sabato 28 gennaio 2012

LETTERE DALL’EREMO : L'esempio migliore

LETTERE DALL’EREMO : L'esempio migliore  

San Tommaso D’Aquino, il nostro grande conterraneo di cui si celebra oggi, 28 gennaio, la memoria, ci indica dove trovare l’esempio migliore per le diverse situazioni della nostra vita

" Fu necessario che il Figlio di Dio soffrisse per noi? Molto, e possiamo parlare di una duplice necessità: come rimedio contro il peccato e come esempio nell’agire.
Fu anzitutto un rimedio, perché è nella passione di Cristo che troviamo rimedio contro tutti i mali in cui possiamo incorrere per i nostri peccati.
Ma non minore è l’utilità che ci viene dal suo esempio. La passione di Cristo infatti è sufficiente per orientare tutta la nostra vita.
Chiunque vuol vivere in perfezione non faccia altro che disprezzare quello che Cristo disprezzò sulla croce, e desiderare quello che egli desiderò. Nessun esempio di virtù infatti è assente dalla croce.
Se cerchi un esempio di carità, ricorda: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13).
Questo ha fatto Cristo sulla croce. E quindi, se egli ha dato la sua vita per noi, non ci deve essere pesante sostenere qualsiasi male per lui.

 Se cerchi un esempio di pazienza, ne trovi uno quanto mai eccellente sulla croce. La pazienza infatti si giudica grande in due circostanze: o quando uno sopporta pazientemente grandi avversità, o quando si sostengono avversità che si potrebbero evitare, ma non si evitano.
Ora Cristo ci ha dato sulla croce l’esempio dell’una e dell’altra cosa. Infatti «quando soffriva non minacciava» (1 Pt 2, 23) e come un agnello fu condotto alla morte e non apri la sua bocca (cfr. At 8, 32). Grande è dunque la pazienza di Cristo sulla croce: «Corriamo con perseveranza nella corsa, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli, in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia» (Eb 12, 2).
Se cerchi un esempio di umiltà, guarda il crocifisso: Dio, infatti, volle essere giudicato sotto Ponzio Pilato e morire.
Se cerchi un esempio di obbedienza, segui colui che si fece obbediente al Padre fino alla morte: «Come per la disobbedienza di uno solo, cioè di Adamo, tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5, 19).
Se cerchi un esempio di disprezzo delle cose terrene, segui colui che è il Re dei re e il Signore dei signori, «nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2, 3). Egli è nudo sulla croce, schernito, sputacchiato, percosso, coronato di spine, abbeverato con aceto e fiele.
Non legare dunque il tuo cuore alle vesti ed alle ricchezze, perché «si sono divise tra loro le mie vesti» (Gv 19, 24); non agli onori, perché ho provato gli oltraggi e le battiture (cfr. Is 53, 4); non alle dignità, perché intrecciata una corona di spine, la misero sul mio capo (cfr. Mc 15, 17); non ai piaceri, perché «quando avevo sete, mi han dato da bere aceto» (Sal 68, 22).
Dalle «Conferenze» di san Tommaso d’Aquino, sacerdote
(Conf. 6 sopra il «Credo in Deum»)
Pietroalviti's Weblog  http://networkedblogs.com/tgi0T
Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 28 gennaio 2012

ET TERRA MOTA EST : Ci si potranno mettere 10, 15, 20 anni. Ovvero “Diem perdidi “

ET TERRA MOTA EST  :  Ci si potranno mettere 10, 15, 20 anni. Ovvero  “Diem perdidi  “


Sono passati quasi tre anni dal sisma che il 6 aprile 2009 ha distrutto L'Aquila, ma nel centro storico della città la ricostruzione non è ancora partita. Proprio per accelerare l'inizio degli interventi e integrare le iniziative volte allo sviluppo del capoluogo abruzzese,  il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha conferito al ministro per la Coesione territoriale, Fabrizio Barca, l'incarico di attivare un tavolo, cui contribuiranno in modo specifico, Antonio Catricalà e le strutture della presidenza del Consiglio, i ministri interessati e la ragioneria generale dello Stato. Lo ha reso noto la presidenza del Consiglio.

E proprio oggi il sindaco dell'Aquila, Massimo Cialente, ha presentato il piano di ricostruzione, strumento tecnico e di programmazione della rinascita del centro storico del capoluogo di regione abruzzese, che prevede oltre 5 miliardi per gli interventi all'Aquila e nelle sue frazioni.

Un documento più volte fonte di polemiche, perché sollecitato dalla struttura commissariale, dal ministero dell'Economia, dalla Protezione civile e anche di recente dal presidente del Consiglio, Mario Monti. In particolare, si tratta di un programma da 3,5 miliardi per L'Aquila e oltre 1,5 per le frazioni. È articolato in quattro grandi sezioni: le linee di indirizzo strategico, lo stralcio per il capoluogo, quello per le frazioni e quello per i progetti strategici futuri. La chiave sono gli interventi "diretti", quelli conformi all'attuale piano regolatore del capoluogo, risalente al 1975 che, per l'amministrazione, potrebbero partire subito, anche se oggi è stato lanciato l'allarme sulla filiera tecnica.


Secondo le tappe enunciate dall'assessore alla Ricostruzione Pietro Di Stefano nella conferenza stampa di oggi, già giovedì 2 febbraio il piano sarà al vaglio della seconda commissione consiliare (Territorio); poi sarà presentato brevemente alle dieci circoscrizioni; quindi il passaggio in Consiglio comunale.

Seguiranno le consultazioni previste dal nuovo regolamento sulla partecipazione, con 15 giorni per fare osservazioni dopo la pubblicazione. Un altro passaggio in Consiglio suggellerà l'approvazione definitiva. Stimolato dai cronisti sulla possibilità di avere un piano esecutivo prima dell'estate, Di Stefano ha risposto: "Credo di si, anche se abbiamo le elezioni, un intermezzo da considerare". Il 6 e 7 maggio, infatti, nel capoluogo si vota per il rinnovo del Consiglio comunale. Una buona parte di operatività, comunque, il piano la prende con l'adozione". Ancora prima dell'intesa con la struttura commissariale, secondo Di Stefano "la semplice approvazione del piano potrà consentire la presentazione dei progetti, almeno di quelli che non vanno in variante di Prg". L'intesa, infatti, "dovrebbe essere stipulata in mezzo tra l'approvazione e l'adozione, dice il decreto 3, però, secondo una recente nota della struttura tecnica di missione, ora l'intesa sta a valle di tutto".

"Il rischio che L'Aquila sia una Pompei moderna non esiste, ma bisogna capire quali saranno i tempi. Ci si potranno mettere 10, 15, 20 anni, a seconda di quanto saranno bravi soprattutto i comuni, ma sul fatto che si ricostruirà non c'è ombra di dubbio". Lo ha affermato il presidente della Regione Abruzzo e commissario delegato per la ricostruzione, Gianni Chiodi. "Qualcuno ha fatto credere agli aquilani che la ricostruzione sarebbe avvenuta in tempi brevi - ha aggiunto Chiodi - invece ci vorrà molto tempo. Quello che manca all'Aquila è la serenità. Per ricostruire ci vogliono coloro che diffondono e alimentano speranze. Siamo di fronte a normative non più emergenziali. Gli appalti richiedono tempi lunghi". Il presidente si è poi soffermato sulla ricostruzione del centro storico: "ribadisco che solo oggi sembrerebbe che il Comune dell'Aquila abbia reso noto il piano di ricostruzione - ha detto il presidente -. D'altronde è una legge voluta da noi ad imporlo. È il ministero dell'Economia a richiederci i piani di ricostruzione, così da poter elaborare una stima dei costi".
Che cosa aggiungere all’articolo di Piera Matteucci ? Dunque a conti fatti nella vita di un aquilano  l’attesa è di dieci, quindici , venti anni per riavere una abitazione, una scuola, un posto di lavoro ,un ufficio pubblico . Tempi biblici in  rapportoi appunto al tempo di una vita specialmente se le persone che aspettano sono già anziani.
Alternative ?   Forse meno chiacchiere, liti, personalismi  e chi ha più ne metta ? Dobbiamo esclamare allora con gli antichi latini “ diem perdidi “(Ho perduto la giornata )  parole che Svetonio attribuisce a Tito ,imperatore romano  che fu detto delizia del genere umano  il quale, avendo trascorso una giornata  senza trovar l’occasione  di largire qualche beneficio , avrebbe preferita la storica frase.

