Quella che
segue è la versione riadattata del testo di un discorso tenuto nel 2016 da Rebecca
Solnit ai laureati della Graduate School of Journalism presso l’Università
della California di Berkeley.
Il pezzo, apparso originariamente su LitHub.com, viene qui riprodotto per gentile
concessione dell’autrice.
Rebecca
Solnit, giornalista e saggista, è una figura di spicco nel dibattito
intellettuale statunitense degli ultimi anni; si è occupata di ambiente,
politica, critica d’arte, diritti civili. Il suo libro più recente è la
raccolta di saggi Men Explain
Things to Me; in Italia sono usciti Speranza nel buio e Un
paradiso all’inferno (per Fandango) e Storia del camminare (per Bruno
Mondadori).
di Rebecca
Solnit
traduzione di Martina Testa
Breaking
the story,
letteralmente «rompere la storia», è un’espressione del gergo giornalistico che
significa fare uno scoop, essere i primi a raccontare qualcosa; ma per me il
termine ha un’eco più profonda. Quando si fa il resoconto di un certo evento,
grande o piccolo che sia – un’elezione presidenziale, un’assemblea del
consiglio d’istituto – l’idea è quella di mettere insieme una storia su ciò che
è accaduto. Ma è evidente che noi viviamo immersi nelle storie come i pesci
nell’acqua: le respiriamo, riempiendocene i polmoni e buttandole fuori. L’arte
di vivere con piena consapevolezza, a livello personale, consiste nel vedere le
storie e diventarne i narratori, invece di subirle come forze nascoste che ci
governano. Essere un narratore a livello pubblico richiede le stesse doti ma
con conseguenze e responsabilità più ampie, perché la storia che si racconta
diventa parte di quell’acqua, smentisce o conferma le storie già esistenti. Il
vostro compito di giornalisti è raccontare la storia che appare in superficie,
la storia conclusa in sé stessa, quella che è avvenuta ieri. Ma è anche vedere
e rendere visibili e a volte rompere, dischiudere, scardinare le storie che
abbiamo intorno, quelle che sono già scritte, e comprendere il rapporto fra le
due cose.
Ci sono
storie sotto le storie e intorno alle storie. L’evento recente che appare in
superficie è spesso solo un fregio sul cofano sotto cui gira il potente motore
sociale di una storia che sta dando una direzione alla nostra cultura. Sono
quelle che chiamiamo narrazioni dominanti, paradigmi, memi o metafore in base
alle quali viviamo, o contesti in cui inquadrare le esperienze. Comunque le
vogliamo definire, sono forze di una potenza immensa. E la cultura dominante
tende perlopiù a confermare le storie che sono i pilastri che la tengono in
piedi, nonché, troppo spesso, le sbarre della gabbia altrui. Queste sono fin
troppo spesso storie che andrebbero rotte, scardinate, ribaltate o che sono
già rotte, rovinate, rovinose e obsolete. Si basano su montagne di
affermazioni non dimostrate. Perché i media sono tanto diligenti nel ribadire
la pericolosità del terrorismo, che uccide così poche persone nel nostro paese,
e trattano quasi sempre come una banalità la violenza domestica, che terrorizza
milioni di donne statunitensi per lunghi periodi e ne uccide circa 1200 ogni
anno? Come si fa a tirar fuori la storia di ciò che davvero ci minaccia e ci
uccide?
