mercoledì 23 novembre 2016

Tirar fuori le storie, rompere lo status quo



Quella che segue è la versione riadattata del testo di un discorso tenuto nel 2016 da Rebecca Solnit ai laureati della Graduate School of Journalism presso l’Università della California di Berkeley.
Il pezzo, apparso originariamente su
LitHub.com, viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autrice.
Rebecca Solnit, giornalista e saggista, è una figura di spicco nel dibattito intellettuale statunitense degli ultimi anni; si è occupata di ambiente, politica, critica d’arte, diritti civili. Il suo libro più recente è la raccolta di saggi Men Explain Things to Me; in Italia sono usciti Speranza nel buio e Un paradiso all’inferno (per Fandango) e Storia del camminare (per Bruno Mondadori).
di Rebecca Solnit
traduzione di Martina Testa
 Breaking the story, letteralmente «rompere la storia», è un’espressione del gergo giornalistico che significa fare uno scoop, essere i primi a raccontare qualcosa; ma per me il termine ha un’eco più profonda. Quando si fa il resoconto di un certo evento, grande o piccolo che sia – un’elezione presidenziale, un’assemblea del consiglio d’istituto – l’idea è quella di mettere insieme una storia su ciò che è accaduto. Ma è evidente che noi viviamo immersi nelle storie come i pesci nell’acqua: le respiriamo, riempiendocene i polmoni e buttandole fuori. L’arte di vivere con piena consapevolezza, a livello personale, consiste nel vedere le storie e diventarne i narratori, invece di subirle come forze nascoste che ci governano. Essere un narratore a livello pubblico richiede le stesse doti ma con conseguenze e responsabilità più ampie, perché la storia che si racconta diventa parte di quell’acqua, smentisce o conferma le storie già esistenti. Il vostro compito di giornalisti è raccontare la storia che appare in superficie, la storia conclusa in sé stessa, quella che è avvenuta ieri. Ma è anche vedere e rendere visibili e a volte rompere, dischiudere, scardinare le storie che abbiamo intorno, quelle che sono già scritte, e comprendere il rapporto fra le due cose.
Ci sono storie sotto le storie e intorno alle storie. L’evento recente che appare in superficie è spesso solo un fregio sul cofano sotto cui gira il potente motore sociale di una storia che sta dando una direzione alla nostra cultura. Sono quelle che chiamiamo narrazioni dominanti, paradigmi, memi o metafore in base alle quali viviamo, o contesti in cui inquadrare le esperienze. Comunque le vogliamo definire, sono forze di una potenza immensa. E la cultura dominante tende perlopiù a confermare le storie che sono i pilastri che la tengono in piedi, nonché, troppo spesso, le sbarre della gabbia altrui. Queste sono fin troppo spesso storie che andrebbero rotte, scardinate, ribaltate o che sono già rotte, rovinate, rovinose e obsolete. Si basano su montagne di affermazioni non dimostrate. Perché i media sono tanto diligenti nel ribadire la pericolosità del terrorismo, che uccide così poche persone nel nostro paese, e trattano quasi sempre come una banalità la violenza domestica, che terrorizza milioni di donne statunitensi per lunghi periodi e ne uccide circa 1200 ogni anno? Come si fa a tirar fuori la storia di ciò che davvero ci minaccia e ci uccide?
Una cosa da tener presente è il ciclo vitale e la catena alimentare delle storie. Le storie nuove, quelle dirompenti, tendono a venire dai margini e dai bordi. Non è stato veramente Gandhi a dire: «Prima ti ignorano, poi ridono di te, poi ti fanno la guerra, e poi tu vinci», ma è così che funziona in genere l’attivismo. E quando l’attivismo vince è perché, almeno in parte, la sua storia è diventata la nuova narrazione, la storia che l’opinione pubblica accetta. In questo il giornalismo gioca un ruolo cruciale. Il movimento Black Lives Matter sta cambiando la storia sotto i nostri occhi, mettendo in piena luce l’epidemia di omicidi compiuti dalla polizia e il fatto che questi omicidi di giovani di colore privano intere comunità dei loro diritti, fra cui il diritto a essere protette, e non minacciate, dai pubblici ufficiali. Ecco, questa storia è cominciata con gli attivisti, è divampata sui social ed è stata poi ripresa da certi mezzi di informazione, che hanno dato ampia visibilità a storie che sarebbero potute rimanere semplici trafiletti nella cronaca locale, e invece hanno acceso un dibattito in tutto il paese. Adesso sappiamo i loro nomi: Eric Garner, Mario Woods, Sandra Bland, Tamir Rice. Questa storia è stata portata dai margini al centro, e molte persone che non sono direttamente colpite dal problema hanno abbracciato comunque la causa. E nella mia città, San Francisco, uno sciopero della fame ha richiamato ulteriore attenzione sugli omicidi commessi dalla polizia ai danni di cittadini ispanici o neri, nella fattispecie Alex Nieto, Amilcar Lopez-Perez, Luis Gongora e, lo scorso 19 maggio, Jessica Williams. Grazie alla pubblica indignazione un capo della polizia è stato rimosso dall’incarico il giorno in cui un agente ha sparato alla Williams, disarmata, uccidendola.
