnessi e abbandonati, con i palazzi invasi dalle piante, i lupi che attraversano le strade, la ruota del Luna Park immobile.

Eppure in questa tragedia c’è uno spiraglio ed è lo stoicismo venato di ironia con cui Cataluccio racconta la propria vita contaminata: senza mai commiserarsi e usando gli anticorpi dell’alcool e dello humour, naturalmente nerissimo. Ricorda che al momento dell’esplosione la casa in cui viveva aveva un giardino di meli. Apparentemente un idillio. In realtà una fiaba, cattiva come tutte le fiabe. Non manca nulla: le mele avvelenate e la strega Baba-Jaga a cavallo di una nuvola.

***** **** *****

Nella bella mostra in corso al Palazzo Reale su Giuseppe Arcimboldo, mago delle saturnine meraviglie manieriste, gradite all’imperatore-occultista Rodolfo II, si trova un meraviglioso manufatto che si intitola Uomo cartaceo, conservato nel Gabinetto dei Disegni di Palazzo Rosso, a Genova. Un autoritratto inciso nelle pieghe di un foglio, che disegnano per maestria di incantamento i lineamenti segnati del vecchio maestro, che tornava alla sua Milano, dopo aver vissuto a lungo nel Castello kafkiano di Praga, dove il monarca melanconico cercava disperatamente di bloccare il tempo, facendo invano congiungere mercurio e zolfo, perché in mistico matrimonio producessero l’oro. Non per caso a questa figura è dedicato un capitolo fondamentale di Praga magica di Angelo Maria Ripellino (1973), inventario di fantasmi della cultura, compiuto subito dopo sommovimenti storici, che in quelli trovavano infine un profondo rispecchiamento. Di fronte alle tragedie gli scrittori reagiscono appunto da uomini cartacei: cercano nel passato delle loro letture, incise nelle pieghe della memoria, parole e immagini che riescano ad assorbire il colpo, a smussare le punte aspre dell’ennesimo disastro che l’uomo infligge a se stesso. Francesco Cataluccio raggiunge le librerie con il suo Chernobyl, nel momento in cui lo spauracchio ucraino è ormai superato da quello di Fukushima, quando ormai uno dei miti residui della certezza moderna, la iperorganizzazione nipponica, è stato spazzato via dal mare-mostro, nera presenza dell’immaginazione e della realtà. L’itinerario dello scrittore è, per sua stessa ammissione, divagante, come a non voler affrontare in prima istanza i demoni, arrivando a loro per gradi. Si parte da una mappa da regalare a un’amica polacca, che rifiuta in modo offeso una carta della Russia, si passa alla storia di una regione tormentata che spesso ha cambiato di padrone.

Infine il viaggio verso il luogo del disastro, a bordo di un pulmino dotato del simbolo della radioattività. Nel gran fiume Dnepr pesci abnormi mangiano un filone di pane lanciato da un ponte, i visitatori cominciano ad avere paura di mangiare, che il cibo loro offerto in un bistrò, per i colori troppo accesi, sia contaminato. In questo libro il compito del narratore è felicemente compiuto: la cronaca e la biblioteca si congiungono e i pezzi del puzzle che vanno al loro posto compongono un ritratto di paesaggio con rovine, nate da negligenza e criminosa intenzione, all’alba di una nuova catastrofe, che già viene esorcizzata in Giappone sotto forma di manga, per cercare un utile filtro alla visione del mostro, che dal fondo occhieggia e fa furore.

FONTE :Antonella Anedda e Luca Scarlini su http://doppiozero.com/materiali/francesco-m-cataluccio/chernobyl-di-francesco-m-cataluccio

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, lunedì 30 maggio 2011


sabato 28 maggio 2011

SILLABARI : Acqua

SILLABARI : Acqua

foto Massimiano Gallerini
Paolo Sorcinelli ha scritto una “ Storia sociale dell’acqua” pubblicata da Bruno Mondadori . Pensando al prossimo referendum proprio sull’acqua , sul suo uso e sulla sua privatizzazione mi sembra interessante riflettere su alcune pagine di questo libro che si compone dei seguenti capitoli :

1 l. Le stagioni dell'acqua 10 2. Draghi, ninfe e madonne 15 3. L'acqua: pregiudizi e seduzioni

25 4. L'acqua, magica e misteriosa 32 5. Pidocchi, pulci ed escrementi: compagni di vita

43 6. Dallo stupore ai «giornalieri lavacri» 55 7. L'acqua fa male 60 8. L'ossessione dei pori e la pulizia asciutta 68 9. L'acqua e i pericoli morali 83 10. L'acqua e il mondo dei minimi 101 11 L'acqua negli acquedotti 113 12. L'acqua per mantenersi in salute 123 13. Il "verbo" igienico 129 14. Le paure del mare 135 15. La fiducia nel mare 144 16. Il mare come moda

155 Tavole 187 Indice dei nomi

.Il libro inizia con : Le stagioni dell'acqua


Con efficace sintesi lo storico Jean-Pierre Goubert, specialista in storia della salute, ha dedicato una lunga monografia (La conquéte de l'eau) alle implicazioni sociali e sanitarie dell'acqua negli ultimi secoli. Goubert ha anche evidenziato l'impatto dell'elemento-acqua sull'immaginario collettivo e sulla cultura dei popoli occidentali, soffermandosi sulle numerose valenze che l'acqua assume nel corso del tempo e che interessano, in maniera privilegiata, il corpo umano.