Una cosa da
tener presente è il ciclo vitale e la catena alimentare delle storie. Le storie
nuove, quelle dirompenti, tendono a venire dai margini e dai bordi. Non è stato
veramente Gandhi a dire: «Prima ti ignorano, poi ridono di te, poi ti fanno la
guerra, e poi tu vinci», ma è così che funziona in genere l’attivismo. E quando
l’attivismo vince è perché, almeno in parte, la sua storia è diventata la nuova
narrazione, la storia che l’opinione pubblica accetta. In questo il giornalismo
gioca un ruolo cruciale. Il movimento Black Lives Matter sta cambiando la
storia sotto i nostri occhi, mettendo in piena luce l’epidemia di omicidi
compiuti dalla polizia e il fatto che questi omicidi di giovani di colore
privano intere comunità dei loro diritti, fra cui il diritto a essere protette,
e non minacciate, dai pubblici ufficiali. Ecco, questa storia è cominciata con
gli attivisti, è divampata sui social ed è stata poi ripresa da certi mezzi di
informazione, che hanno dato ampia visibilità a storie che sarebbero potute
rimanere semplici trafiletti nella cronaca locale, e invece hanno acceso un
dibattito in tutto il paese. Adesso sappiamo i loro nomi: Eric Garner, Mario
Woods, Sandra Bland, Tamir Rice. Questa storia è stata portata dai margini al
centro, e molte persone che non sono direttamente colpite dal problema hanno
abbracciato comunque la causa. E nella mia città, San Francisco, uno sciopero
della fame ha richiamato ulteriore attenzione sugli omicidi commessi dalla
polizia ai danni di cittadini ispanici o neri, nella fattispecie Alex Nieto,
Amilcar Lopez-Perez, Luis Gongora e, lo scorso 19 maggio, Jessica Williams.
Grazie alla pubblica indignazione un capo della polizia è stato rimosso
dall’incarico il giorno in cui un agente ha sparato alla Williams, disarmata,
uccidendola.
Parte del
compito di un grande giornalista, di un grande narratore, sta nell’analizzare
le storie che si nascondono sotto quelle di cui gli è stato chiesto di
scrivere, magari per portarle alla luce, e a volte per liberarcene
definitivamente. Rompere la storia dominante, scardinarla. In questo tipo di
scrittura, rompere è un atto creativo tanto quanto costruire. Molti scrittori,
riflettendo sul loro lavoro, hanno detto che il mondo è fatto di storie come se
questa fosse una cosa bella, ma è bella solo nella misura in cui lo sono le
storie in questione. Ci sono storie che demonizzano la rabbia femminile e la
rabbia dei neri e venerano la rabbia dei maschi bianchi. Ci sono storie
sull’inevitabilità del capitalismo, storie secondo cui esistono due versioni
della realtà del cambiamento climatico, e una miriade di storie che non vengono
raccontate perché danno fastidio, scomodano i potenti, fanno scricchiolare lo
status quo. Sono queste le storie che venite mandati a raccontare in questa
bella giornata di maggio, storie che vi renderanno molto sgraditi a gente a cui
è bello risultare sgraditi, e amati da altra gente da cui è ancora più bello
essere amati.
Ad agosto
saranno undici anni da quando un triplo disastro si è abbattuto su New Orleans.
L’uragano è stato il male minore; il cedimento delle infrastrutture e decenni
di pessima pianificazione e ancor peggiore realizzazione dei piani l’hanno
trasformato in un disastro accuratamente previsto e perlopiù causato dall’uomo,
aggravato poi dal totale venir meno del contratto sociale. I poveri sono stati
lasciati ad annegare o a soffrire. E poi sono arrivati i media, a
criminalizzare gente che stava cercando di salvarsi la pelle e a ossessionarsi
sulla possibilità che qualcuno stesse rubando un televisore, dimostrando
chiaramente che consideravano più importante proteggere i televisori che
salvare nonne morenti e bambini traumatizzati. Hanno ripiegato su una manciata
di cliché che erano già ben consolidati nel 1906, quando ci fu il famoso
terremoto qui a San Francisco.