Parte del compito di un grande giornalista, di un grande narratore, sta nell’analizzare le storie che si nascondono sotto quelle di cui gli è stato chiesto di scrivere, magari per portarle alla luce, e a volte per liberarcene definitivamente. Rompere la storia dominante, scardinarla. In questo tipo di scrittura, rompere è un atto creativo tanto quanto costruire. Molti scrittori, riflettendo sul loro lavoro, hanno detto che il mondo è fatto di storie come se questa fosse una cosa bella, ma è bella solo nella misura in cui lo sono le storie in questione. Ci sono storie che demonizzano la rabbia femminile e la rabbia dei neri e venerano la rabbia dei maschi bianchi. Ci sono storie sull’inevitabilità del capitalismo, storie secondo cui esistono due versioni della realtà del cambiamento climatico, e una miriade di storie che non vengono raccontate perché danno fastidio, scomodano i potenti, fanno scricchiolare lo status quo. Sono queste le storie che venite mandati a raccontare in questa bella giornata di maggio, storie che vi renderanno molto sgraditi a gente a cui è bello risultare sgraditi, e amati da altra gente da cui è ancora più bello essere amati.
Ad agosto saranno undici anni da quando un triplo disastro si è abbattuto su New Orleans. L’uragano è stato il male minore; il cedimento delle infrastrutture e decenni di pessima pianificazione e ancor peggiore realizzazione dei piani l’hanno trasformato in un disastro accuratamente previsto e perlopiù causato dall’uomo, aggravato poi dal totale venir meno del contratto sociale. I poveri sono stati lasciati ad annegare o a soffrire. E poi sono arrivati i media, a criminalizzare gente che stava cercando di salvarsi la pelle e a ossessionarsi sulla possibilità che qualcuno stesse rubando un televisore, dimostrando chiaramente che consideravano più importante proteggere i televisori che salvare nonne morenti e bambini traumatizzati. Hanno ripiegato su una manciata di cliché che erano già ben consolidati nel 1906, quando ci fu il famoso terremoto qui a San Francisco.
Per una fortunata coincidenza di tempi, ero abbastanza preparata a essere scettica rispetto alle narrazioni sulle bande selvagge di stupratori, sciacalli e assassini. Avevo appena finito le ricerche e la stesura di un saggio proprio sul terremoto del 1906. Quelle leggende urbane non erano vere nel 1906 e non erano vere nel 2005, anche se venivano riportate dal Guardian, dal New York Times, dal Washington Post, dalla NBC, dalla CBS, dalla CNN e da molti altri mezzi di informazione. «Tendono a muoversi in branco e a raccontare la stessa storia», ha detto recentemente Adam Hochschild riferendosi ai giornalisti durante la guerra civile spagnola. Qualunque cosa facciate, voi non unitevi al branco. Se da qualche parte c’è un branco, vuol dire che qualcuno ha già la storia in pugno. Cambiate direzione e andate a cercare la storia che nessuno sta raccontando.
In occasione del decimo anniversario di quella catastrofe causata dall’uomo chiamata Katrina, scrivevo su Harper’s
Un vasto numero di abitanti perlopiù afroamericani di New Orleans erano intrappolati sui tetti, sulle sopraelevate, nel Convention Center e nel Superdome, in mezzo all’afa soffocante di una città per l’80% sommersa dall’acqua, demonizzati dal governo e dai mezzi di informazione mainstream e rappresentati come troppo selvaggi e pericolosi per essere salvati o autorizzati a lasciare la città. I potenziali soccorritori che arrivavano da fuori venivano rimandati indietro dalle forze dell’ordine, così come la gente che da dentro cercava di scappare. New Orleans era diventata, per mano di un’autorità maligna, una prigione. Visto che gli abitanti di Baltimora sono stati demonizzati per le sommosse dello scorso aprile, e che le catene di negozi e la sede di uno spregiudicato banco dei pegni sono diventati per molti americani luoghi sacri e intoccabili, è facile immaginare un altro disastro simile.
Il complice mai incriminato della disumanizzazione, dell’imprigionamento e della morte di tanti cittadini, perlopiù afroamericani, spesso anziani, di New Orleans, sono stati e sono i media mainstream. Hanno fatto ricorso alle solite storie allarmistiche di saccheggi, stupri, orde di predoni, ansiosi di rappresentare i neri come se fossero mostri e nemici invece che le vittime vulnerabili e bisognose di una catastrofe. Hanno inventato nuove storie, che si sono rivelate del tutto infondate, su gente che sparava agli elicotteri e mucchi di cadaveri prodotti da massacri immaginari dentro il Superdome.
Per me quelle erano storie rotte, guaste, che non funzionavano, o storie che andavano rotte, ossia scardinate e sviscerate. Mi sono accorta, man mano che continuavo a tornare a New Orleans dopo Katrina, che erano stati in effetti compiuti crimini orrendi, e che le armate di giornalisti da cui era stata invasa la città li avevano totalmente ignorati, o non avevano saputo vederli: non erano i crimini della povera gente contro il sistema, ma i crimini del sistema contro la povera gente. C’erano stati omicidi per mano della polizia e abusi da parte dei vigilantes bianchi. Ho messo insieme fonti e contatti, fotografie e piste, brandelli di verità taciute ma sotto gli occhi di tutti, e ho consegnato questo materiale a un grandissimo giornalista investigativo, A.C. Thompson, che l’ha pubblicato e, una volta arrivato di persona a New Orleans, ne ha fatto nascere ulteriori storie, in particolare un’inchiesta sulla morte di Henry Glover, un nero disarmato a cui la polizia aveva sparato alle spalle. Questa storia ha fatto finire in carcere dei poliziotti, cosa che raramente accade. Anch’io ho pubblicato articoli al riguardo, e ho scritto un libro sull’effettivo comportamento delle persone durante le catastrofi, intitolato Un paradiso all’inferno.