Dall'età cosmologica, in cui guaritori e maghi celebrano il culto delle fontane magiche e sacre, all'età della cristianità, in cui l'acqua battesimale monda il corpo dai peccati, ma in cui l'acqua, che lava i corpi, assume anche una riprovevole connotazione erotica e sessuale, fino a una terza fase, culminante nel XIX e XX secolo, in cui l'acqua diventa appannaggio dei sapienti, si laicizza nel sapere di geologi, ingegneri, chimici, fisici, medici, che ne studiano la composizione, il contenuto di gas e le proprietà curative.


Da Antonio Cocchi, che nel trattato Dei bagni di Pisa del 1750 si sofferma sul colore, il calore, il peso specifico dell'acqua; ad Alessandro Bicchierai che nel 1788 pubblica l'opera Dei bagni di Montecatini, sugli effetti e le proprietà mediche di quelle acque minerali; a William Brownrigg, Henry Cavendish, Joseph Prestley con Directions for Impregnating Water with Fixed Air, del 1772, a Sir John Pringle e Hilaire-Marin Rouelle del celebre mémoire intitolato Observations sur l'air fixe et sur ses effets dans certaines eaux minerales, fino agli Opuscoli fisici e chimici di Lavoisier, del 1774.(foto Sandro Gaccione)

Hervé Maneglier in una Storia dell'acqua ha descritto, dal canto suo, i rapporti che l'uomo ha intrattenuto con l'acqua, individuando, secondo la sua definizione, quattro ere: primaria, quella delle acque lustrali; secondaria, quella dell'addomesticamento delle acque per l'irrigazione agricola; terziaria, quella in cui «i pozzi individuali ebbero la meglio sugli acquedotti collettivi»; quaternaria, nata alla fine del XIX secolo, «con la scoperta del comfort e la nozione di potabilità, derivata dal lavoro di Pasteur». Usando volutamente il "termine geologico" di ere, Maneglier intende sottolineare come, «pur succedendosi nel tempo e accatastandosi le une sulle altre, le successive ere non si sono reciprocamente annullate. Le diverse stratificazioni hanno lasciato ognuna le proprie tracce».



Anche se fin dall'età medievale l'acqua è stata usata per la lavorazione della seta, della carta e delle pelli e ha mosso le pale e le macine dei mulini (gli impianti molitori di tipo idraulico sono originari in area franca attorno al Mille e, quindi, importati in Italia settentrionale e centrale da parte dei monaci cistercensi, tanto che le chiuse bolognesi del Reno e del Savena risalgono al XII secolo), solo negli ultimi duecento anni, con l'avvento delle lavorazioni industriali, del vapore, dell'elettricità e del concetto di igiene, essa ha conquistato il mondo e dal mondo è stata conquistata. Beninteso in termini attuali, se anche gli statuti trecenteschi di Rimini, prevedendo il taglio della mano destra per chi danneggiava i condotti dell'acqua, in fatto di conquista e di difesa non scherzavano. Come non si scherzava nei confronti dei presunti untoti delle acque durante i secoli della peste; così avviene ai lebbrosi, che all'inizio del XIV secolo in Aquitania sono accusati di aver avvelenato i pozzi della regione e condannati al rogo; e così avviene agli ebrei in Provenza, Linguadoca, Delfinato, Savoia e Alsazia, nel 1348.(foto Sandro Gaccione)

Certo egizi e sumeri sapevano benissimo come incanalare a fini irrigui l'acqua del Nilo, dell'Eufrate e del Tigri; altrettanto esperti si dimostrarono i romani nella costruzione degli acquedotti e lungimiranti le loro teorie per rifornire le città, come dimostra un testo di Sesto Giulio Frontino, De aquaeductu urbis Romae. Eppure di acquedotti (quelli romani dureranno nel tempo con straordinaria efficacia) si riparlerà in maniera organica soltanto nel XIX secolo e, molto spesso, recuperando condotti e manufatti ideati o costruiti proprio sotto la dominazione romana.

E a Pagina 32

5. Pidocchi, pulci ed escrementi: compagni di vita

Se vogliamo prestare fede alle testimonianze mediche e letterarie, il rapporto di gran parte della popolazione europea con l'igiene della persona subisce due mutamenti epocali: uno, nel XIV secolo, quando la peste è responsabile di un clamoroso allentamento di certe norme igieniche collegate alla cura del corpo; l'altro, alla fine del XVIII secolo, quando il corpo riscopre pian piano l'acqua e i suoi riti di pulizia. A cominciare naturalmente dalle classi più elevate. E non fu certamente un caso se, in corrispondenza del lento, ma progressivo cammino igienico di questa seconda fase, la mortalità (soprattutto quella infantile) abbia subito un forte declino. Paradossalmente, a sconfiggere certe malattie, fu più decisiva l'azione di acqua e sapone, che l'intervento di medici e medicine. L'igiene, infatti, svolse un'azione determinante sia nelle malattie dell'apparato intestinale (gastroenterite, febbre tifoidea, dissenteria), sia nelle malattie trasmesse da persona a persona dai pidocchi, come nel caso del tifo petecchiale.

Eppure avere pidocchi e pulci fu, per secoli, considerato un fatto naturale, perché, si diceva, tutti gli animali li avevano.

Una canzone popolare lettone mostra che l'attrazione fisica di una giovane nei confronti dell'innarnorato non è condizionata più di tanto dal parassita, quanto da altri fattori:

Per amore morivo di voglia

di baciare d mio Gianni

ma ogni volta che offrivo le labbra

trovavo i pidocchi di Gianni.

Pazienza i dannati pidocchi

ma il moccolo non mi andava giù.