Per una
fortunata coincidenza di tempi, ero abbastanza preparata a essere scettica
rispetto alle narrazioni sulle bande selvagge di stupratori, sciacalli e
assassini. Avevo appena finito le ricerche e la stesura di un saggio proprio
sul terremoto del 1906. Quelle leggende urbane non erano vere nel 1906 e non
erano vere nel 2005, anche se venivano riportate dal Guardian, dal New
York Times, dal Washington Post, dalla NBC, dalla CBS, dalla CNN e
da molti altri mezzi di informazione. «Tendono a muoversi in branco e a
raccontare la stessa storia», ha detto recentemente Adam Hochschild riferendosi
ai giornalisti durante la guerra civile spagnola. Qualunque cosa facciate, voi
non unitevi al branco. Se da qualche parte c’è un branco, vuol dire che
qualcuno ha già la storia in pugno. Cambiate direzione e andate a cercare la
storia che nessuno sta raccontando.
In occasione
del decimo anniversario di quella catastrofe causata dall’uomo chiamata
Katrina, scrivevo su Harper’s
Un vasto
numero di abitanti perlopiù afroamericani di New Orleans erano intrappolati sui
tetti, sulle sopraelevate, nel Convention Center e nel Superdome, in mezzo
all’afa soffocante di una città per l’80% sommersa dall’acqua, demonizzati dal
governo e dai mezzi di informazione mainstream e rappresentati come troppo
selvaggi e pericolosi per essere salvati o autorizzati a lasciare la città. I
potenziali soccorritori che arrivavano da fuori venivano rimandati indietro
dalle forze dell’ordine, così come la gente che da dentro cercava di scappare.
New Orleans era diventata, per mano di un’autorità maligna, una prigione. Visto
che gli abitanti di Baltimora sono stati demonizzati per le sommosse dello
scorso aprile, e che le catene di negozi e la sede di uno spregiudicato banco
dei pegni sono diventati per molti americani luoghi sacri e intoccabili, è
facile immaginare un altro disastro simile.
Il complice
mai incriminato della disumanizzazione, dell’imprigionamento e della morte di
tanti cittadini, perlopiù afroamericani, spesso anziani, di New Orleans, sono
stati e sono i media mainstream. Hanno fatto ricorso alle solite storie
allarmistiche di saccheggi, stupri, orde di predoni, ansiosi di rappresentare i
neri come se fossero mostri e nemici invece che le vittime vulnerabili e
bisognose di una catastrofe. Hanno inventato nuove storie, che si sono rivelate
del tutto infondate, su gente che sparava agli elicotteri e mucchi di cadaveri
prodotti da massacri immaginari dentro il Superdome.
Per me
quelle erano storie rotte, guaste, che non funzionavano, o storie che andavano
rotte, ossia scardinate e sviscerate. Mi sono accorta, man mano che continuavo
a tornare a New Orleans dopo Katrina, che erano stati in effetti compiuti
crimini orrendi, e che le armate di giornalisti da cui era stata invasa la
città li avevano totalmente ignorati, o non avevano saputo vederli: non erano i
crimini della povera gente contro il sistema, ma i crimini del sistema contro
la povera gente. C’erano stati omicidi per mano della polizia e abusi da parte
dei vigilantes bianchi. Ho messo insieme fonti e contatti, fotografie e
piste, brandelli di verità taciute ma sotto gli occhi di tutti, e ho consegnato
questo materiale a un grandissimo giornalista investigativo, A.C. Thompson, che
l’ha pubblicato e, una volta arrivato di persona a New Orleans, ne ha fatto
nascere ulteriori storie, in particolare un’inchiesta sulla morte di Henry
Glover, un nero disarmato a cui la polizia aveva sparato alle spalle. Questa
storia ha fatto finire in carcere dei poliziotti, cosa che raramente accade.
Anch’io ho pubblicato articoli al riguardo, e ho scritto un libro
sull’effettivo comportamento delle persone durante le catastrofi, intitolato Un
paradiso all’inferno.
Un giorno,
in quel periodo, stavo uscendo dalla sede di una radio dove avevo parlato di
come erano andate davvero le cose durante Katrina. Ho acceso l’autoradio della
macchina e ho sentito A.C. che parlava della stessa cosa su un’altra stazione.