Un giorno, in quel periodo, stavo uscendo dalla sede di una radio dove avevo parlato di come erano andate davvero le cose durante Katrina. Ho acceso l’autoradio della macchina e ho sentito A.C. che parlava della stessa cosa su un’altra stazione. Seduta al volante ho pensato: siamo veramente riusciti a rompere questa storia, a ribaltare e rovesciare la versione ufficiale dei fatti. La storia che la gente ricordava a dieci anni di distanza non era più la storia che i media mainstream avevano usato nel 2005 per il loro ritratto a tinte fosche della popolazione nera e della natura umana in generale. Non ci eravamo riusciti da soli, è ovvio. Tirar fuori una storia dirompente in genere è un processo lungo e collettivo. Di solito comincia con degli attivisti, dei testimoni, qualcuno che denuncia una situazione illegale, e con le vittime, le persone colpite, le persone in prima linea. Del passo successivo si incaricano spesso quelli che hanno il potere di raccontare una storia, che lavorano nei media e sono disposti ad ascoltare. Come giornalisti non sarete mai i primi a sapere una cosa, se vi state occupando di ciò che è successo a un’altra persona, ma può darsi che siate i primi ad ascoltarla. La storia è sempre, in primo luogo, di qualcun altro, e non smette mai di esserlo, per quanto siate bravi a raccontarla, per quanto siate efficaci nel diffonderla. Sentire questa responsabilità verso il soggetto, il pubblico e la testimonianza storica è uno dei motivi per cui sono felice di aver frequentato una facoltà di giornalismo e non un corso di scrittura dove insegnano che la non-fiction è un romanzo in cui non c’è bisogno di inventare i personaggi e la trama.[1]
Quest’anno è morto uno dei grandi giornalisti del nostro tempo, Ben Bagdikian. Era stato autore di una rivoluzionaria inchiesta sulla tremenda minaccia alla democrazia rappresentata dai monopoli dei media, all’epoca in cui ero una sua studentessa nella stessa facoltà in cui ci troviamo oggi. Molti anni prima, era stato lui il giornalista a cui Daniel Ellsberg aveva affidato i cosiddetti Pentagon Papers, i documenti che smascheravano le menzogne di quattro presidenti sulla guerra in Vietnam, ribaltando la storia della guerra. Ho avuto la fortuna di frequentare il suo corso di etica, nel quale ci insegnava che «non si può essere obiettivi, ma si può essere onesti». L’obiettività è l’illusione che esista un territorio neutrale, una terra di nessuno, politicamente parlando, su cui potete lavorare sia voi che i mezzi di informazione mainstream. Ma anche la scelta della notizia da raccontare, della fonte da citare, è una decisione politica. Tendiamo a trattare le posizioni più marginali come ideologiche, e quelle più centriste come neutrali, come se la decisione di non possedere una macchina fosse politica e quella di possederla no, come se appoggiare una guerra fosse un atteggiamento neutro e opporvisi no. Ma non c’è nulla di apolitico, non si resta mai a bordo campo, non esiste il territorio neutrale: tutti siamo impegnati.
L’espressione giornalismo militante è spesso usata con un’accezione negativa, ma in genere un buon pezzo di denuncia non è altro che un gesto di militanza. Se smascherate le bugie di un presidente, come hanno fatto Bagdikian ed Ellsberg,, con ogni probabilità ritenete che un capo di stato non debba mentire: se dimostrate che una multinazionale sta inquinando l’acqua che beviamo – mediante la pratica del fracking, per dire – con ogni probabilità non siete a favore dell’avvelenamento delle falde idriche. È incredibile quanta gente sia pronta a difendere l’avvelenamento di persone, animali e luoghi, di solito negando che certi veleni siano tali; e ciò fa sì che a volte essere contrari all’avvelenamento diventi una posizione scomoda. Laura Poitras e Glenn Greenwald avevano un’opinione ben precisa sulla legittimità del fatto che l’Ente per la Sicurezza Nazionale accumulasse enormi quantità di dati sul nostro conto, con l’aiuto e il favoreggiamento delle grandi aziende della Silicon Valley a cui tutti siamo legati; ma hanno diffuso i dati in modo da lasciar decidere a noi come porci rispetto alle rivelazioni fatte da Edward Snowden nel 2013.
Compito del giornalista non è guardare da una finestra che qualcun altro ha costruito, ma uscire dalla stanza, esaminare la cornice che delimita quella finestra, oppure smantellare la casa intera e liberare ciò che c’è dentro, il tutto allo scopo di rendere visibile ciò che prima era impossibile guardare. Il giornalismo ha la tendenza a concentrarsi su ciò che è cambiato ieri invece di chiedersi quali sono le forze sotterranee e i beneficiari nascosti dello status quo di oggi. Un poliziotto spara a un nero: cosa c’è bisogno di sapere, a parte i dettagli dell’accaduto? Quanto spesso queste cose accadono, per esempio, o che effetto hanno a lungo andare sulle comunità nere, o quali sono i tipici modi di giustificarle. È per questo che vi serve conoscere la storia, anche se fate i giornalisti e non gli storici. Dovete conoscere certi schemi per accorgervi che molte persone prendono la massa aggrovigliata dei fatti e la incasellano in quegli schemi familiari: selezionando, equivocando, distorcendo, escludendo, ricamando.