Fonte :  PIERA MATTEUCCI  (27 gennaio 2012) La Repubblica

Eremo Via vado di sole , L’Aquila,  sabato  28 gennaio 2011

venerdì 27 gennaio 2012

27 gennaio, Giorno della Memoria

27 gennaio, Giorno della Memoria


"Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario", Primo Levi.
Nel dare alle stampe, nel 1987, il suo libro Les assassins de la mémoire,(1) lo storico francese Pierre Vidal-Naquet osservava nella Prefazione: “Questo libretto è nato da una constatazione: da circa due anni l’impresa ‘revisionista’ (2) - intendo quella che nega le camere a gas hitleriane e lo sterminio dei malati di mente, degli ebrei e degli zingari, e di appartenenti a popoli considerati radicalmente inferiori, in particolare gli slavi - ha assunto un’ampiezza inquietante. Una setta, minuscola ma tenace, consacra tutti i suoi sforzi e usa ogni mezzo (volantini, storielle, fumetti, studi sedicenti scientifici e critici, riviste specializzate) al fine di distruggere, non la verità, che è indistruttibile, ma la presa di coscienza della verità”.
Duole riconoscere che, nonostante i progressi registrati sulla conoscenza della Shoah - divenuti particolarmente significativi, per quantità e qualità, soprattutto negli ultimi cinque lustri -, la mala pianta del “revisionismo” di tipo “negazionista” non solo non è stata estirpata dal contesto internazionale, ma continua a vivere periodicamente di tanto inattese quanto effimere fioriture. La riprova, ultima in ordine di tempo, la si è avuta di recente da noi, (3) allorché non è mancato chi ha pensato di riproporre le tesi ormai stantie del saggista Robert Faurisson,(4) che però questa volta hanno avuto una significativa ricaduta: quella di spostare decisamente il dibattito, come mai era accaduto prima, dal piano storico e culturale a quello giuridico e legalitario. Ne è testimonianza la richiesta avanzata da esponenti del mondo della politica e della cultura, i quali, in modo trasversale agli schieramenti di appartenenza, hanno richiesto che, anche in Italia, sulla scorta di quanto già avviene in altri Paesi europei (Germania, Austria, Francia), i “negazionisti” siano perseguiti per legge.
La questione è indubbiamente spinosa: infatti, se preoccupante è la pervicacia con la quale i “negazionisti” persistono nel fuorviare le nuove generazioni da quella “presa di coscienza” cui accennava Vidal-Naquel, esiziale è il quadro di riferimento entro il quale tale opera di intorbidamento delle coscienze oggi si inserisce. L’azione dei “negazionisti”, infatti, mentre da una parte si svolge in un mondo scosso da pulsioni xenofobe e razzistiche - che, intrecciandosi con gli effetti prodotti dall’attuale crisi economica e sociale, hanno creato in varie zone del mondo una miscela esplosiva di straordinaria pericolosità -, dall’altra si inquadra in quell’uso allargato della più moderna tecnologia (si veda ad esempio il web), che consente alle idee “negazioniste”, rimaste fino ad oggi appannaggio di una minuscola irrilevante “setta”, di raggiungere ed influenzare un pubblico sempre più vasto.
Di qui la necessità che la vigilanza democratica sia oggi concentrata, in particolare, su quelle dinamiche riguardanti l’“uso pubblico” della storia, sui cui pericoli, circa un ventennio fa, ci aveva messo in guardia Jacques Le Goff, per il quale “impadronirsi della memoria e dell’oblio è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degli individui che hanno dominato e dominano le società storiche. Gli oblii, i silenzi della storia, sono rivelatori di questi meccanismi della memoria collettiva”. (5)

E tuttavia, per quanto necessitati a tener conto sia degli effetti perniciosi prodotti dagli “oblii” e dai “silenzi” della storia, sia - come abbiamo detto - dalle ricorrenti manipolazioni e/o dal pervicace stravolgimento della verità -, rimaniamo dell’avviso che il problema del “negazionismo” debba essere in primo luogo affrontato e risolto, più che in sede giudiziaria, in sede di confronto culturale, sulla scorta di proposte nuove e sempre più incisive. Su questo punto conveniamo, ad esempio, con quanto di recente ha avuto modo di asserire Marcello Flores, che, a margine della recente polemica sollevata - come si è detto - dal “negazionismo” nostrano, in una lettera inviata a “la Repubblica” ha osservato: “Risolvere un problema culturale e sociale certamente rilevante con la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione non può che favorire la passività nell’individuare risposte culturali e sociali efficaci”. (6)
Se dunque ci si riconosce nella tesi secondo la quale il pericolo con il quale ci si deve oggi confrontare è innanzitutto rappresentato dalla “passività” - indefettibile generatrice di inerzia spirituale e di abitudini più o meno conformistiche -, allora non si può non riconoscere che il modo migliore per dare “senso” alla memoria - a cominciare dal giorno della sua celebrazione ufficiale, il 27 gennaio di ogni anno - sia quello, ad esempio, di tornare a riflettere con rinnovata lena sul tema cruciale della Shoah, attenti soprattutto ad evitare i rischi connessi al solo ritualismo, anticamera prima o poi di una prevedibile rimozione.


Ridare impulso alla ricerca storica

Tornare però a riflettere in forme sempre rinnovate sulla Shoah vuol dire anche, al tempo stesso, essere disposti a rimettere in discussione gli esiti stessi di talune ricerche, memori di quanto Vidal-Naquet ci ricordava, allorché, nella Prefazione alla sua già citata opera, così aveva osservato: “il modo di selezione della storia funziona diversamente dal modo di selezione della memoria e dell’oblio”.
Ebbene, dal momento che storia e memoria sono state sempre in conflitto tra di loro, oggi ci sembra che la priorità sia costituita proprio da una loro possibile ricomposizione. E questo, per l’incalzare di almeno per tre ordini di motivi.
Il primo, la necessità, di colmare il vuoto che si va creando a seguito della scomparsa dei testimoni. (7) Tale circostanza, inevitabile, sta infatti condizionando le nuove generazioni, le quali, non potendo più beneficiare del racconto orale, sono costrette ad avvicinarsi all’esperienza della Shoah in maniera sempre più irrelata. La stessa ritualità, cui nel futuro prossimo sarà affidato il compito di tutelare e rinnovare presso di loro il ricordo, sarà inevita- bilmente soggetta a quell’azione corrosiva del tempo, i cui esiti devastanti, come suggerisce l’esperienza, lasciano ben pochi margini alla speranza.
Il secondo motivo investe il bisogno di conservare i documenti in nostro possesso e di tutelarli attraverso la ricerca di supporti materiali durevoli, adatti insomma a fissare e trasmettere, sui tempi lunghi, i contenuti relativi a quella come ad altre memorie. L’esorbitante mole di materiali di cui oggi disponiamo ci pone di fronte a un duplice problema: da una parte quello della catalogazione, dall’altra quello della conservazione. Un grido d’allarme sull’usura di tali materiali è stato lanciato da Tullio Gregory, il quale, per denunciare la pericolosità di un processo ormai in pieno corso, ha osservato: “Uno dei tanti paradossi che sottendono le nostre società, e del quale ci si rende ogni giorno più consapevoli, è costituito dalla compresenza di due dinamiche in opposta tensione: da un lato lo smisurato aumento di documenti prodotti dalle strutture culturali, economiche, industriali, istituzionali, dall’altro il rapido processo di decomposizione e di perdita dei documenti stessi. Forse il simbolo più appropriato di questo paradosso è rappresentato dai fax: mezzo di comunicazione che in questi ultimi anni ha avuto una diffusione rapidissima, capillare, spesso domestica, il fax diviene rapidamente illeggibile per la natura volatile dell’impressione”.(8)
Il terzo motivo infine interessa gli aspetti più direttamente connessi alla “pedagogia”, o alle “pedagogie”, della Shoah, dal momento che - come ha bene evidenziato Georges Bensoussan nella Premessa al suo libro L’eredità di Auschwitz - “la logorrea non esclude l’amnesia, esattamente come la commemorazione può divenire, un giorno, parola morta”. (9) Meno convincente, semmai, date le premesse, è la conclusione cui lo studioso francese perviene, allorché, allontanata da sé ogni remora di ordine metodologico, alla fine del suo ragionamento sostiene senza più tentennamenti: “La memoria è selettiva, per questo favorisce l’abbaglio. La Storia è più prosaica e disincantata. Il cammino che conduce dalla memoria alla storia rispecchia il processo di secolarizzazione proprio della modernità politica. Perciò, la nostra arma non è la memoria, che costruisce, demolisce, dimentica o edulcora, ma la sola Storia”.