Come a Pagina 68

9. L'acqua e i pericoli morali

foto Massimiano Gallerini
Ma se in certe stagioni acqua e medicina male si accordavano fra loro, l'uso dell'acqua per lavarsi poteva nascondere anche una serie di pericoli morali, come grandi figure della Chiesa, a cominciare da san Gerolamo, si erano preoccupati di rimarcare, sconsigliando, soprattutto le fanciulle, dal fare il bagno «perché avrebbero potuto vedere in tal modo il loro corpo nudo, o almeno di attendere l'oscurità o di chiudere le persiane». San Benedetto, da quanto sappiamo, era solito ripetere che «a coloro che stanno bene di salute, e specialmente ai giovani, il bagno si dovrà concedere assai di rado». Sant'Agnese morì a tredici anni senza essersi mai lavata, forse per non cancellare il crisma del battesimo, ma molto probabilmente anche per non incorrere in inutili tentazioni. Cristianesimo e sudiciume marceranno a braccetto, perché, almeno da san Gerolamo in poi, prevalse il principio che l'uomo battezzato non aveva più bisogno di nessun altro rito purificatore. Come scrive Ramazzini nella Diatriba, «la religione cristiana, che come è noto si preoccupa più della salute dell'anima che di quella del corpo, ha lasciato a poco a poco cadere in disuso i bagni».


Se nei culti pagani l'acqua è intimamente legata alla fecondità femminile, il cristianesimo tende ad annullare questa valenza, esaltando la verginità femminile e sublimando la sterilità nel rifiuto del matrimonio terreno perché la donna possa divenire "sposa di Gesù'. Argomentazioni riprese dalla Controriforrna, quando ai penitenti si impose «una continua vigilanza e un allenamento prolungato volto a prevenire» peccati di desiderio, di compiacenza e di dilettazione venerea, anche se si trattava di semplici "atti interni della coscienza" e non di vere e proprie "azioni concretamente compiute". Anche un personaggio come Diderot, nel 1768, è comunque sollecito a intervenire sulla figlia proibendole ogni abluzione totale, nella convinzione che in questa maniera le si sarebbe evitata qualunque tentazione al vizio.


Ancora nel 1860 le contadine dell'Alto Palatinato ritenevano che lavarsi le parti genitali fosse un peccato grave; nelle colline piemontesi, fino ai primi decenni del Novecento, fra le donne di campagna sopravviveva la convinzione che «lavarsi di sotto, nei punti delicati» fosse peccato. Quando poi non entravano in ballo i sensi di colpa della religione, subentravano preoccupazioni legate all'attività riproduttiva femminile: più in generale, infatti, e fino ad anni recenti, nelle campagne europee è sopravvissuta la radicata convinzione che l'igiene e il normale uso dell'acqua sulle parti genitali provocassero sterilità.

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 28 maggio 2011


LETTURE ORIGINALI : KANT PER LA PACE PERPETUA E IL COSMOPOLITISMO

LETTURE ORIGINALI : KANT PER LA PACE PERPETUA E IL COSMOPOLITISMO

L’accordo di Shenghen che viene ora messo in discussione ha rappresentato un presupposto ,in termini moderni, per quel diritto di visita che già Kant proponeva nel suo Trattato per la pace .

Scherzosamente Kant aveva preso questa affermazione Per la pace perpetua dall’insegna di un’osteria e a lungo aveva illustrato all’oste la possibilità che questa affermazione divenisse un progetto politico :

Kant stese il Progetto per una pace perpetua nel 1795, sull’onda dell’entusiasmo per un evento preciso. Nella primavera di quell’anno c’era stata la pace di Basilea: la Repubblica francese aveva raggiunto la pace con la Spagna, con l’Olanda, ma soprattutto con la Prussia. Quest’ultima aveva finalmente riconosciuto l’esistenza dello Stato rivoluzionario francese. Kant scrisse quest’opera confortato dalla pace di Basilea ed entusiasta del fatto che anche il suo paese, la Prussia, avesse riconosciuto la Francia rivoluzionaria, per la quale egli manifestava forti simpatie. Qual è la costruzione che cerca di edificare con questo progetto? Questa costruzione parte dalla sua Critica del giudizio, di cinque anni prima, ed è legata a una visione sostanzialmente ottimistica della storia. Il Progetto per una pace perpetua è un’opera di carattere fortemente illuministico.

L’Illuminismo era improntato all’ottimismo: secondo l’Illuminismo la storia finora è stata oscurata da ignoranza e superstizione, travagliata da lutti, da tragedie, da guerre di religione, da guerre fratricide tra i popoli, ma i lumi della ragione, diffondendosi, porteranno il progresso, promuoveranno una civiltà sempre più avanzata. Nella Critica del giudizio Kant delineava una convergenza della natura verso i fini umani, scorgeva un finalismo della natura: gli organismi biologici e le cose belle ci danno il senso del fine, soprattutto gli organismi biologici sembrano nel loro insieme favorire la vita dell’uomo, essere finalizzati al benessere dell’uomo, che è un ente morale in quanto si pone il fine del bene. La Critica del giudizio disegnava quindi questa situazione: la natura sembra presentare un fine supremo che è quello di favorire la vita dell’uomo, lo sviluppo delle attitudini umane; l’attitudine umana superiore è l’attitudine al bene, pertanto la natura pare favorire l’uomo nel suo tendere al bene. Proprio su questa base si sviluppa il discorso, ripeto, ottimistico, del Progetto per una pace perpetua, dove viene affermato che la natura sembra, al di là degli antagonismi, preparare il terreno per la realizzazione piena dell’umanità, di un’umanità che viva in pace sotto l’egida del diritto. La prima premessa di tale progetto è la visione per la quale la storia converge verso un punto finale: la creazione di una situazione in cui il bene si possa realizzare. La seconda premessa è questa: per arrivare a quel punto c’è un passaggio obbligato, che è la creazione dello Stato. Kant afferma che lo Stato è «un’organizzazione del diritto esterno», un’organizzazione che permette di regolare i rapporti tra gli uomini in maniera stabile, in maniera sicura, punto di passaggio obbligato perché gli uomini possano esprimere il meglio di loro stessi e in particolare anche la loro attitudine al bene, al bene morale.