Alcune delle storie che dobbiamo tirare fuori non riguardano eventi eccezionali, sono la squallida tappezzeria della nostra vita quotidiana. C’è, ad esempio, la diffusa convinzione che le donne mentano sul fatto di essere state stuprate: non in qualche caso, non in via eccezionale, ma in generale. Questo pregiudizio deriva dall’idea che l’affidabilità e la credibilità siano doti naturali degli uomini tanto quanto la tendenza a dire il falso e la vendicatività sarebbero tratti tipici delle donne. In altre parole, dall’idea che tutti questi casi di ingiustizia e di violenza se li siano inventati di sana pianta le femministe, perché se così non fosse dovremmo mettere in discussione quell’immensa storia che va sotto il nome di patriarcato.
Io mi sono occupata parecchio della questione dello stupro e delle bugie, e volete sapere chi è che mente di continuo, in fatto di stupri? Gli stupratori. Che è la cosa più ovvia del mondo da dire, solo che non la dice mai nessuno. È una notizia che non viene data, una storia che non viene tirata fuori. Gli stupratori mentono abitualmente, costantemente, regolarmente, salvo rare eccezioni. C’è un vecchio adagio del giornalismo secondo cui un uomo che morde un cane fa notizia, un cane che morde un uomo no; ma se nessuno avesse mai raccontato che i cani mordono, se la gente negasse che i cani mordono, o che abbiano i denti, o anche semplicemente che siano cani? E così, un esempio di pessimo giornalismo come l’articolo di Rolling Stone su un presunto stupro all’Università della Virginia è stato riciclato come prova della tendenza generale delle donne a mentire, mentre il fatto che quel college avesse un problema di molestie sessuali talmente grave da essere oggetto di un’indagine federale è passato in secondo piano. Nel 2015 l’Ufficio Diritti Civili del Ministero dell’Educazione ha fatto notare che fra il 2008 e il 2012 l’università aveva trascurato di prendere gli idonei provvedimenti in 22 casi denunciati di abusi sessuali, 21 del quali consistevano in «presunte aggressioni a scopo sessuale, alcune delle quali si configuravano come stupri individuali o di gruppo». Ovviamente, non ci sono dati sui casi non denunciati in quello che l’Ufficio Diritti Civili ha definito un ambiente ostile e insensibile nei confronti delle vittime. Vittime che spesso descrivono il processo della denuncia di uno stupro come un secondo giro di violazioni, traumi e umiliazioni.
Nonostante questo, molti continuano a ritenere e dichiarare che le accuse di stupro sono spesso false. In verità, i casi in cui una donna sostiene falsamente che uno specifico uomo l’abbia violentata sono rari. Gli studi più autorevoli indicano che fra il 2 e il 6% delle denunce di stupro sono false, il che significa che fra il 94 e il 98% sono vere. E anche questa statistica non vuol dire che quella piccola percentuale rappresenti accuse false, perché la categoria copre una serie di circostanze che vanno al di là del sostenere che una specifica persona abbia fatto qualcosa che non ha fatto. Vale inoltre la pena di notare che anche alle accuse di stupro veritiere raramente fanno seguito pene detentive. Come ho riportato nel mio saggio Men Explain Things to Me, «Un rapporto del 2000 del Dipartimento di Giustizia cita queste stime riguardo all’entità del fenomeno negli Stati Uniti: 322.230 stupri in un anno, che hanno portato a 55.424 denunce alla polizia, 26.271 arresti e 7007 condanne al carcere: ossia, poco più del 2% degli stupri censiti e del 12% di quelli denunciati hanno avuto come conseguenza una pena detentiva». Ci sono molti motivi per questo basso tasso di condanne: una è che le notizie non vengono tirate fuori.
Ogni brutta storia è una prigione: raccontarla significa far evadere qualcuno. È un gesto di liberazione. È un gesto che ha peso. Che cambia il mondo. Percy Bysse Shelley disse la famosa frase secondo cui i poeti sono i veri legislatori del mondo; i giornalisti sono i propagatori di storie che con il loro lavoro spesso cambiano il sistema di valori da cui poi derivano le riforme legislative e istituzionali. È un lavoro potente, onorevole e profondamente necessario, quando viene svolto con passione, indipendenza e coraggio. Ciò che rende Spotlight un grande film non è che fa vedere come una squadra di giornalisti investigativi del Boston Globe ha tirato fuori la storia dell’enorme frequenza di abusi sessuali all’interno della Chiesa cattolica. È che mostra anche come il Globe si fosse a lungo rifiutato di raccontare quella storia perché significava mandare a gambe all’aria una serie di rapporti e convinzioni di comodo.