L’annosa questione: storia/memoria

La questione è a tal punto controversa, che una studiosa come Aleida Assmann ha al contrario sostenuto: “Il passato, dal quale col passare del tempo ci allontaniamo sempre più, non è appannaggio solo degli storici di professione ma esercita anche un’influenza sul presente in forma di diritti e doveri contrapposti: oltre alle sintesi totalizzanti della storia al singolare esistono oggi memorie diverse, in parte tra loro contraddittorie, che rivendicano il loro diritto al riconoscimento sociale”.(10)
Come si vede, dei punti sopra indicati, è soprattutto l’ultimo a risultare il più urgente. Esso richiede un intervento che ci aiuti, almeno nel medio periodo, a superare i limiti impliciti tanto nella memoria quanto nella storia, verificando le possibilità operative connesse ad un loro possibile superamento. Allo stato degli atti, infatti, non si può certo disconoscere il valore centrale della storia, la quale, fondandosi sulla oggettivazione dei fatti e mutuando la sua struttura di pensiero dal logos greco, dà luogo ad una narrazione che, concepita nel senso della matematica e dell’organizzazione, è fatta più per esaltare la veridicità del “documento” che per coinvolgere con il pathos del suo messaggio. D’altra parte non si può certo sottovalutare l’importanza della memoria, la quale, fondandosi su ragioni private, di natura tanto soggettiva quanto collettiva, tende però ad assumere i toni inevitabilmente poetizzanti ed affabulatori del “mito” (dal greco muthos=racconto).
Superare l’impasse significa risolvere le conseguenze che ne derivano. La prima riguarda la questione della forma: mentre la prosa con la quale si esprime la storia non può che essere asettica, disincarnata, a bassa densità di coinvolgimento, quella con la quale si esprime la memoria, al contrario, non può che essere personale, fortemente partecipe, in sommo grado coinvolgente.
La seconda questione investe il contenuto: mentre la storia ricorre alle categorie di spazio e di tempo per ribadire l’irreversibilità dei fatti (un fatto accaduto, proprio in quanto “accaduto”, non può accadere di nuovo), la memoria ha la sua ragion d’essere proprio nella reversibilità, l’unica in grado di consentirle di assurgere alla dimensione della ubiquità, nel senso di essere spazialmente universale, temporalmente illimitata, esistenzialisticamente valida per ogni luogo e per ogni tempo.
Chi del resto si era espresso per un superamento del tradizionale contrasto tra storia e memoria, dichiarandosi per la loro complementarità, è stato Tzvetan Todorov, il quale in Noi e l’altro, dopo aver attentamente disaminato l’intera questione, concludeva: “Se vogliamo conoscere dall’interno le esperienze di soggetti di ideologie opposte, faremo bene ad ascoltare il racconto del miliziano e quello del partigiano. Se vogliamo conoscere il valore di queste posizioni, le conseguenze pratiche di entrambe, il rapporto tra parole e fatti, faremo meglio a rivolgerci ai lavori degli storici. Se vogliamo conoscere il destino dei deportati di Kolyma, non abbiamo che da scegliere tra l’analisi storica di Conquest e la testimonianza di Evguénia Guinzbourg, non più che se noi scegliamo tra Raul Hilberg e Primo Levi: verità di adeguatezza e verità di rivelazione si completano”.(11)
Questa posizione, oltre ad essere in massimo grado equilibrata, ha anche il pregio di fornire una risposta a taluni “inquietanti paradossi”, emblematici del nostro tempo, che Bensoussan aveva indicato nella sua già citata opera con le seguenti allarmate parole: “dal 1945, l’insegnamento della Shoah e dei crimini nazisti non è mai stato fatto tanto bene quanto oggi. E mai, come oggi, la banalizzazione della xenofobia, del razzismo e dell’antisemitismo ha fatto tanti progressi. Mai, nelle scuole, si è parlato tanto bene del delirio nazista. Mai un’estrema destra che sostiene tranquillamente l’ineguaglianza delle razze umane ha raccolto così tanti voti. Inoltre, mai come ora, si mette in guardia contro il veleno intellettuale e spirituale rappresentato dall’antisemitismo”.
Se dunque oggi la malattia è quella denunciata da Bensoussan, posizione sulla quale non si può che convenire, il rimedio non può  certo essere quello di recente proposto da Cynthia Ozick. La scrittrice ebrea-americana, estremamente polemica per le posizioni critiche assunte dall’Europa nei confronti delle “politiche” di Israele negli ultimi decenni,(12) ha addirittura proposto - crediamo in modo provocatorio - di abolire tout court il “Giorno della Memoria”.
A nostro modo di vedere, proprio in quanto consapevoli che i pericoli in precedenza denunciati potrebbero aver ormai raggiunto, se non addirittura superato, il livello di guardia, oggi si tratta non già abolire, ma semmai di incentivare le pratiche della memoria della Shoah, la cui funzione primaria, come aveva già osservato Primo Levi in Se questo è un uomo, dovrebbe essere quella di consentire una costante verifica “di alcuni aspetti dell’animo umano”, seppure i più degradati e perversi. Solo in tal modo sarà davvero possibile procedere a quella integrazione tra storia e memoria che, auspicata da Todorov, potrebbe essere in grado di corrispondere alla doppia esigenza da una parte di sottrarre il genocidio ai rischi dell’occasionalità e della contingenza, dall’altra di difenderlo dai veleni di quel distorto “uso pubblico” della storia, di cui la mala pianta del “negazionismo” costituisce l’esempio più eclatante.

Nuovi filoni

Della necessità di una direzione nuova, che abbia come orizzonte quello di rendere veramente complementari “verità di adeguatezza” e “verità di rivelazione”, sembrano essere consapevoli taluni storci e letterati, di cui vale la pena di riferire.
Tra gli storici, ad esempio, si è di recente segnalato lo studioso israeliano Daniel Blatman il quale - collocandosi per certi versi sulla scia già tracciata dalla discussa opera di Daniel Goldhagen (13)  - ha aperto, con il suo libro Le marce della morte. L’olocausto dimenticato dell’ultimo esodo dai lager, un importante campo di ricerca, foriero di sicuri ulteriori sviluppi. (14) L’opera, davvero pionieristica, sembra foriera di ulteriori positivi sviluppi, dal momento che oggi stanno diventando accessibili agli studiosi gli archivi dei paesi ex comunisti dell’Europa orientale. Tale apertura potrà essere d’ausilio a quanti, come indicato da Marina Catturuzza, vorranno, e potranno, finalmente “porre in termini molto più concreti la problematica del ‘luogo’ in cui l’Olocausto fu perpetrato” e il “luogo” “da cui proveniva la maggior parte delle vittime”.(15)
Nel campo delle lettere, si sono affermati scrittori che, fino a qualche anno fa ancora sconosciuti, sono oggi noti in quanto già “testimoni” di seconda o addirittura di terza generazione. Essi, nelle loro opere, hanno dimostrato come non sia impossibile tener conto tanto dell’“oggettiva” ricerca del vero, quanto delle ragioni del cuore, soprattutto quando in gioco è la riscoperta di una identità. I nomi che ci vengono da fare - se prescindiamo dalla ricchissima produzione artistica israeliana oggi esistente sulla Shoah, considerata come capitolo a sé e in particolare rappresentata, tra gli altri, da Yoram Kaniuk, David Grossman, Aharon Appelfeld - sono quelli, d’area anglo-americana, di Jonathan Safran Foer, Daniel Mendelsohn e Theo Richmond. (16)
Del resto, l’esigenza di tener in equilibrio la memoria familiare con la cronaca storica, e questa con la creazione letteraria, non è certamente nuova. Essa era già implicita nella scelta dei primi scrittori della Shoah, soprattutto da quelli i quali avevano inteso di assurgere al ruolo del “testimoni” in virtù della scrittura. Su questo punto, particolarmente preziose risuonano ancor oggi le parole del “salvato” Primo Levi, il quale, nella Prefazione all’antologia La vita offesa, aveva scritto: “Per il reduce, raccontare è impresa importante e complessa. è percepita ad un tempo come un obbligo morale e civile, come un bisogno primario, liberatorio, e come una promozione sociale: chi ha vissuto il Lager si sente depositario di un’esperienza fondamentale, inserito nella storia del mondo, testimone per diritto e per dovere, frustrato se la sua testimonianza non è sollecitata e recepita, remunerato se lo è”. (17)
Il tentativo di una unità di intenti tra storici e scrittori potrebbe cristallizzarsi proprio intorno al tema cruciale della “remunerazione”, dal momento che l’enorme debito che l’umanità ha contratto nei confronti dei “sommersi” attende ancora di essere onorato. Di più: se non vogliamo che la Shoah abbia a ripetersi, dobbiamo essere in grado di affinare ulteriormente i nostri strumenti di analisi per perseguire sul serio quello che dovrebbe essere un obiettivo comune: offrire validi strumenti teorici alle generazioni future, perché possano essere in grado di salvaguardare questa ed altre analoghe memorie storiche. L’augurio è insomma quello di far sì, come avviene nella staffetta, che il passaggio del “testimone” - non conoscendo soluzione di continuità - possa foscolianamente non avere mai fine, durando “finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane”. (18)
Ove poi l’espressione dovesse apparire ridondante, ci permettiamo di osservare che ad esigere una misura tanto vasta di tempo è la natura stessa della Shoah. Non è forse vero che ogni misura di tempo che dovesse risultare inferiore alla dimensione dell’eternità finirebbe inevitabilmente per non essere commisurata alla grandiosità spaventosa di quella tragedia, ormai entrata a far parte, in modo irrevocabile, della nostra storia?
Dunque, non abbiamo scelta: tanto profonda e oltraggiosa è stata l’offesa di cui l’uomo si è reso responsabile nei confronti dell’uomo!