La storia e la natura convergono verso la finalità morale dell’uomo, ma punto di passaggio obbligato è la creazione di un’istituzione che sorvegli la naturalità e faccia sviluppare, invece, la ragione. Questa istituzione è lo Stato .

Come nasce lo Stato? Lo Stato nasce dall’esigenza di porre freno all’egoismo, di porre fine alla situazione naturale di reciproca violenza fra gli uomini, introducendo un elemento di carattere coattivo, una forza superiore rispetto agli individui che li costringa, anche loro malgrado, a rispettarsi reciprocamente. Kant avanza la considerazione, sviluppata poi anche dall’idealismo, che il diritto riguarda solo la sfera esterna: gli uomini, spinti a seguire le norme del diritto imposto dallo Stato, sono costretti a comportarsi in maniera civile, ragionevole, al loro interno possono mantenere istinti aggressivi, tendenze a prevaricare gli uni rispetto agli altri, ma il diritto, almeno nella sfera esteriore, fa sì che gli egoismi non si sfrenino e che gli uomini vivano una vita civile, premessa per la finalità del bene.

Kant sostiene che bisogna vedere lo Stato come frutto di un patto fra gli individui, di un contratto. Gli individui, come già in Hobbes, per loro convenienza arrivano a stipulare tra loro un contratto e si mettono d’accordo di rispettarsi reciprocamente sulla base di leggi che accettano tutti perché lo trovano vantaggioso e ragionevole. In Kant viene sottolineato molto l’elemento della ragionevolezza: l’individuo si rende conto che gli conviene rispettare l’altro uomo per ottenere anche egli a sua volta rispetto e per poter svolgere i propri affari senza essere turbato. Il discorso di Kant è importante: il diritto non opprime l’individuo, in quanto esso costituisce un freno del suo arbitrio, del suo libito, dei suoi desideri, ma si tratta di un freno che gli conviene accettare, perché grazie a questo freno può estendere il raggio della propria azione e goderne con sicurezza i frutti, mentre altrimenti vivrebbe in una situazione di perenne insicurezza. Ripreso il discorso di Hobbes, Kant vi aggiunge la considerazione che il diritto è qualche cosa di esterno, che viene molto spesso avvertito come una coazione, ma che in effetti l’uomo ragionevole riconosce come cosa propria, utile anche a se stesso.

La pace perpetua cerca di riproporre questo stesso tipo di discorso al livello degli Stati: come gli individui si sono accordati fra di loro e hanno raggiunto la pace attraverso lo Stato, così gli Stati, quali «individui in grande», dovranno accordarsi fra loro in una federazione per raggiungere la pace.

Altri progetti di pace perpetua ce ne erano stati fino a qualche decennio prima: i più importanti sono quelli che risalgono a Erasmo da Rotterdam, il quale, di fronte alle guerre di religione che si cominciano a profilare in Europa, elabora l’ideale dell’irenismo, del pacifismo. Erasmo ha scritto una Querela pacis, un Antí pólemos, opere contro la guerra, e ha aperto la strada a tutta una letteratura che si propone di creare una piattaforma per la pace universale. Egli è stato poi seguito da tanti altri scrittori fino agli illuministi, fino al progetto elaborato da Charles-Irénée Castel, abate di Saint-Pierre, cui s’interessarono Leibniz e d’Alembert con qualche scetticismo e Rousseau, che manifestò il suo aperto consenso. Ma qual è il limite di questi scrittori che precedono Kant? I progetti di pace, a partire da Erasmo da Rotterdam, scorgono prevalentemente cause psicologiche delle guerre come l’aggressività, o la mania di espansione dei sovrani, e quindi quasi sempre culminano in un appello ai prìncipi. Kant, invece, è stato detto, ha completamente laicizzato e modernizzato la diagnosi della situazione di guerra: questa non dipende dal vizio, dal male, non dipende da cattiva inclinazione psicologica, ma è dovuta a cause iscritte nella struttura sociale: è la struttura sociale dell’Ancien Régime, dell’assolutismo, a essere matrice inesauribile di guerre. Kant sposta la diagnosi dalla cattiva inclinazione dell’uomo, dallo spirito di aggressività dei prìncipi, a qualche cosa che invece si annida all’interno della società stessa. Il suo libro parte da basi nuove, risente molto delle speranze della Rivoluzione francese.

Duccio Canestrini Angela Taraborelli

FONTE http://www.iisf.it/scuola/kant/kant_pace.htm

Eremo Via vado di sole , L’Aquila ,

sabato 28 maggio 2011

venerdì 27 maggio 2011

CANZONIERE : Giovanni Giudici “Una sera come tante” (II )

CANZONIERE : Giovanni Giudici “Una sera come tante” (II )


Una sera come tante, e nuovamente

noi qui, chissa per quanto ancora, al nostro

settimo piano, dopo i soliti urli

i bambini si sono addormentati,

e dorme anche il cucciolo i cui escrementi

un`altra volta nello studio abbiamo trovati.

Lo batti col giornale, i suoi guaiti commenti.