Io sono convinta che i mezzi di informazione mainstream non siano prevenuti a favore della destra o della sinistra, ma a favore dello status quo: che tendano a dare credito a chi si trova in posizione di autorità, a fidarsi delle istituzioni, delle grandi aziende, dei ricchi e dei potenti e praticamente di qualunque maschio bianco in giacca e cravatta compiaciuto di sé, a lasciare che gente che si è dimostrata bugiarda continui a dire bugie che vengono riferite senza essere messe in discussione; che tendano a basarsi su pregiudizi culturali che vengono facilmente smentiti, e a sminuire quasi tutte le voci fuori dal coro, o screditandole, o sbeffeggiandole o anche solo ignorandole. Da qui, il silenzio sul fatto che la nostra economia, nell’ultimo terzo di secolo, si è trasformata in un sistema molto più iniquo; da qui, le moltissime testate giornalistiche di primo piano che hanno accettato la tesi pretestuosa di un collegamento fra l’Iraq e Al Qaeda dopo l’Undici Settembre; da qui, la perdurante e vile pretesa che le tesi negazioniste sul cambiamento climatico finanziate dalle multinazionali dei combustibili fossili rappresentino una posizione legittima a cui va dedicato lo stesso tempo che alla posizione concorde della stragrande maggioranza degli scienziati competenti.
Per i giornalisti e per gli esseri umani in genere, c’è un enorme rimosso: un cosiddetto «elefante nella stanza» di cui nessuno parla da molto, troppo tempo. Non è neanche un elefante: l’elefante nella stanza è la stanza stessa, la biosfera nella quale è racchiusa tutta la vita attualmente conosciuta nell’universo, e dalla quale tutto dipende, la biosfera ormai devastata dai cambiamenti climatici, con ulteriori cambiamenti ancora da venire. È un fenomeno di scala superiore a quanto gli esseri umani abbiano mai affrontato e i giornalisti raccontato, tranne forse la minaccia di una guerra nucleare totale, ma quella era una cosa che sarebbe potuta succedere, mentre questa sta succedendo davvero. Il cambiamento climatico è in corso, e sta cambiando tutto. È la cosa più grande di tutte, perché è tutto, almeno per il prevedibile futuro.
Alcune zone abitate della Terra diventeranno inabitabili; sempre più spesso le coltivazioni producono raccolti insufficienti, il che crea carestie, ondate migratorie legate al clima, conflitti (i fenomeni climatici hanno avuto un ruolo nella guerra civile siriana); la calotta glaciale della Groenlandia si sta sciogliendo a tutta velocità; e anche quella dell’Antartide occidentale si sta sciogliendo molto più rapidamente di quanto prevedevano i modelli elaborati qualche anno fa; entro la fine di questo secolo il livello del mare salirà in maniera così drammatica che ogni atlante mai stampato diventerà obsoleto, e nelle zone a minore altitudine avremo linee di costa del tutto nuove; a lungo andare New York sarà probabilmente spacciata, così come gran parte del Bangladesh, dell’Egitto e del Vietnam, nonché la Florida occidentale e altre porzioni della costa atlantica degli Stati Uniti; gli oceani si stanno trasformando in pozze acide; le scogliere coralline dove nascono e crescono i pesci che nutrono una percentuale significativa della popolazione terrestre stanno morendo in fretta; l’estinzione sta accelerando; e fenomeni atmosferici di inaudita violenza diventeranno la norma, producendo catastrofi come il megaincendio scoppiato proprio questo mese in Alberta, la più grande calamità naturale nella storia del Canada (di cui, per inciso, negli Stati Uniti si è parlato spaventosamente poco).
Tutte queste notizie fanno fatica a competere con le effimere sceneggiate umane che di volta in volta meglio si prestano a seminare scandalizzata indignazione e a raccogliere clic. Il che è in parte colpa della natura umana, in parte colpa dei media, incapaci di mettere le cose in prospettiva e di raccontare la scala e la pericolosità dei cambiamenti climatici – e le sempre minori possibilità che ci restano di minimizzarne anziché massimizzarne l’impatto. Le storie che stanno distruggendo la nostra casa – perlopiù in maniera lenta, indiretta, complessa – vengono quasi sempre trascurate e sottovalutate. Trattandosi di un processo in corso, invece di un singolo evento accaduto ieri, è difficile che se ne parli, anche quando rientrerebbe nella copertura delle normali notizie di scandali, menzogne e giri di soldi, come nel caso della Exxon e altre aziende di combustibili fossili che hanno nascosto informazioni sui cambiamenti climatici per decenni prima che ne venissimo a conoscenza. Il magnifico movimento globale che si è sviluppato intorno alla questione del clima e le rapidissime ed efficaci transizioni ad altre fonti di energia attualmente in corso vengono descritti nel migliore dei casi in maniera frammentaria, oppure ignorati del tutto.
Le generazioni future ci malediranno per esserci distratti dietro a mille futilità mentre il nostro pianeta bruciava. I giornalisti hanno un ruolo fondamentale rispetto alle possibilità e alle responsabilità in questo momento di crisi. Noi che creiamo e tiriamo fuori le storie abbiamo un potere tremendo.
E quindi, vi prego, rompete, scardinate, ribaltate la storia.
[1] Alcune scuole ovviamente insegnano benissimo a scrivere non-fiction, ma non tutte. E questa è un’altra storia.
© Rebecca Solnit, 2016. Tutti i diritti riservati.(12 Ottobre 2016 )