Note
1 P.  Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire, Éditions La Découverte, Paris 1987. In italiano, Gli assassini della memoria, Editori Riuniti, Roma 1992.
2 I cinque testi che compongono il citato libro di Vidal-Naquet sono stati scritti, come viene indicato dallo stesso autore nella Prefazione, “fra il giugno 1980 e il giugno 1987”.
3 Alludiamo alle recenti reazioni suscitate dalla lezione, tenuta il 25 settembre sul tema della Shoah, dal  prof. Claudio Moffa, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Teramo.
4 La questione è stata a suo tempo oggetto di studio specifico da parte di V. Pisanty, in L’irritante questione delle camere  a gas. Logica del negazionismo, Bompiani, Milano 1998.
5 J. Le Goff, Memoria, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1979.
6 Si veda la lettera inviata da M. Flores a “la Repubblica” del 26 ottobre 2010, nella rubrica di “Lettere, commenti & idee”, diretta da Corrado Augias.
7 Su questo aspetto si veda il libro di D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino 2009.
8 U. Gregory, Introduzione a AA.VV., L’eclisse delle memorie, a cura di T. Gregory e M. Morelli, Laterza, Bari 1994.
9 G. Bensoussan, L’eredità di Auschwitz, Einaudi, Torino 2002.
10 A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, il Mulino, Bologna 2002.
11 T.  Todorov, Noi e l’altro. Scritti e interviste, Datanews, Roma 2007.
12 Questa posizione, in verità già espressa un anno fa, è stata di recente ribadita dalla scrittrice ebrea-americana Cynthia Ozick nell’intervista concessa a Susanna Nirenstein e comparsa su “la Repubblica” il 4 dicembre 2010.
13 D. J. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Mondadori, Milano 1996.
14 D. Blatman, Le marce della morte. L’olocausto dimenticato dell’ultimo esodo dai lager, Rizzoli, Milano 2009.
15 Si veda M. Cattaruzza, La storiografia della Shoah, in AA.VV., Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, vol. II, Utet, Torino 2006.
16 Ci limitiamo a citare tre sole opere, tra le più recenti, degli autori sopra indicati: J. Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda, Parma 2002; D. Mendelshon, Gli scomparsi, Neri Pozza, Vicenza 2007; T. Richmond, Konin, Instar libri, Torino 1998.
17 P. Levi, Prefazione a La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti, a cura di A. Bravo e D. Jalla, Angeli, Milano 1986.
18 U. Foscolo, I Sepolcri, vv. 294-295.


Fonte:  Articolo 33 n. 1-2/2011 http://www.edizioniconoscenza.it
Eremo Via vado di sole, L'Aquila, venerdì 27 gennaio 2012

OCCHIO DI GIUDA : Chiudono i manicomi criminali

OCCHIO DI GIUDA  : Chiudono  i manicomi criminali

Archiviare una storia disumana durata almeno ottanta anni . Millequattrocentotra uomini e donne rinchiusi negli ospedali psichiatrici giudiziari .Spesso detenuti per  piccoli reati   commessi  per quel male oscuro della follia  che impronta i comportamenti .
I cancelli dei manicomi criminali non si apriranno più per nessuno. E nelle carceri italiane ci saranno meno detenuti. Il Senato ha approvato il  con 26 i voti favorevoli, 40 contrari e 8 astenuti. Il provvedimento ora passa alla Camera, per convertirlo c'è tempo fino al 20 febbraio. All'interno anche un emendamento, deciso a maggioranza, che prevede la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo 2013.

Sono passati 600 giorni da quando, nel giugno 2010, la Commissione d'inchiesta del Senato sull'efficacia ed efficienza del Servizio sanitario nazionale entrò nel manicomio criminale Barcellona Pozzo di Gotto (Me). "Davanti a noi - racconta il senatore Ignazio Marino, presidente della commissione - uno spettacolo imbarazzante. Le lenzuola sporche, i muri scrostati dall'umidità, la muffa, i materassi accatastati, gli uomini lasciati senza cure e costretti in condizioni disumane. Il primo uomo che ho visto era nudo, legato con delle garze, sdraiato su un letto. Era in queste condizioni da cinque giorni".

Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, parlò allora di scene indegne di un Paese appena appena civile. E la Commissione avviò un'indagine sugli Opg di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), Aversa (Ce), Napoli, Montelupo Fiorentino (Fi), Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere. Le immagini raccolte durante le ispezioni diventarono un documentario. E la malattia mentale ha smesso di essere una ferita da nascondere alla società.
La legge, così come approvata dal Senato - spiega Marino - indica le caratteristiche e sancisce tempi certi per l'individuazione delle nuove strutture, interamente a carattere ospedaliero con una rete di vigilanza esclusivamente esterna, che permetteranno di superare gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Il termine è il 31 marzo 2013. "Questo voto responsabilizza tutti - dice il senatore - Stato Regioni, Magistratura. Nessuno potrà più dire 'io non sapevo' o 'io non posso', perché queste 1.500 persone internate, nella maggior parte dei casi senza garanzia delle cure e senza rispetto della loro dignita', devono da tutti noi essere percepite come una ferita ed una vergogna nel nostro vivere civile".

Soltanto così i folli, autori di un reato, potranno essere curati nel rispetto della dignità umana. "È importante intervenire su questa realtà - dice ancora Marino -. Basti pensare che dei 1500 pazienti rinchiusi negli Opg, poco più della metà (il 60%) è internato perché ritenuto socialmente pericoloso. Tutti gli altri non sono stati liberati perché non hanno un progetto terapeutico, non hanno una famiglia che li accolga o una Asl che li possa assistere. E' come se fossero rifiutati dai "loro" territori perché mancano le risorse".

Ma dove andrà chi è dentro? "Ci saranno strutture sanitarie in ogni Regione, le deciderà un decreto congiunto a firma del ministero della Giustizia e della Salute. Ognuna avrà un team composto da psicologi, psichiatri e personale medico pronto ad affrontare le esigenze dei malati autori di reato. La polizia penitenziaria invece farà vigilanza esterna".
di ADELE SARNO (25 gennaio 2012)  La Repubblica

Via libera al pacchetto carceri

Il provvedimento di chiusura dei manicomi giudiziari  fa parte dei provvedimenti per l'emergenza, insieme ad alcune misure per velocizzare la giustizia civile. Tremilatrecento detenuti verso l'uscita. Alzata  fino a 18 mesi la pena residua che si può scontare ai domiciliari. Stanziati 57 milioni per l'edilizia carceraria. Ma dal Pdl e dalla Lega si alzano voci.. Il Consiglio dei Ministri infatti  ha appena approvato i provvedimenti per l'emergenza carceri, insieme ad alcune misure per velocizzare la giustizia civile, messe a punto dal ministro della Giustizia, Paola Severino. Il 'pacchetto' prevede diverse misure normative per affrontare l'emergenza dei penitenziari con ampliamento della possibilità di detenzione domiciliare. Approvate anche le misure per il processo penale e per quello civile, che erano all'ordine del giorno. "Quelli che abbiamo approvato sono provvedimenti di emergenza, misure doverose, necessarie e urgentissime, ma la soluzione definitiva non può venire da queste norme, che sono un tampone, bensì da una riforma del sistema carcerario" spiega il Guardasigilli. Che pronuncia parole destinate a far rumore: "'Io non ho mai escluso che l'amnistia e l'indulto siano dei mezzi che contribuiscono ad alleviare l'emergenza carceri, ma ho sempre detto che non sono dei provvedimenti di matrice governativa: se questa indicazione verrà dal Parlamento io non la contrasterò".