Seduta al volante ho pensato: siamo veramente riusciti a rompere questa storia,
a ribaltare e rovesciare la versione ufficiale dei fatti. La storia che la
gente ricordava a dieci anni di distanza non era più la storia che i media
mainstream avevano usato nel 2005 per il loro ritratto a tinte fosche della
popolazione nera e della natura umana in generale. Non ci eravamo riusciti da
soli, è ovvio. Tirar fuori una storia dirompente in genere è un processo lungo
e collettivo. Di solito comincia con degli attivisti, dei testimoni, qualcuno
che denuncia una situazione illegale, e con le vittime, le persone colpite, le
persone in prima linea. Del passo successivo si incaricano spesso quelli che
hanno il potere di raccontare una storia, che lavorano nei media e sono
disposti ad ascoltare. Come giornalisti non sarete mai i primi a sapere una
cosa, se vi state occupando di ciò che è successo a un’altra persona, ma può
darsi che siate i primi ad ascoltarla. La storia è sempre, in primo luogo, di
qualcun altro, e non smette mai di esserlo, per quanto siate bravi a
raccontarla, per quanto siate efficaci nel diffonderla. Sentire questa
responsabilità verso il soggetto, il pubblico e la testimonianza storica è uno
dei motivi per cui sono felice di aver frequentato una facoltà di giornalismo e
non un corso di scrittura dove insegnano che la non-fiction è un romanzo in cui
non c’è bisogno di inventare i personaggi e la trama.[1]
Quest’anno è
morto uno dei grandi giornalisti del nostro tempo, Ben Bagdikian. Era stato
autore di una rivoluzionaria inchiesta sulla tremenda minaccia alla democrazia
rappresentata dai monopoli dei media, all’epoca in cui ero una sua studentessa
nella stessa facoltà in cui ci troviamo oggi. Molti anni prima, era stato lui
il giornalista a cui Daniel Ellsberg aveva affidato i cosiddetti Pentagon
Papers, i documenti che smascheravano le menzogne di quattro presidenti sulla
guerra in Vietnam, ribaltando la storia della guerra. Ho avuto la fortuna di
frequentare il suo corso di etica, nel quale ci insegnava che «non si può
essere obiettivi, ma si può essere onesti». L’obiettività è l’illusione che
esista un territorio neutrale, una terra di nessuno, politicamente parlando, su
cui potete lavorare sia voi che i mezzi di informazione mainstream. Ma anche la
scelta della notizia da raccontare, della fonte da citare, è una decisione
politica. Tendiamo a trattare le posizioni più marginali come ideologiche, e
quelle più centriste come neutrali, come se la decisione di non possedere una
macchina fosse politica e quella di possederla no, come se appoggiare una
guerra fosse un atteggiamento neutro e opporvisi no. Ma non c’è nulla di
apolitico, non si resta mai a bordo campo, non esiste il territorio neutrale:
tutti siamo impegnati.
L’espressione
giornalismo militante è spesso usata con un’accezione negativa, ma in
genere un buon pezzo di denuncia non è altro che un gesto di militanza. Se
smascherate le bugie di un presidente, come hanno fatto Bagdikian ed Ellsberg,,
con ogni probabilità ritenete che un capo di stato non debba mentire: se
dimostrate che una multinazionale sta inquinando l’acqua che beviamo – mediante
la pratica del fracking, per dire – con ogni probabilità non siete a
favore dell’avvelenamento delle falde idriche. È incredibile quanta gente sia
pronta a difendere l’avvelenamento di persone, animali e luoghi, di solito
negando che certi veleni siano tali; e ciò fa sì che a volte essere contrari
all’avvelenamento diventi una posizione scomoda. Laura Poitras e Glenn
Greenwald avevano un’opinione ben precisa sulla legittimità del fatto che
l’Ente per la Sicurezza Nazionale accumulasse enormi quantità di dati sul
nostro conto, con l’aiuto e il favoreggiamento delle grandi aziende della
Silicon Valley a cui tutti siamo legati; ma hanno diffuso i dati in modo da
lasciar decidere a noi come porci rispetto alle rivelazioni fatte da Edward
Snowden nel 2013.