martedì 22 novembre 2016

Amanti



Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può
certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a
essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace
di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio
 (Platone, Simposio, 192 c-d.)


Indagando le pieghe della “sfera intermedia” tra gli uomini e gli dèi cui Eros, il daimon, appartiene, Umberto Galimberti in un libro pubblicato quasi dieci anni fa, Le cose dell’amore (Feltrinelli 2004), descriveva le molteplici manifestazioni dell’amore nell’esperienza umana, nel tentativo di risolvere l’enigma che, secondo Platone, con l’amore l’anima pone a se stessa, ma esprimendosi solo “con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio” (Simposio, 192 c-d).
Le “cose dell’amore” sono precisamente quei presagi: i volti e le figure che Eros assume nella psiche e nella vita dell’essere umano quando, per un incantesimo della fantasia, i frammenti dispersi che costituiscono la sfera emotiva profonda e che oggi, nell’era della tecnica, a volte sembrano quasi impronunciabili e indecenti, si coagulano e si rappresentano in una persona “speciale”.
Un atteggiamento cosciente votato in modo unilaterale al culto della cosiddetta ragione, o meglio l’adesione ingenua a una visione letterale e superficiale del reale, vissuta come unica realtà oggettiva, rende l’individuo assolutamente inerme di fronte alla propria complessità e lo espone alla possibilità che l’irragionevolezza, la “follia” cui Eros permette il transito (nel mito Eros è figlio di Pòros e Penìa: il passaggio e la mancanza)  dilaghi a proprio piacimento: come nel caso dell’amore-passione,  nel quale Eros costringe a patire, a cedere passivamente a un impulso che “vuole esprimere l’eccesso, l’insolito, lo sconvolgente, e non può farlo se non infrangendo le regole della ragionevolezza” (Galimberti, p. 144).
Ma la passione non permette alcuno scambio interpersonale, perché l’altro non esiste se non nell’immaginario; la passione non induce alla reciprocità ma solo a un desiderio di fusione con un’idea di perfezione, immaginata e proiettata nel volto dell’altro; si nutre dunque di irrealtà e impossibilità, perché l’idealizzazione che accende la passione non accetta il contatto col reale, non supera la prova di realtà e ha come suo rovescio la disperazione: quando l’oggetto della passione delude (e prima o poi inevitabilmente delude) o si sottrae, il soggetto che in esso si rispecchiava diventa vuoto e insignificante.
Se quello che viene chiamato amore si rivela soltanto un gioco di specchi sospinto dall’inconsapevole ricerca dell’altra parte di sé e diventa l’unico rifugio per tutto ciò che non ha dimora in un mondo dominato dalla cosiddetta razionalità, dall’efficienza, dalle leggi dell’economia e dell’apparenza, se questo “amore” non cerca e non vede realmente l’altro, perché il meccanismo della proiezione riduce l’altro a simulacro di ciò che l’individuo non conosce o non riconosce di se stesso, l’irruzione di Eros, il daimon di cui “l’Io non dispone, ma semmai è qualcosa che dispone dell’Io” (Galimberti, p. 153), diventa possessione e dissolve l’Io nell’indistinto, destituendolo di ogni potere di giudizio e di controllo. E le varie declinazioni dell’amore con la sessualità, il desiderio, l’idealizzazione, la seduzione, la passione, la gelosia, il possesso, il tradimento, l’odio e così via, appaiono come possibili aspetti di ciò che con l’amore per l’altro non ha nulla a che fare, fino ad approdare a un’inquietante contiguità con la follia. Non stupisce allora che suicidi o delitti consumati in nome di questo cosiddetto “amore” riempiano le cronache, oppure, senza arrivare a conseguenze tanto estreme (sia pure in preoccupante aumento), che le cosiddette “relazioni passionali” siano caratterizzate da tante sofferenze emotive, tormenti, assurdità.
Allontanandoci solo formalmente dalla vicenda umana personale, che il mito comunque raffigura nelle sue componenti fondamentali, la comparsa di Eros, del mediatore “tra la ragione che l’uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita” (Galimberti, p. 153), potrebbe e forse dovrebbe essere l’occasione per dare voce a quella parte di sé che non ha ancora trovato spazio nell’assetto della personalità individuale, potrebbe offrire l’opportunità di tornare a creare parole nuove, capaci di spezzare gli automatismi di una coscienza che ripete parole divenute “dure come sassi” – direbbe Nietzsche – e dunque svuotate di significato.
Dal punto di vista psichico la cacciata dal “paradiso” esprime metaforicamente la rottura dell’Uno, quella lacerazione inaugurale tra coscienza e inconscio che ci rende umani, ma che nel tempo si è trasformata sempre più in una guerra tra fratelli nemici, tra ragione e sragione, dove il “nemico” inconscio, banalizzato e respinto, è costretto alla clandestinità, talora nelle pieghe di misticismi popolari inculturati, orientalismi di massa o pratiche di posture imbalsamate; mentre d’altro canto celebra la sua fantasia di vittoria la tracotanza (hybris) della ragione umana che “nell’illusione di possedere una conoscenza senza limiti […] rivendica a se stessa il potere di trascendere ogni limite” (M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Cortina 2010, p. 61). Senza neanche accorgersi che, perduto il limite che la definisce, la coscienza perde definitivamente anche se stessa e si disperde nella ricerca spasmodica di cose nel mondo esterno che rispondano al suo ineliminabile bisogno di integrazione. Ma si tratta di un bisogno interiore reso incontenibile e mai soddisfatto proprio perché esaurisce nel rincorrere e nell’appropriarsi di qualcosa di esterno il tentativo vano di colmare una mancanza a essere strutturalmente costitutiva. E così si scambia per “amore” (passione) l’intensità stessa del bisogno di riparare la propria personale frattura attraverso il possesso della persona “amata”, che diventa “qualcosa” di cui disporre, nel bene e nel male, perché a livello inconscio rappresenta una parte irrinunciabile di sé.
Quella frattura, tuttavia, non è mai sanabile, né inseguendo il miraggio di un ritorno al paradiso delle origini, abbandonandosi dunque alla seduzione di un’impossibile totalità e dissolvendosi in una pseudo-relazione caratterizzata esclusivamente da possesso e dipendenza; né quando ci si impegni a rafforzare proprio ciò che quella frattura ha radicalizzato, riaffermando con forza il primato dell’istanza egoica che solo con ciò che chiama “ragione” si identifica e che dunque si sottrae difensivamente a una reale partecipazione emotiva alla vita di relazione.
Il “disordine” e lo “stupore” che si producono “al passaggio di Amore” potrebbero diventare, invece, possibilità di incontro e confronto con “gli abitanti di quel mondo che sta prima dell’umana ragione e che offre alla ragione i contenuti da ordinare” (Galimberti, p. 152, corsivo mio), ma solo se l’Io, mantenendo i propri confini e la funzione che gli è propria di fare ordine e gettare luce, riuscisse a riconoscere l’alterità dell’emozione che lo attraversa quale possibile interlocutore di un dialogo interiore che inevitabilmente lo relativizza e proprio per questo potrebbe contribuire a un arricchimento della personalità: sottraendo il soggetto all’identificazione con quella maschera con un’unica espressione (Nietzsche) in cui ha creduto di riconoscere se stesso. E ciò permetterebbe anche il riconoscimento dell’altro della relazione come individuo separato e distinto, a sua volta alle prese con il proprio personale incontro con le profondità segrete della sua dimensione psichica.
Che ne è allora in questo quadro dell’amore tra due persone?
La crisi del matrimonio che percorre la cultura occidentale si fonda, come sostiene Galimberti, da un lato proprio su una concezione dell’amore che lo consegna esclusivamente alla passione e alla sregolatezza, e dunque all’imprevisto e all’impossibilità della durata; dall’altro sull’inefficacia degli strumenti tradizionali di “regolazione” su cui insistono tutte le morali: “la moderazione, il contenimento, la proibizione”. Ma l’altro polo della dialettica esistenziale non è la moderazione, ci avverte, bensì l’azione che non si accontenta di una felicità passiva:
Non si dà un amore che, invece di patire, agisce, che invece di declinarsi sul solo versante della passione […] decide in modo irrevocabile e, a partire da questa decisione, non subisce l’amore, ma lo crea? (Galimberti, p. 138).
Compare qui, sia pure in forma interrogativa, la figura ambigua dell’amore-azione, che non evade dal mondo, come fa invece l’amore-passione votato a una dimensione illusoria, ma “assume il proprio impegno in questo mondo” (Galimberti, p. 139). Ciò sembra implicare intanto l’invito a concepire l’amore non più come uno stato (la condizione di innamoramento, per esempio), ma come un atto che
invece di divinizzare il desiderio e la sua incontenibile brama che consuma la vita, invece di rendergli un culto segreto e di aspettarsi un misterioso accrescimento di gioia, sta alla parola data e, a partire dalla fedeltà al patto, prende a costruire scenari d’amore (Galimberti, p. 139).
La proposta è molto suggestiva, pur lasciando aperti alcuni interrogativi. In che modo, per esempio, questa “fedeltà al patto” non significa voltare le spalle alla passione e negarne il ruolo nella vitalità della relazione? In che cosa l’amore-azione si differenzia veramente da quel conformismo moralistico che, prima dell’avvento del divorzio, ma spesso anche dopo, ha tenuto in piedi relazioni senza amore, contribuendo a tutta la mitologia negativa nata intorno all’amore coniugale e all’idea di fedeltà?