Tra i primi effetti del pacchetto, l'uscita progressiva dal carcere di circa tremilatrecento detenuti, per effetto del decreto che alzerà fino a 18 mesi la pena residua che si può scontare ai domiciliari. Inoltre sancisce l'uscita dal circuito carcerario per gli arrestati in flagranza di reato, e in generale di quanti alimentano il fenomeno delle cosiddette 'porte girevoli', entrando in carcere per la sola immatricolazione per poi essere scarcerati o inviati ai domiciliari.
In questo caso il beneficio sarebbe di circa 21mila detenuti 'di passaggio' in meno ogni anno negli istituti detentivi italiani.  Assegnati, inoltre, 57 milioni per l'edilizia carceraria. mentre per il ministro "occorre valutare se estendere il sindacato di controllo dei parlamentari" alle celle in cui si trovano le persone arrestate in attesa della convalida da parte del magistrato.

I numeri. Il Governo stima che con il decreto legge in vigore potranno esserci fra i 15 ed i 20mila detenuti in meno. Attualmente ci sono nelle carceri italiane circa 67mila detenuti per circa 45mila posti. "Non possiamo quantificare con esattezza - dice Severino - quanti detenuti usciranno. La norma che riguarda le 'porte girevoli' per coloro che vengono arrestati per soli tre giorni riguarda 15-18mila detenuti. La norma che consente di scontare gli ultimi 18 mesi di pena agli arresti domiciliari riguarda 3mila persone".

Basta "porte girevoli". "Nel giro di 48 ore una persona saprà se dovrà andare in carcere, agli arresti domiciliari o in libertà" dice il ministro della giustizia che si riferisce al "fenomeno delle porte girevoli: vi sono circa 21 mila detenuti che entrano ed escono dal carcere nel giro di 3 giorni. Abbiamo pensato ad una soluzione nella quale il soggetto arrestato, limitandoci a reati di offensività limitata e contenuta e quindi non di allarme sociale, vengano portati direttamente ai luoghi di custodia e nel giro di 48 ore dal giudice che convaliderà l'arresto". Poi, spiega, ci sarà la libertà, gli arresti domiciliari o il carcere senza però passare per quella "ritualità faticosa e umiliante del passaggio in carcere. E' una difesa sociale e dei diritti di chi viene arrestato". Oggi, ricorda, "il periodo è più o meno il doppio, ora il periodo è abbreviato e non v'è passaggio in carcere". Per Severino "entrare e uscire dal carcere in tre giorni vuol dire creare problemi umanitari, sociali e di sovraffollamento".

Più domiciliari. Per i reati con una pena massima fino a 4 anni sarà possibile a discrezione del giudice applicare la condanna alla "reclusione detentiva ai domiciliari" spiega Paola Severino. "Si passa dal sistema cautelare preventivo - spiega il ministro - al sistema penale vero e proprio, prevedendo accanto alla sanzione della reclusione la reclusione domiciliare, con la prescrizione di particolari modalita' di controllo: non dei mezzi elettronici, che non ritengo opportuno attivare perchè devono ancora essere sperimentati e dimostrare di avere costi inferiori alla detenzione carceraria". Stando alle previsioni con l'estensione dei domiciliari a chi ha davanti a sè ancora diciotto mesi di detenzione si risparmieranno 375 mila euro al giorno.

"C'è stata collegialità". Il criterio della assoluta collegialita' è stato pienamente mantenuto anche in questa importantissima occasione - ha detto il ministro della Giustizia, Paola Severino - E' stato approvato un pacchetto di riforme alcune per l'emergenza carceri", altre riguardano "diritto ed economia" ed "efficienza della giustizia". Rappresentano "le linee portanti che avevo avuto modo di illustrare nelle commissioni di Camera e Senato e che    costituiscono il contenuto di tre gruppi di provvedimenti". "Il sovraffollamento delle carceri è il primo dei miei pensieri ed è per questo che ho scelto lo strumento del decreto legge - continua il ministro della Giustizia - E' tempo di mettere mano ad una seria riforma del sistema penitenziario ma sarei una sognatrice se pensassi di poterlo fare con le forze che mi accompagnano e con i tempi brevi di questo governo".

Controllo sui fondi. "Sarà mia cura -afferma il Guardasigilli - garantire che questo denaro venga speso nel migliore dei modi. Dobbiamo completare delle opere a buon punto di realizzazione, vi sono carceri costruiti a tre quarti, padiglioni che dovrebbero consentire un ampliamento il cui completamento dovrebbe esse4e realizzabile con questo stanziamento. Sono pronta a dare conto di ogni euro che verrà speso, deve essere speso per soluzione problema edilizia carceraria, nei limiti di quello che si può fare con questi mezzi".

Circoscrizioni giudiziarie. "Una giustizia del giudice di pace che funziona meglio è una giustizia più vicina al cittadino e che ha una estrema importanza" continua Severino che ha dato il via libera alla "revisione delle circoscrizioni in attuazione della delega già conferita, iniziando dai giudici di pace, per non avere sprechi"

Le polemiche. "Non è concepibile un provvedimento in materia di custodia cautelare così come ipotizzato dal Governo Monti, significherebbe abbassare la guardia nei confronti del crimine ed uno schiaffo all'impegno delle forze dell'Ordine che già adesso è oltre il limite"afferma in una nota Filippo Ascierto, parlamentare del Pdl. ma dal partito di Berlusconi si alzano altre voci critiche: "Dal foverno provvedimenti inaccettabili" dicono i parlamentari del Pdl Alfredo Mantovano e Guido Crosetto. Per il leghista Sergio Divina il ddl è "un indulto mascherato". Disco verde dal Pd: "Apprezziamo innanzitutto l'approccio innovativo imperniato prevalentemente su un uso più esteso delle misure alternative alla detenzione, sull'indirizzo di depenalizzare quei reati che non rappresentano grave allarme sociale e sul principio di maggiore garanzia e legalità nell'uso della custodia cautelare".
Fonte La Repubblica (16 dicembre 2011)

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, venerdì 27 gennaio

mercoledì 25 gennaio 2012

STORIE E VOCI DAL SILENZIO : Onora la madre

STORIE E VOCI DAL SILENZIO   :   Onora la madre

"Onora la madre" (con: Preziosa Salatino/ regia: Emilio Ajovalasit)  è una nuova produzione che affronta il rapporto fra donne e mafia.
 della a associazione Teatro Atlante di Palermo che, oltre alla ricerca teatrale e alla produzione di spettacoli, conduce da diversi anni laboratori teatrali per bambini e ragazzi nel quartiere Ballarò-Albergheria, uno dei più " a rischio" della città.
Ogni anno questo laboratorio si conclude con una parata-spettacolo che attraversa i vicoli del quartiere. Nel corso della conferenza verrà mostrata e commentata una documentazione video-fotografica di queste attività .
La storia narrata è quella di Annina, donna del Sud, una donna come tante, una storia come altre che ci mostra il dramma comune a tante donne meridionali: infanzie austere prive di carezze, matrimoni combinati, maternità precoci, vedovanze e lutti da ostentare, sottomissione ai propri mariti, spirito di abnegazione nei confronti della famiglia, rapporto difficile con i figli maschi e infine un sofferto e opprimente "senso dell'onore".

Leonarda Crisetti  nel suo libro “La condizione femminile nella società contadina      racconta la storia di una donna di Cagnano , Giovanna .