Compito del
giornalista non è guardare da una finestra che qualcun altro ha costruito, ma
uscire dalla stanza, esaminare la cornice che delimita quella finestra, oppure
smantellare la casa intera e liberare ciò che c’è dentro, il tutto allo scopo di
rendere visibile ciò che prima era impossibile guardare. Il giornalismo ha la
tendenza a concentrarsi su ciò che è cambiato ieri invece di chiedersi quali
sono le forze sotterranee e i beneficiari nascosti dello status quo di oggi. Un
poliziotto spara a un nero: cosa c’è bisogno di sapere, a parte i dettagli
dell’accaduto? Quanto spesso queste cose accadono, per esempio, o che effetto
hanno a lungo andare sulle comunità nere, o quali sono i tipici modi di
giustificarle. È per questo che vi serve conoscere la storia, anche se fate i
giornalisti e non gli storici. Dovete conoscere certi schemi per accorgervi che
molte persone prendono la massa aggrovigliata dei fatti e la incasellano in
quegli schemi familiari: selezionando, equivocando, distorcendo, escludendo,
ricamando.
Alcune delle
storie che dobbiamo tirare fuori non riguardano eventi eccezionali, sono la
squallida tappezzeria della nostra vita quotidiana. C’è, ad esempio, la diffusa
convinzione che le donne mentano sul fatto di essere state stuprate: non in
qualche caso, non in via eccezionale, ma in generale. Questo pregiudizio deriva
dall’idea che l’affidabilità e la credibilità siano doti naturali degli uomini
tanto quanto la tendenza a dire il falso e la vendicatività sarebbero tratti
tipici delle donne. In altre parole, dall’idea che tutti questi casi di
ingiustizia e di violenza se li siano inventati di sana pianta le femministe,
perché se così non fosse dovremmo mettere in discussione quell’immensa storia
che va sotto il nome di patriarcato.
Io mi sono
occupata parecchio della questione dello stupro e delle bugie, e volete sapere
chi è che mente di continuo, in fatto di stupri? Gli stupratori. Che è la cosa
più ovvia del mondo da dire, solo che non la dice mai nessuno. È una notizia
che non viene data, una storia che non viene tirata fuori. Gli stupratori
mentono abitualmente, costantemente, regolarmente, salvo rare eccezioni. C’è un
vecchio adagio del giornalismo secondo cui un uomo che morde un cane fa
notizia, un cane che morde un uomo no; ma se nessuno avesse mai raccontato che
i cani mordono, se la gente negasse che i cani mordono, o che abbiano i denti,
o anche semplicemente che siano cani? E così, un esempio di pessimo giornalismo
come l’articolo di Rolling Stone su un presunto stupro all’Università
della Virginia è stato riciclato come prova della tendenza generale delle donne
a mentire, mentre il fatto che quel college avesse un problema di molestie
sessuali talmente grave da essere oggetto di un’indagine federale è passato in
secondo piano. Nel 2015 l’Ufficio Diritti Civili del Ministero dell’Educazione ha
fatto notare che fra il
2008 e il 2012 l’università aveva trascurato di prendere gli idonei
provvedimenti in 22 casi denunciati di abusi sessuali, 21 del quali
consistevano in «presunte aggressioni a scopo sessuale, alcune delle quali si
configuravano come stupri individuali o di gruppo». Ovviamente, non ci sono
dati sui casi non denunciati in quello che l’Ufficio Diritti Civili ha definito
un ambiente ostile e insensibile nei confronti delle vittime. Vittime che
spesso descrivono il processo della denuncia di uno stupro come un secondo giro
di violazioni, traumi e umiliazioni.