Una sera come tante, e i miei proponimenti

intatti, in apparenza, come anni

or sono, anzi più chiari, più concreti:

scrivere versi cristiani in cui si mostri

che mi distrusse ragazzo l'educazione dei preti;

due ore almeno ogni giomo per me;

basta con la bontà, qualche volta mentire.

Una sera come tante (quante ne resta a morire

di sere come questa?) e non tentato da nulla,

dico dal sonno, dalla voglia di bere,

0 dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,

né dalle mie impiegatizie frustrazioni:

mi ridomando, vorrei sapere,

se un giorno sarò meno stanco, se illusioni

siano le antiche speranze della salvezza;

0 se nel mio corpo vile io soflra naturalmente

la sorte di ogni altro, non volgare

letteratura ma vita che si piega al suo vertice,

senza né più virtù né giovinezza.

Potremo avere domani una vita piu semplice?

Ha un fine il nosrro subire il presente?

Ma che si viva 0 si muoia é indifferente,

se private persone senza storia

siamo, lettori di giornali, spettatori

televisivi, utenti di servizi:

dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,

in compagnia di molti sommare i nostri vizi,

non questa grigia innocenza che inermi ci tiene

qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.

E' nostalgia di futuro che mi estenua,

ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!

Da quanti anni non vedo un fiume in piena?

Da quanto in questa viltà ci assicura

la nostra disciplina senza percosse?

Da quanto ha nome bonta la paura?

Una sera come tante, ed é la mia vecchia impostura

che dice: domani, domani... pur sapendo

che il nostro domani era già ieri da sempre.

La verità chiedeva assai piu semplici tempre.

Ride il tranquillo despota che lo sa:

mi calcola fra i suoi lungo la strada che scendo.

C’é piu onore in tradire che in esser fedeli a metà.

Descrizione della mia morte

Poiché era ormai una questione di ore

Ed era nuova legge che la morte non desse ingombro,

Era arrivato l`avviso di presentarmi

Al luogo direttamente dove mi avrebbero interrato.

L'avvenimento era importante ma non grave.

Cosi che fu mia moglie a dirmi lei stessa: prepàrati.

Ero il bambino che si accompagna dal dentista

E che si esorta: sii uomo, non é niente.

Perciò conforme al modello mi apparecchiai virilmente

Con un vestito decente, lo sguardo atteggiato a sereno

Appena un po’ deglutendo nel domandare: c’é altro?

Ero io come sono ma un po’ più grigio un po’ più alto.

Andammo a piedi sul posto che non era

Quello che normalmente penso che dovrà essere,

Ma nel paese vicino al mio paese

Su due terrazze di costa guardanti a ponente.

C`era un bel sole non caldo, poca gente,

L’ufficio di una signora che sembrava gia aspettarmi.

Ci fece accomodare, sorrise un po' burocratica,

Disse: prego di là - dove la cassa era pronta,

Deposta a terra su un banco, di sontuosissimo legno,

E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza.

Pensai per un legno così chi mai l`avrebbe pagato,

Forse in segno di stima la mia Citta o lo Stato.

Di quel legno rossiccio era anche l'apparecchio

Da incorporarsi alla cassa che avrebbe dovuto finirmi.

Sara meno d’un attimo - mi assicurò la signora.

Mia moglie stava attenta come chi fa un acquisto.

Era una specie di garrota 0 altro patibolo.

Mi avrebbe rotto il collo sul crac della chiusura.

Sapevo che ero obbligato a non avere paura.

E allora dopo il prezzo trovai la scusa dei capelli

Domandando se mi avrebbero rasato

Come uno che vidi operato inutilmente.

La donna scosse la testa: non sara niente,

Non é un problema, non faccia il bambino.

Forse perché piangevo. Ma a quel punto dissi: basta,

Paghi chi deve, io chiedo scusa del disturbo.

Uscii dal luogo e ridiscesi nella strada,

Che importa anche se era questione solo di ore.

C'era un bel sole, volevo vivere la mia morte.

Morire la mia vita non era naturale.

Sensi

Come per quotidiana intimità/ che più non ci sorprende del noi stesso

in piena luce in ombra e oscurità/abito non diverso nel tuo sesso:

lo guardo attento insieme a te patisce/il gentile morirsi d’ora in ora,

la lingua ti nomina e lambisce,/la mano ti medita e ti esplora

il respiro ti parla,il tuo tremore/del futuro svuotato m’impaurisce

l’orecchio accosto al cuore/ un tempo di brevi momenti scandisce:

dove in te scopro una terra evidente/che nei previsti confini concludo

mia familiare madre e parente/coscienza e corpo nudo.

La vita in versi

Metti in versi la vita, trascrivi

fedelmente, senza tacere

particolare alcuno, l'evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è

sapere, nè potere, bensì ridicolo

un altro voler essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s'allacciano

complicità di visceri, saettano occhiate

d'accordi. E gli astanti s'affacciano

al limbo delle intermedie balaustre:

applaudono, compiangono entrambi i sensi

del sublime - l'infame, l'illustre.

Inoltre metti in versi che morire

è possibile a tutti più che nascere

e in ogni caso l'essere è più del dire.