La questione femminile credo possa sintetizzarsi nell’insieme delle sofferenze della donna, dei problemi connessi allo sfruttamento, all’oppressione, all’emarginazione, alla sopraffazione culturale, alla mancanza di potere, al rischio di essere violentata. Una questione da sempre esistita, anche se solo di recente la società ne ha preso coscienza, dato che in passato sembrava naturale che la donna, ritenuta inferiore, dovesse sottostare all’uomo.
Entrando nel merito della questione femminile, qualcuno potrebbe pensare, che non ci sa più nulla da dire, dato che le donne hanno avuto la parità, mentre è vero, invece, che se da un lato è innegabile che la condizione della donna sia migliorata sotto il profilo sociale, culturale, economico e politico, dall’altro rimane ancora molto da fare, dato che non basta qualche legge per cambiare la realtà e soprattutto una mentalità ormai radicata nelle coscienze.
Ad ogni modo, per prendere atto dei cambiamenti, ho pensato di ripescare qualche dato significativo dalle storie di vita delle donne contadine, che ho avuto il piacere di raccogliere con gli studenti del liceo di Cagnano: 33 microstorie recuperate, andando a casa di queste nonne insieme ai giovani, perché concorressero ad imprimere un senso e una direzione alla vita dei nostri adolescenti, i quali non hanno sufficiente consapevolezza di com’eravamo.
La tradizione ci ha consegnato una visione dicotomica della donna: da una parte quella della donna angelo, che eleva l’uomo a Dio, dall’altra quella della donna tentatrice, che induce l’uomo al peccato. A questa visione non sono estranei i Padri della Chiesa, che raccomandavano alle madri di incutere nelle figlie la vergogna per la propria nudità, sollecitandole a coprirsi e a vestire abiti castigati. La tradizione ci ha consegnato la visione della donna soggetta prima al padre, poi al marito padrone. Questa donna, figlia, madre, moglie, contadina e bracciante, pastore, raccoglitrice, pescatore, lavorando accanto al marito o a padrone svolge un lavoro spesso non retribuito o mal pagato, quindi non riconosciuto, relegandola nel ruolo di subordinata. La sua condizione era inferiore, anche quando veniva corteggiata: è lui che doveva prendere l’iniziativa, che poteva scegliere, prendere e lasciare.

La condizione femminile è oggi mutata e per rendercene conto, vale la pena dare la parola alle protagoniste della società contadina, le nonne di oggi, giovani di allora. Tra le storie di vita contadina raccolte, ne ho scelto perciò una, quella di GIOVANNA, di cui mi piacerebbe parteciparvi alcuni passaggi. Vorrei aggiungere che nel trascrive il vissuto di queste donne, abbiamo intenzionalmente conservato la loro espressione, senza preoccuparci di correggerla molto sul profilo sintattico e lessicale, al fine di rappresentare uno specchio fedele della realtà contadina.
Mi chiamo Giovanna - dice la signora - sono nata il 4 maggio 1920 a Cagnano Varano, alla via de li Puzze. La chiamavano così perché c’erano i pozzi e là le persone andavano a prendere l’acqua. Io andavo pe lu varrìle, a ll’a ppède , scendevo dal Casale fino più sotto, vicino al vecchio cimitero di San Francesco. Lo portavamo in testa con la spàra , che facevamo con uno straccio, una maglietta, quello che capitava.
Era faticoso andare a prendere l’acqua, ma tutta la vita era faticosa, piena di sacrifici. Si cominciava dalla mattina presto, quando andavamo alla Sciumàra a jettà lu candere. Un’altra grande fatìja era quella del bucato, ci volevamo diversi giorni per andare a prendere l’acqua, per l’ammollo, lavare, passare, sciacquare, andare a stendere i panni.  … li mettevamo nda li cruèdde ] e li andavamo a stendere fuori Cagnano. Molti panni li stiravamo con le mani, altri con il ferro a carbone, ma bisognava prima accendere il fuoco.
Di quando ero bambina mi ricordo tanta sofferenza, … . Io avevo appena sei anni e la mamma mia faceva la colona cioè sumendàva la tèrra. Noi avevamo le terre d’affitto e la mamma mi portava a zappare, seminare, mondare e raccogliere fave, persino a mietere grano. La mattina, appena usciva il sole, scioglievamo li manòcchie e li mettevamo tutti sparsi intorno come una rosa. Io avevo otto anni e mio fratello mi diceva: “Giovà prendi le redini” e così facevo girare i muli tutti intorno e pesavàme lu grane. Mio fratello mi aveva fatto un piccolo scurijàte e lo usavo per far girare le bestie.

All’età di dodici-tredici anni sono andata a lavorare alle olive da Don Michele Polignone. A lui interessava solo che lavoravamo, senza parlare, sennò ci toglieva il lavoro. È come quando un marito sfèssa la megghièra: Palàte e bbòtte à sta sòtta , e visto che avevo bisogno di lavorare, dovevo stare zitta e quieta, altrimenti non mi faceva andare più.
Alle donne dava tre lire a tomolo e ai maschi li pagava di più. Alle olive però eravamo quasi tutte donne e c’era il garzone che ci controllava. Iniziavamo a lavorare alle sette e finivamo alla sera. Il tempo per trasportare le olive, era “per dentro”. Era il padrone che comandava. I pezzi grossi ce magnàvene lu sànghe de lli puverètte ].
A quattro-cinque anni stavo appresso a mamma, in campagna, perciò non ho avuto il tempo per giocare. Ai miei tempi le femminucce giocavano con la pupa de pèzza e a lli cummare, i maschi con il fucile e il cavalluccio.
I maschi se ne andavano per conto loro e noi non potevamo andare appresso perché i maschi sono cattivi: l’òmmene vìva te ngòcene e mmòrta te tègnene . Prima era più importante l’òmmene, la mamma faceva scuola al figlio e gli diceva: Ne nde facènne cummannà! . Ora le cose sono cambiate.
Al tempo di prima se un giovane s’interessava a me, mandava a casa mia la ruffiiàna, a chiedermi se mi volevo fidanzare con lui. Se il giovane m’interessava dicevo di sì e in questo caso t’avìva accredendà e per fare questo dovevano venire a casa tua sua madre e suo padre. Ti portavano l’ammasciàta.

Noi eravamo 12 figli - per quello che mi ha detto mia madre - tanti sono morti e siamo rimasti in quattro: un maschio e tre femmine. Pàtrema stèva a ppatròne da do nGgustìne. Lavorava e riceveva in cambio ogni mese un tomolo di grano, 20 lire, mezzo litro d’olio e quattro linee di macinatura. Questo padrone, a volte non voleva pagare, sbatteva il portone e se ne andava, così papà mio andava più volte a casa sua a chiedere la paga. Diceva che aveva lavorato e i soldi gli servivano perché aveva una famiglia da portare avanti.
Quando mio padre è morto, io lavoravo da dom Mechelìne Polignòne e sono andata a chiedergli i soldi che mi spettavano, perché dovevo fare il funerale a mio padre. Lui mi ha cacciata di casa, ma io ho detto che non mi poteva cacciare, perché dovevo seppellire mio padre, così mi ha dato nu pàre de sòlete. Con i soldi ho pagato le campane (che hanno suonato), la cungrèja della chiesa (che costava 10 lire) e lu tavùte .
Mi sono sposata nel 1943, avevo 23 anni finiti. La dote si metteva esposta ma io non l’ho messa esposta perché avevo poche cose e quando si mettevano li rròbbe espòste ce stèva sèmbe chìja treddecàva! . Ho quattro figli e mi hanno dato tanti dispiaceri. Quando sono nati non ho scelto di stare incinta. Dio me li mandava e io me li prendevo. Li ho allevati con pazienza, mi sono tolta il pane dalla bocca mia per darlo a loro, ma questo carattere che hanno, non so se dipende da loro o dalla carne che [di cui] sono fatti. Comunque sia, sono diventati così da quando si sono sposati, perché fino a quando stavano a casa mia, si sono comportati correttamente.
Quando mi sono sposata, mio marito mi poteva tirare qualche schiaffo, io no, perciò comandava lui. Ricordo che ero incinta di mia figlia Palma, stavo a sette mesi. Mio fratello ci aveva invitato a pranzo a casa sua il giorno di Pasqua. Mia madre, che stava da sola siccome che era Pasqua e io ero l’ultima figlia, ha regalato 100 lire a mio marito. Io dicevo a mio marito ca ce l’avèva pònne, che li doveva spendere piano piano, perché era fumatore e aveva bisogno di comprare il tabacco. Lui invece li voleva spendere in cantina. Così una parola tira l’altra, mi ha spinta e mi ha buttata a terra.