Io credo che l’amore-azione di Galimberti, che rinvia nella mia percezione alla figura di Socrate musicista proposta a suo tempo da Nietzsche come superamento di un razionalismo unilaterale e borioso, contenga in sé, e non possa non contenere, il gioco dei contrari: ragione e irragionevolezza, impulso e riflessione, passione e volontà, intensità e durata, l’uno e l’altro impegnati in una tensione che arricchisce e alimenta entrambi i poli, perché fondamentalmente li sottrae all’obbligatorietà di un agito unilaterale e li spinge continuamente alla creazione di altri modi di manifestarsi, li costringe, in definitiva, all’assunzione di responsabilità, perché, come diceva Musil, solo “l’uomo responsabile può sempre agire anche diversamente, ma l’irresponsabile, mai!” (R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi 1957, p. 256).
Se l’atto che “crea” amore è responsabilità, e dunque possibilità di agire diversamente, non si possono prefigurare gli “scenari d’amore” che la “fedeltà al patto” dovrà costruire, perché quella responsabilità condivide la natura creativa della nuova figura: l’amore-azione, se non è un rigurgito di razionalità presieduto dal Super-io, come potrebbe sembrare a una lettura frettolosa, dovrà trovare espressione e realizzazione negli esiti sempre nuovi e imprevedibili del confronto con ciò che per la sua estraneità, dentro ciascuno di noi come individuo e fuori di noi nella relazione con l’altro, continuerà a spiazzarci, sorprenderci, interrogarci.
Amore, dunque, come apertura di un’area di incontro/confronto tra due soggetti che condividano lo stesso impegno individuale, forse la stessa passione, ad attraversare e accettare in modo radicale la reale condizione umana: strutturalmente plurale e irriducibilmente contraddittoria.
Forse di questa versione dell’amore non esiste ancora una fenomenologia da raccontare, e forse per questo Galimberti non ce l’ha raccontata, lasciandoci la libertà e la responsabilità di sperimentare in prima persona le nostre possibilità di amare diversamente.