Eremo Via vado di sole , L'Aquila, venerdì 27 maggio 2011


CANZONIERE : E' morto il poeta Giovanni Giudici ( I )

CANZONIERE : E' morto il poeta Giovanni Giudici ( I )


Da anni Giovanni Giudici era assente dalla scena letteraria, da anni non uscivano suoi nuovi libri. Ma la sua presenza, l’importanza cruciale della sua opera nella nostra poesia del Novecento era un dato ormai acquisito, una certezza molto importante. Fin dal 1965, quando era uscita una delle sue opere maggiori (se non la maggiore in assoluto) e cioè La vita in versi, Giudici si era affermato per la sua straordinaria capacità di coniugare un’attenzione costante per la realtà concreta, personale e sociale, con la viva attività del sentimento, muovendosi su percorsi narrativi articolati e scioltissimi e dimostrando una capacità davvero magistrale di gestione dei materiali, della lingua, dello stile. In questo, Giudici è stato un poeta dotato di un estro espressivo strepitoso, il che gli consentiva di passare da toni bassi e prosastici e a vere e proprie impennate liriche con naturalezza estrema.



Nella sua Vita in versi Giudici ha saputo tratteggiare con ironia e vivacità estrema la condizione dell’uomo anonimo quotidianamente impegnato nei suoi piccoli affari e nelle sue ordinarie intenzioni. Lo ha fatto creando una sorta di alter ego, una specie di personale sosia impiegatizio al quale far esprimere una serie di mediocri frustrazioni, compresse tra un’educazione cattolica sempre riaffiorante e una speranza nel riscatto degli umili e nel socialismo. Ma anche questa dimensione non è stata che un aspetto della sua non comune capacità di apertura, della sua abilità nel muoversi su registri diversi. Come, per esempio, negli splendidi pezzi d'amore contenuti in Autobiologia (1969) o nelle riflessioni sulla morte presenti in O Beatrice (1972). Un altro dei momenti essenziali della sua opera è stata la pubblicazione di una raccolta come Il male dei creditori (1977), dove la versatilità della sua vena si manifesta con una padronanza dello stile sempre più solida e geniale. Indimenticabili sono pezzi di ampio respiro come Gli abiti e i corpi, dove Giudici sembra tracciare una gustosa e grottesca vicenda minore, a volte davvero esilarante, per poi arrivare a farci intendere che sta invece parlando della morte e del nostro modo di vederla e rimuoverla.


Giudici, come nessun altro, ha saputo agire su territori svariati con esiti impeccabili. Ha scritto versi comici e profondi insieme, fin dalla Vita in versi, ha raccontato il disagio di una condizione d’origine difficile (la perdita della madre da bambino) senza scendere mai nell’autobiografismo ovvio. Ha praticato la via di una poesia compressa e ardua, come una libera reinvenzione del sonetto con Salutz (1986), e nel 1993, con Quanto spera di campare Giovanni si è saputo inerpicare con efficacia su strade di profonda emozione rievocando in modo visionario la figura della madre in versi toccanti come questi: «Io che ero lì sul punto di fermarti: / Cosa fai dove vai / Tu che hai più di cent’anni e qui tuo figlio / Quasi settanta e perso nel suo mai».


Maturato nel tempo della neoavanguardia, Giudici ha saputo sperimentare in modo del tutto autonomo, avendo presente l’esempio di Umberto Saba e sempre forte il bisogno della comunicazione profonda. Ha avuto un senso spiccato per la forma nelle sue innumerevoli varietà possibili. La sua poesia ha il pregio di non essere classificabile all'interno di scuole o tendenze, ma di possedere una personalità del tutto autonoma e un timbro inconfondibile.


Giovanni Giudici era un uomo di grande affabilità e di cortese, generosissima disponibilità. Ha seguito la poesia dei più giovani, promuovendo diversi autori delle generazioni successive. È stato anche un giornalista culturale acuto e brillante, per l’Espresso, il Corriere della Sera, l’Unità. Ha condotto una vita in fondo semplice, lavorando come copywriter per la Olivetti e traducendo da varie lingue grandi autori, come Ezra Pound, Robert Frost, Sylvia Plath, ma anche, l’Evgenij Onegin di Puskin e gli Esercizi spirituali di Ignazio di Lojola. Era nato in Liguria, a Le Grazie, nel 1924, e si era formato a Roma, laureandosi in lettere classiche. Era poi passato alla Olivetti di Ivrea e dal '59 si era trasferito a Milano, per poi tornare negli ultimi anni al suo paese, dove si è spento. Lascia dunque un’opera poetica molto vasta e varia, raccolta nel 2000 in un Meridiano Mondadori con il titolo I versi della vita. Giovanni Giudici è un classico del Novecento, un autore a cui ritornare per comprenderne il grande valore di umana testimonianza nell’arte, e per amarlo.

Fonte : Maurizio Cucchi La Stampa 25.5.2011


Eremo Via vado di sole , L'Aquila,
venerdì 27 maggio 2011


giovedì 26 maggio 2011

LUOGHI E NON LUOGHI : Arcore

LUOGHI E NON LUOGHI : Arcore

Ma siete davvero convinti che tutto il malessere (o il benessere) degli italiani dipenda da Berlusconi e dalle sue comparsate alluvionali in tv? Siete davvero convinti che l'Italia sia trascinata nel baratro dal declino del suo leader, dato per bollito? Vi siete troppo info­gnati nella vicenda italiana e non riuscite più a vedere gli scenari più grandi di noi e le ragioni profonde e strutturali del presente. In Spagna crolla il mito di Zapatero e il suo governo, gli Indignados non reagiscono a don Silvio Berluscones e alla sua Derecha (la destra), ma alla Izquierda (la sinistra) e al suo fallimento; in Germania e negli Stati Uniti, in Francia e in Austria, i governi de­strorsi e sinistrorsi perdono consensi. La de­stra estrema avanza quasi ovunque nel nord Europa perché cavalca il malconten­to. Ma lo cavalca, non lo inventa: il malcontento è autentico, diffuso e contagioso.