Allora mio fratello ha detto: Queste scenate andate a farle a casa vostra, non qui!. Allora, mio marito mi porta a casa, prende a nostro figlio piccolo e lo mette sul letto, prende lu laghenatùre, na màzza lònga e me la ròmbe sòpe li spàdde . La sera vengono a casa mia suocera e mia zia, e dicono a mio marito: Fìgghje de mòstre, che l’'à fàtte a quèdda?! .
E lui ha detto che non mi aveva per niente toccata, poi mi ha guardata e ha detto: Che vvu l’àviti?. Insomma jìsse alluccàva a me e la mamma sua rimproverava a jìsse. Poi, ha preso la càrta senapàta, che si vende in farmacia e attira il dolore, l’ho sotto la lampada ad olio per farla riscaldare e poi dove mi faceva male. E mi ha fatto la schiena come una carta geografica.
Te l’avìva pigghjà e ccìtte!. Il giorno dopo ti vergognavi di uscire, ma a volte dovevi andare a lavorare lo stesso. Io allora non sono uscita di casa perché non potevo muovermi, ero incinta di sette mesi! Meno male che ero una donna che si faceva i fatti suoi, se andavo dal dottore e lo denunciavo, invece di stare zitta, potevo mandarlo in galera.
Quando mio marito mi ha picchiata, una signora voleva avvertire mia madre, ma io ho detto di non farlo, perché tutti sanno che tra marito e moglie guai a chi si mette in mezzo! E quando, il giorno dopo, mia madre è venuta a chiedere cosa era successo, io ho risposto che non era successo niente e che doveva farsi i fatti suoi. Se lo denunciavo e andava a finire in galera, come facevo io con tre bambini ancora piccoli? Perciò ho sopportato. Oggi si dice invece:- Camìscia ca nun vò stà pe mmè, stracciàmela!.
Ma non tutti i mariti erano uguali.| Chìja la ngàrra è nu guadàgne, / chìja la sgàrra jè nu sucùdagne!. Lu sucudàgne era una fascia di cuoio che i muli portavano addosso, attùrne a lla vàrda , e mentre camminavano strisciava tanto sulla loro pelle da fare perdere il pelo alla bestia e farla sudare.
È meglio conoscersi bene prima e non far parlare la gente dopo. Prima ce stèvene li fèmmene che ce pigghiàvene li mbìcce. Ce mettèvene dderète li pìzze e rerèvene!. Tra la gente, c’era chi ti diceva male e chi ridiceva bene. Si litigava tra marito e moglie, tra padri e figli, tra mamme e figli, tra le vicine. Quando i bambini giocavano in strada e litigavano, si mettevano in mezzo le mamme e litigavano pure loro, per difenderli. Si litigava anche perché certe fèmmene jèvene a jettà la munnèzzia   davanti alla casa di un’altra signora. Si dicevano parole pesanti e si tiravano anche i capelli.
Nel 1941 mi ricordo che a Cagnano c’è stato lo sciopero della fame, l’hanno fatto molte donne e parecchie sono state portate in galera, al carcere di Foggia. A llu tèmbe de Musulìne ogne ccàsa nu mulìne! . Ogni famiglia per non morire di fame si era procurata un macinino, proprio come quello del caffè, e passava la notte a macinare un po’ di grano, di nascosto, con la paura di essere scoperta. Qualche volta siamo andati anche a Carpino a macinare.
A casa di mio marito erano cinque figli: 4 donne e lui, unico maschio. Lui faceva il pescatore, ma non aveva mànghe lu sànere. Gliel’ho fatto io quando lavoravo e ho chiesto un prestito alla banca. Stavamo prima in casa d’affitto, poi, nel 1957, abbiamo fatto la casa nostra. Io allevavo maiali, li crescevo e li vendevo, così mettevo un po’ di soldi da parte per farmi la casa. Aiutavo anche mio marito a Ppandàne.
Quando facevamo le reti, io non ero brava e me l’abbusckàva. Io dicevo che non era giusto che mi picchiava per questo, perché lui sapeva fare l’arte del pescatore, io quello della contadina. Quando stavo con mia madre, avevamo una terra d’affitto, la piantavamo e facevamo ogni cosa. Io facevo già abbastanza: vuttàva lu sànare pe li rìme, da Bbàgne a cCapejàle  e facevo tante altre cose che lui non sapeva fare, ma quello era insaziabile! La donna doveva lavorare giorno e notte. Eh, già, la notte dovevi lavorare con lui! Ma io non volevo essere disturbata, perché ero stanca.
A scuola non sono andata, perché mia madre era nullatenente. Sono andata solo due mesi con donna Giannina Mendolicchio, poi voleva due lire per il libro, mamma non le aveva e non mi ha fatto andare più, e non ho imparato né a leggere, né a scrivere. Quando poi dovevo fare la causa per questa terra (siamo stati in causa dal 1975 al 1979), ho deciso di imparare a scrivere il mio nome. Ero già anziana, sono andata da Lu Cònde, e ho comprato un quaderno a quadretti, per imparare a mettere la firma. Avevo 70 anni.
La politica era una cosa da maschi. Io andavo a votare tanto per mettere una crocetta. La mia vita è stata, insomma, tutta una sofferenza, perfino per sposarmi, quando, per farmi il vestito, sono andata a carrijà prète  per cinque mesi.
 Eremo Via vado di sole, mercoledì 25 gennaio 2012

martedì 24 gennaio 2012

OFFICINA : Che cos’è l’agricoltura?

OFFICINA  : Che cos’è l’agricoltura?


In una intervista sul ruolo e il potere spropositati di denaro, banche e tutto il sistema ad esse connesso, Eduardo Galeano, giornalista e scrittore uruguaiano, ha detto, sui migranti: queste persone chiedono di avere gli stessi diritti del denaro. Pensiamoci: il denaro è libero di andare dove vuole, nessuno lo ferma, nessuno gli chiede dove è stato, dove è nato, dove andrà. Tutti noi abbiamo meno diritti del denaro.
Mi è tornata in mente questa frase mentre leggevo il rapporto Inea (Istituto nazionale di economia agraria) 2011 sullo stato dell'agricoltura: una relazione di grande utilità e di estremo interesse. È una lettura che consiglio, perché offre dati importanti e necessari. Ma non la consiglio a tutti. Perché se non si hanno potenti anticorpi si rischia di credere che quella sia l' agricoltura. Mentre l'agricoltura è molto di più e meglio di un rendiconto economico  .I dati e  i numeri ci servono ma occorre controbilanciarli con qualcosa di più ... realistico. Mi pare di vedere illustri economisti sobbalzare: «Cosa c'è di più realistico dei calcoli, dei numeri, dei volumi, dei fatturati, degli ettari, delle unità occupate, dei redditi?».
C'è la natura. Ovvero il sistema vivente che" ospita" le attività degli imprenditori agricoli. C'è la società. Ovvero il sistema vivente che con quegli imprenditori agricoli interagisce e del quale gli stessi imprenditori fanno parte. C'è il pianeta. Ovvero il sistema vivente che subisce le attività umane e ad esse reagisce.
Allora proviamo a crearceli gli anticorpi, perché abbiamo un istituto di economia agraria, ma non abbiamo un istituto per la visione olistica in agricoltura: questa visione ognuno se la deve costruire da sè.
Primo esercizio. Dice il rapporto Inea: “I risultati del 2010 mostrano che le economie sviluppate sono cresciute meno, fermandosi al 3%, ma i Paesi dell' area euro si fermano all'1,7%. 'La ripresa, al contrario, è più forte nelle economie emergenti e nei paesi in via di sviluppo in cui ha toccato un incremento medio del 7,3%”.