L'autore: Luciana Riommi


Luciana Riommi (a Roma dal 1945) da oltre trent’anni ascolta esistenze altrui, che accompagna per un certo tratto; da sempre è impegnata ad affermare la dignità della persona, contro la banalizzazione e la volgarità imperanti, contro ogni forma di violenza culturale, psicologica e fisica. Ama l’arte in tutte le sue declinazioni.
Ha pubblicato con la Fermenti Editrice la raccolta di aforismi, poesie e racconti 3 d’union insieme a Giovanni Baldaccini e Antòn Pasterius. Suoi testi sono presenti in rete sulla rivista “l'EstroVerso” e sui blog: “Il giardino dei poeti”, “Neobar”, “Il blog di Miglieruolo”.
Cura il blog personale “leggere riflettere scrivere”.

lunedì 21 novembre 2016

VOCI SDRUCCIOLE

Voci sdrucciole è un'antologia di poesie.
Come viene ricordato nell'introduzione è un sogno.
Infatti si dice: …”Ci sono sogni nelle voci e sono voci di sogno.
Così un giorno a primavera, il primo giorno di primavera (21 marzo 2016 a Palazzo Fibbioni a L’Aquila) quelle voci cantarono i sogni. Una alla volta. Tutte insieme. Cantarono quello che muove la terra e il cielo, sulla terra il passo degli uomini e degli animali, nel cielo il volo degli uccelli e il movimento degli astri, nel mare il moto delle onde. Cantarono insieme. Il piacere e il dolore, il tormento e l’estasi, il riso e il pianto, la gioia, la frenesia, la pace e l’amore.
Così c’era un dono nelle lingue, nelle parole, nelle sillabe, il dono che l’uomo ha ricevuto per la sua esistenza sulla terra in cambio dell’immortalità adamitica sacrificata all'amore. La poesia dono dell’amore, fascino di libertà, fiore di innocenza…”
Leggendo, recitando, declamando, urlando, sussurrando versi da quell'incontro sono nate ipotesi di un comune lavoro che l'’Associazione Bambini di Ieri e di Oggi ha trasformato in iniziative e incontri che compongono l’articolazione di un progetto la cui realizzazione è affidata appunto a quel gruppo di poeti che, nel frattempo, ha voluto dare vita ad un’aggregazione, il cui fascino e senso sta proprio nel nome assunto: LA COMPAGNIA DEI POETI.

INVERNO AL PRATO DELLA VALLE -poesie-





1
Questa notte verranno i sogni
se non mi faranno soffrire
per avere gli occhi aperti
sarà perché
nei suoi viaggi, passando
e ripassando dal cuore
come un ricamo mai consumato
questa notte sarà capace
di bruciare i sogni
come le stelle di carta argentata.

2
E nella voce il pianto
disteso nel tempo
come un giorno lungo
d’agosto.

3
E con la prima stella
nel cielo fresco dell’inverno
il fumo si confonde con le ombre.
Sui tetti delle case
aggrappate ad anni solitari
e a colline pietrose
è tutto un silenzioso via vai
di carezze dentro sogni dispersi
che stasera  stentano ad addormentarsi.

4
Al termine di un giorno
restano a bagnarsi sotto
l’umida sera di settembre
un prato e un cuore:
solitudini alla luce lunare
e desolate terre
dei primi desolati sogni
che non riescono ad incuriosire
nemmeno più la vita.

5
Amami come solo tu sai amare.
Perduta questa dolcezza ormai
a me ignota,rimane
una casa con i vetri sporchi.

6
Era la prima luna
nella prima ora della notte
pura nel freddo puro
d’inverno:
sembrava il volto
della stagione nostra
lieve come l’aria
pure trafitta da un’attesa fatta
da un poco di pianto
da un poco di speranza.

7
Questa città che amo in segreto
senza mai  osare di confessarlo
è uno sguardo, una luce
un cielo riflesso dentro l’ombra
d’una finestra,calore di bocche
che scioglie il respiro.
Amo il respiro di questa città
lo porta il vento che asciuga
la terra e le ossa dei suoi morti.


8
Voglio vedere un altro tramonto
voglio vedere un’altra alba.
Per resistere vivo
ogni respiro può essere
un immediato pensiero
un pensiero di vita,
posato leggero come il volo
dei passeri,
come cuore d’un nido
in fondo al bosco,
leggiadra e dorata fiamma
come passione ostinata
e soffio d’ali nell’aria.

9
Brilla nitida l’Orsa.
Dondola la luna in cielo,
Tra i ciottoli che risuonano
come rintocchi  in un mare
di marmo
tra fili d’erba come lampi
di terra smossa
è tutto un camuffarsi di ombre:
fanno la fila per entrare
nel letto dell’alba
prima di svendersi al vento
d’un altro irrequieto giorno
che s’annuncia attorno,
attorno,
come l’inverno  al prato della valle.