E noi facciamo risalire il malessere italia­no a qualche battuta greve o fuori posto, a qualche eccesso di promesse e di tv, a pur deprecabili intemperanze sessuali o barze­lette... In realtà, se alziamo un po' gli occhi, ci rendiamo conto che i veri problemi del nostro Paese sono i problemi del nostro tem­po. La percezione della crisi è globale ed epocale, non può essere casereccia o televi­siva. Il precariato, il rincaro della benzina, la diffusa sensazione di un impoverimento, la difficile integrazione dei flussi migratori, l'insicurezza sociale, l'incapacità di uscire dalla crisi dei consumi, gli abusi di sesso e di potere (vedi il caso Strauss-Kahn o la tempesta pedofila sulla Chiesa), colpiscono l'Occi­dente e i suoi santuari religiosi, laici e finan­ziari. E noi ci crogioliamo nella nostra dome­stica anomalìa, pensando che tutto dipen­da dai prodotti locali e dai vizi del berlusconismo. Accecati dai bagliori del nulla nostra­no, abbiamo perso il senso del nostro tem­po e dell'Occidente. Non siamo più capaci di pensare scenari più ampi, ci siamo chiusi in questo provincialismo malato, domina un pensiero corto e malcavato che in realtà non pensa ma si lamenta o elude la verità attraverso l'invettiva e il capro espiatorio.


Ma davvero credete che facendo saltare il tappo del berlusconismo avverrà la libera­zione d'Italia e la salvezza degli italiani, fini­rà il degrado morale e civile e riprenderà l'economia, la salute e l'occupazione? Vi in­dignano le promesse elettorali della Morat­ti e di Berlusconi, ma sono poca cosa rispet­to alle aspettative enormi che state alimen­tando sul dopo Berlusconi. Per carità, la cr­tica politica va esercitata con implacabile ri­gore, fino in fondo. Ci sono problemi specifici nel nostro Paese che vanno affrontati e denunciati. E viceversa, è doveroso parago­nare le offerte politiche sul campo, sceglie­re mali minori o mali necessari, rispetto a mali peggiori e minacce venture. Ma è tem­po di sollevare lo sguardo, allungare il pen­siero e non ridurre il malessere generale al­la faccia di Berlusconi in tv. Il mondo non finisce ad Arcore

Marcello Veneziani : Il mondo non finisce ad Arcore Il Giornale 24 maggio 2011 .

Eremo Via vado di sole , L'Aquila, giovedì 26 maggio 2011


BIBLIOFOLLIA : La fiera del libro “Volta la pagina “ .Legal-mente ,una giornata di incontri e dibattiti sul tema della legalità

BIBLIOFOLLIA : La fiera del libro “Volta la pagina “ .Legal-mente ,una giornata di incontri e dibattiti sul tema della legalità


Giornata importante quella di giovedì 26 maggio nell’ambito del programma della manifestazione “ Volta la carta “ Fiera dei libri e non solo, che si tiene a l’Aquila nel complesso della ristrutturata ex cartiera del Vetoio . Importante e interessante sia per la partecipazione di scrittori, scienziati conosciuti e apprezzati come Dacia Maraini, Margherita Hack ma anche per il tema. Un tema che tocca non poco la vita del nostro paese, che impregna la riflessione e la formazione anche delle giovani generazioni.

Non a caso la mattina ha visto l’incontro dei relatori con gli studenti delle scuole medie e superiori di L’Aquila. Un tema, si diceva, che chiama a raccolta proprio l’essenza del cittadino e della democrazia che appunto nella difesa della legalità trovano la loro “migliore vita “. Perché per esempio, anche i temi affrontati dalla professoressa Hack nel suo colloquio con Marco Santarelli ricercatore del CNR-INFM, che sembrano essere molto lontani dal tema della legalità ,in realtà diventano pregnanti quando si parla , per esempio e tra l’altro, dell’uso della scienza e della tecnica volte al solo profitto di parte che è come dire : un invito alla criminalità organizzata ad allungare le mani.

Ma se sul tema della legalità inteso anche come lotta alla criminalità organizzata nelle sue espressioni più conosciute , a partire dalla mafia, si potrà tornare illustrando i report, gli scritti, i racconti e l’impegno di alcuni autori ed editori sembra qui interessante soffermarsi un attimo su un dono che Margherita Hack e Marco Santarelli hanno voluto fare alla città di l’Aquila permettendo di stampare in volume proprio la loro conversazione.

Ne è venuto fuori un libro pubblicato dalla Arckhè Edizioni i cui operatori, detto per inciso sono il motore della manifestazione “Volta la pagina “.


Un libro che riferisce su una conversazione “ quasi un colloquio informale che ricalca e segue le tracce lasciate dalla tematiche delle cinque giornate della Fiera: il rapporto di continuità tra scienza antica e moderna; l’etica nella comunicazione scientifica ; il ruolo della donna in una società “ invisibile “; i nuovi e i vecchi confini ; i micro e i macro-cosmi. Un libro il cui ricavato sarà devoluto alla Fondazione Danilo D’Antimo , che si occupa della cura e dell’assistenza all’infanzia in generale.”

Temi interessanti anche per questo blog che per esempio si chiama “ Osservatorio di confine” perchè tenta di esplorare ( almeno nelle intenzioni ragionate e dichiarate all’interno di una presa di coscienza dell’essere ) e terre di confine, non di frontiera, proprio come tentativo si riposizionare vecchi confini in nuovi confini nella poesia, nella letteratura, nell’arte e via dicendo.