Sembra che stiamo sbagliando qualcosa, vero? E invece non è così  semplice. Le economie dei paesi emergenti crescono semplicemente perché possono farlo. Le nostre, cresciute (come ora fanno quelle) rapinando risorse comuni, si devono fermare perché non possono più far danno. Se l'unico sistema di raggiungimento del "benessere" è massacrare ciò che prima funzionava, è finita. Se invece si provasse a "star bene" recuperando i cocci e cercando di riassemblarli in un modo diverso, ripensando le regole e le parole, avremmo ampi margini di "miglioramento", che oltre a non calcolabili benefici creerebbero occupazione e denaro.
Secondo esercizio. Si legge nel rapporto Inea, a proposito del censimento delle aziende agricole: «Risultano attive 1.630.420 (aziende) con una diminuzione numerica di oltre il 30% rispetto al2000, cui si accompagna una riduzione più contenuta sia della Sau (Superficie agricola utilizzata) che della Sat (Superficie agricola totale). (. .. ) Si è dimezzato il numero delle aziende molto piccole, con una Sau inferiore a l ha, anche se esse continuano a rappresentare una parte consistente dell' agricoltura italiana, con oltre il 30% di aziende (. .. ) mentre; aumentano quelle di dimensioni più grandi (oltre 20 ha) concentrate , nel nord del Paese».
La stessa cosa accade alle aziende zootecniche  a quelle di trasformazione fino alla distribuzione. Chiudono i piccoli, crescono i grandi. E a leggere i commenti di chi in questi giorni ha partecipato alle presentazioni del rapporto, l'agricoltura italiana dovrebbe andare in quella direzione: grandi aziende,grandi superfici, grandi volumi, esportazioni. Il piccolo non rende, chiude e fallisce.
Nessuno si interroga, pare, su quanto poco si è fatto per ìncoraggiare e incentivare l'agricoltura di piccola scala, che per inciso è anche quella che può occuparsi dei territori, della qualità dei paesaggi e della vita delle persone, evitando la desertificazione anche sociale delle aree rurali. Non si leggono quei dati alla luce degli ultimi 50 anni di comunicazione di massa su cosa è buono e cosa è sano, su cosa è socialmente accettabile e cosa non lo è, su cosa è cultura e cosa non lo è. N on si ragiona sulle normative, sui modelli produttivi che le hanno ispirate, sui loro riferimenti culturali ed economici. (Diceva Otto von Bismark: «Le leggi sono come le salsicce. Meglio non vedere come vengono fatte»). Se lo facessimo ci accorgeremmo che la piccola agricoltura di qualità è stata, nel migliore dei casi, abbandonata a sé stessa.  Nel peggiore è stata obbligata a comportarsi come se fosse agricoltura industriale, con danno economico, ambientale e alla qualità dei prodotti.
Senza contare che non sempre  ad una crescita dei volumi esportati è corrisposta una crescita del fatturato: pelati e pasta, due prodotti chiave del Made in Italy, hanno esportato fino al 10% in più (pelati), ma riducendo il valore complessivo delle vendite anche del 2%, sicchè l'entusiasmo di chi pronostica le glorie agricole italiane nell'export lo vedo francamente mal riposto.

Terzo esercìzio. Mostra il  rapporto Inea che il reddito agricolo  per Ula (Unità lavorativa annuale) . in Italia è andato calando costantemente dal 2000 ad oggi, mentre la media europea subisce variazioni maggiori e in questa fase sta crescendo. Fatto 100 il reddito del 2005, l'Italia è passata dal 120% del 2000 all'80% del 20lO, mentre la media europea era a 90% nel 2000 ed è andata a 115% nel 2010. «Fino alla fine degli anni Novanta – si legge - abbiamo sperimentato (. .. )" una diminuzione più o meno costante dei prezzi degli ìmput agricoli, più lenta di quella dei prezzi alla produzione, ma compensata dagli incrementi fatti registrare dalla produttività agricola. Oggi, al contrario, i prezzi degli input crescono in misura molto maggiore rispetto a quelli dei prodotti agricoli». In sostanza: prima produrre costava meno e se diminuivano i prezzi si compensava producendo di più .
Ora produrre costa di più,ma i prezzi scendono e quindi diminuiscono i redditi.
Qui i nostri anticorpi ci chiedono:perché i prezzi dei prodotti agricoli continuano a scendere? Forse
perché ci siamo dimenticati che  produrre cibo di qualità, produce anche futuro, cultura, salute, turismo, benessere ambientale: Forse perché per troppo tempo le politiche hanno premiato la quantità senza considerare coloro  che producevano in un modo diverso,e che erano spesso agricoltori di piccola e media scala. Dobbiamo smettere di pensare ai prodotti agricoli come a cose da vendere e dobbiamo iniziare a pensarli come elementi di un sistema vivente di cui anche noi facciamo parte; il loro valore va ricalcolato in termini molto più complessi di peso, volume o calibro ..
Forse, dicono i nostri anticorpi, è ora di smontare, dato per dato, questo rapporto Inea e rìmontarlo insieme alle Informazioni di tanti altri rapporti, che ci devono arrivare da tante altre fonti, istituzionali e non. Solo così, credo, avremo un'idea plausibile di quale sia lo stato della nostra agricoltura, e faremo in modo che i prodotti, come le persone, abbiamo gli stessi diritti, e la stessa attenzione, del denaro.

Carlo Petrini  La vera agricoltura spiegata agli economisti  La Repubblica  5 agosto 2011

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, mercoledì 25 gennaio 2012

lunedì 23 gennaio 2012

ET TERRA MOTA EST: A.A.A. Escavatori cercasi

ET TERRA  MOTA EST:  A.A.A. Escavatori cercasi

Dopo quasi tre anni le macerie dell'Aquila attendono gli escavatori donati dalla Fiat
Misteriosamente spariti sei mezzi donati alla Protezione civile
Sei mezzi per lo sgombero e la rimozione delle macerie, donati dalla Fiat alla Protezione civile a maggio del 2009, non sono mai arrivati a l’Aquila o nei territori colpiti dal terremoto. E nessuno sa ufficialmente dove si siano fermati (o siano stati “temporaneamente” parcheggiati) nel tragitto che da Torino li doveva portare in Abruzzo. Di questi mezzi per il movimento terra (un escavatore cingolato, un escavatore gommato, un miniescavatore, una pala gommata, una minipala compatta e un sollevatore telescopico, valore totale circa 860 mila euro) si sarebbe forse persa memoria se non fosse arrivata la denuncia del Conapo (il sindacato dei vigili del fuoco) dell'Aquila che, in una lettera indirizzata al responsabile di Case construction equipment (l’azienda del gruppo Fiat che ha donato le macchine) e inviata per conoscenza alla Protezione civile, al commissario per la ricostruzione Gianni Chiodi e allo stesso Dipartimento nazionale dei vigili del fuoco, lamenta il mancato perfezionamento dell’operazione.
Una delle immagini dei mezzi scattata con un telefonino
MEZZI MAI ARRIVATI - «Le macchine operatrici che Case ha così generosamente donato, e che tanto sarebbero utili ai vigili del fuoco – scrive il segretario provinciale del Conapo, Elio D’Annibale -, non sono mai giunte nei territori colpiti dal sisma e non abbiamo, quindi, mai avuto il piacere di vederle all'opera. Ci chiediamo che fine abbiano fatto questi mezzi, in quale autorimessa sono desolatamente parcheggiati o quale uso se ne sia fatto». D’Annibale avanza l’ipotesi che i mezzi non siano arrivati perché il Dipartimento della Protezione Civile, responsabile del coordinamento dei soccorsi e dell'assistenza alla popolazione durante i mesi immediatamente successivi all'evento sismico del 6 aprile 2009, oltre a non essere mai stato impiegato nelle operazioni di demolizione edifici e smaltimento macerie, ha lasciato il cosiddetto "cratere sismico" a decorrere dal 1° febbraio 2010, data in cui il presidente della Regione Abruzzo ha assunto l’incarico di commissario per la ricostruzione.
FIAT CONFERMA LA DONAZIONE - Cosa sia accaduto realmente, però, resta un mistero. Il gruppo Fiat, interpellato, ha confermato di aver proceduto alla donazione (a cui peraltro fu data ampia pubblicità in occasione di una cerimonia tenutasi nel mese di settembre del 2009 a L’Aquila) e alla consegna alla Protezione civile che, successivamente, avrebbe affidato i mezzi ai vigili del fuoco con un contratto di comodato d’uso. «Le macchine saranno presto impegnate in importanti progetti di ricostruzione dell’aquilano», annunciava a suo tempo la Fiat. «No, qui non le abbiamo mai utilizzate» ribattono oggi in Abruzzo i vigili del fuoco che, in collaborazione con il personale dell'Esercito Italiano, hanno il compito di conferire in discarica le macerie dei crolli e dalle demolizioni.
RESTANO VECCHIE ATTREZZATURE - Eppure, a due anni e 9 mesi dal sisma che ha devastato L’Aquila, quei mezzi sarebbero ancora utilissimi per gestire il problema dello sgombero e la ricostruzione. I vigili del fuoco, invece, come ha dichiarato D’Annibale in altre occasioni, sarebbero costretti a lavorare «con attrezzature vecchie di 20 anni, mentre mezzi che valgono quasi 900 mila euro non sono mai stati usati». Da indiscrezioni, rimbalzate alcuni giorni fa sul Tg regionale dell'Abruzzo, sembra che una parte delle macchine, riconoscibili dalla scritta “Fiat con l’Abruzzo” (di cui sono state diffuse immagini scattate con il cellulare) si trovi in un garage del Corpo a Roma. Ma al momento il dipartimento dei vigili del fuoco non ha fornito alcuna risposta, neppure per smentire questa ipotesi. Dunque il mistero resta come le macerie del terremoto che attendono nuovi e più efficienti mezzi.
Nicola Catenaro 22 gennaio 2012 | 18:43 Il Corriere della sera
Le foto sono di Laura Tarantino
Eremo Via vado di sole, L'Aquila, lunedì 23 gennaio 2012