Confini che stando ad alcuni ragionamenti della Hack guardano , per esempio agli ogm e alla energia nucleare ,con maggiore attenzione . Quella attenzione che purtroppo a volte manca, ed è una parte del succo della conversazione tra Margherita Hack e Marco Santarelli ,nella informazione scientifica. Una informazione che manca , che è manipolata, che costringe il ricercatore ad una solitudine a volte pericolosa, che non mette l’accento sui rapporti tra scienza e tecnica, che non apre dibattiti su scienza e politica.

Che in una parola non permette al cittadino di formarsi una propria opinione escludendolo da quelle che sono le decisioni dei politici, dell’industria, delle religioni ; decisioni che però in definitiva lo coinvolgono e ne determinano la vita stessa .

E ancora parlando della iniziativa del libro appare chiaro che “grazie alla notorietà e al valore dei due autori , aiuterà a mantenere i riflettori accesi sulla situazione di oblìo crescente , soprattutto da un punto di vista mediatico , che , a due anni dal terremoto ,sta vivendo l’Aquila .


Eremo Via vado di sole , L'Aquila,giovedì 26 maggio 2011



martedì 24 maggio 2011

COTTO E CRUDO : Le acciughe di Kafka

COTTO E CRUDO : Le acciughe di Kafka


La nostra epoca, denuncia James Hillman, è ossessionata dai piaceri della gola. Ma la sua ossession'e assomiglia più alle tentazioni combattute dagli eremiti che alle orge dei gourmet.

«Venìte a mangiare l'arrosto del re!», diceva Federico Il di Prussia. Il re filosofo amava avere molti ospiti ma, se la conversazione era brillante, la mensa risentiva dell'avarizia regale. Era buona; insinuava, Voltaire, come poteva sserlo,in un paese in cui non c’è selvaggina',né carne passabile, né pollì. Per morire d'indigestione a causa di un monumentale pastìccìo d'aquila ai tartufi, il filosofo La Mettrìe, membro della sua corte, dovette pranzare da uri diplomatico francese.


La sobrietà non esime dalla golosità. Per Stendhal il pasto ideale era: una bistecca e un cosciotto cotti al punto giusto, un, frutto, un gelato e un caffè. Ma proclamava: «Gli spinaci e Saint¬Simon sono state le mie sole passioni durature».

La tavola può favorire gli incontri, ma anche affondarli. Vigny, devoto ai Borboni, cenava da Luigi Filippo, osservando sospettosamente l'usurpatore .Era una cena intima; Luigi Fllìppo infatti voleva guadagnarlo alla sua causa. Nel nuovo stile della monarchia .borghese i domestici erano senza livrea e i presenti non indossavano l'abito di gala.


Se la regina Maria Amelia era piacevolmente simile a Maria Antonietta, il marito faceva un errore dopo l'altro. Era arrivato in ritardo, si disinteressava della conversazione generale, metteva i gomiti sulla tavola. Dopo aver lungamente girato lo zucchero nel caftè, aveva posato a tazzina senza toccarla, poi aveva inchiodato l'ospite in un angolo, sommergendolo di vane parole.

Congedandosi,Vigny disgustato, decise di ritrarsi .dalla sua epoca, per vivere «indipendente, inoffensivo e in disparte».

Un menu modesto può avere maggior successo, ma dipende da chi lo prepara. Quando era particolarmente povera, la principessa di Belgioioso cucinava per gli ospiti un'omelette direttamente nel camino. . ..... -.'

La Favette guardava incantato quella giovane donna snella ed elegante affaccendarsi con la pentola tra le bellissime mani scarne.

Non è sempre consigliabile alternare alle diete un'orgia culinaria. Abitualmente sobrio e astemio, Balzac si concedeva ogni tanto «un po' di gozzoviglia». Allora poteva scolarsì una serie di bottiglie di Vouvray, .un bianco fortissime e mangiare con appetito pantagruelico. Intanto trasformava i cibi in altrettanti romanzi.


L'origine delle bottiglie arretrava nei secoli, il rum usciva da una botte che aveva galleggiato per centoventi anni sul mare: per rompere la crosta di conchiglie c'era voluta un'accetta. Gli amici temevano .Ia terrìbile. purea di cipolle che faceva fabbricare su sua ricetta e apprezzavano le magnifiche pere, che lo scrittore divorava in quantità.

La golosità può provocare vivide emozìoni .A Zola tremavano le mani quando portava alla bocca un'ostrica o un frutto di mare freschissimo.


Proust era meno goloso, .ma più esigente in.fatto dì ernozioni .Al ristorante, si accontentava di spiluccare i piatti preferìti, dal boeuf à la mode al riso all'imperatrice, candido come gli abiti della moglie di Napoleone III.

Probabilmente, se invece dì un'ombra di madeleine ne avesse divorato tutto un vassoio, non avrebbe scoperto la memoria involontarìa.

Dumas, come testimoniava la sua pancia, cucinava e scriveva con la stessa facìlìtà anche se in entrambi il volte eccedeva in immagìnazione.come quando aveva compilato la ricetta per la

zampa d'elefante.

D'altronde, come diceva sempre lui: «L'uomo non vive di quel che mangia, ma di quello che digerisce». Certo, quando non si digerisce, è meglio prenderla con fiÌosofia. «La sera», confessa Kafka, «ero trìste pérché avevo mangiato delle acciughe. Il mattino il medico mi confortò. Perché essere triste? Dopotutto ho mangiato le accìughe, ma le acciughe non hanno . mangiato me»

Fonte Letterati a tavola. Giuseppe Scaraffia Le acciughe di Kafka e gli spinaci di Stendhal

Il Sole 24 ore, n17 24 aprile 2011.


Eremo Via vado di sole, L'Aquila,
martedì 24 maggio 2011