Nonostante
questo, molti continuano a ritenere e dichiarare che le accuse di stupro sono
spesso false. In verità, i casi in cui una donna sostiene falsamente che uno
specifico uomo l’abbia violentata sono rari. Gli studi più autorevoli indicano
che fra il 2 e il 6% delle denunce di stupro sono false, il che significa che
fra il 94 e il 98% sono vere. E anche questa statistica non vuol dire che
quella piccola percentuale rappresenti accuse false, perché la categoria
copre una serie di circostanze che vanno al di là del sostenere che una
specifica persona abbia fatto qualcosa che non ha fatto. Vale inoltre la pena
di notare che anche alle accuse di stupro veritiere raramente fanno seguito
pene detentive. Come ho riportato nel mio saggio Men Explain Things to Me,
«Un rapporto del 2000 del Dipartimento di Giustizia cita queste stime riguardo
all’entità del fenomeno negli Stati Uniti: 322.230 stupri in un anno, che hanno
portato a 55.424 denunce alla polizia, 26.271 arresti e 7007 condanne al
carcere: ossia, poco più del 2% degli stupri censiti e del 12% di quelli
denunciati hanno avuto come conseguenza una pena detentiva». Ci sono molti
motivi per questo basso tasso di condanne: una è che le notizie non vengono
tirate fuori.
Ogni brutta
storia è una prigione: raccontarla significa far evadere qualcuno. È un gesto
di liberazione. È un gesto che ha peso. Che cambia il mondo. Percy Bysse
Shelley disse la famosa frase secondo cui i poeti sono i veri legislatori del
mondo; i giornalisti sono i propagatori di storie che con il loro lavoro spesso
cambiano il sistema di valori da cui poi derivano le riforme legislative e
istituzionali. È un lavoro potente, onorevole e profondamente necessario,
quando viene svolto con passione, indipendenza e coraggio. Ciò che rende Spotlight
un grande film non è che fa vedere come una squadra di giornalisti
investigativi del Boston Globe ha tirato fuori la storia dell’enorme
frequenza di abusi sessuali all’interno della Chiesa cattolica. È che mostra
anche come il Globe si fosse a lungo rifiutato di raccontare quella
storia perché significava mandare a gambe all’aria una serie di rapporti e
convinzioni di comodo.
Io sono
convinta che i mezzi di informazione mainstream non siano prevenuti a favore
della destra o della sinistra, ma a favore dello status quo: che tendano a dare
credito a chi si trova in posizione di autorità, a fidarsi delle istituzioni,
delle grandi aziende, dei ricchi e dei potenti e praticamente di qualunque
maschio bianco in giacca e cravatta compiaciuto di sé, a lasciare che gente che
si è dimostrata bugiarda continui a dire bugie che vengono riferite senza
essere messe in discussione; che tendano a basarsi su pregiudizi culturali che
vengono facilmente smentiti, e a sminuire quasi tutte le voci fuori dal coro, o
screditandole, o sbeffeggiandole o anche solo ignorandole. Da qui, il silenzio
sul fatto che la nostra economia, nell’ultimo terzo di secolo, si è trasformata
in un sistema molto più iniquo; da qui, le moltissime testate giornalistiche di
primo piano che hanno accettato la tesi pretestuosa di un collegamento fra
l’Iraq e Al Qaeda dopo l’Undici Settembre; da qui, la perdurante e vile pretesa
che le tesi negazioniste sul cambiamento climatico finanziate dalle
multinazionali dei combustibili fossili rappresentino una posizione legittima a
cui va dedicato lo stesso tempo che alla posizione concorde della stragrande
maggioranza degli scienziati competenti.
Per i
giornalisti e per gli esseri umani in genere, c’è un enorme rimosso: un
cosiddetto «elefante nella stanza» di cui nessuno parla da molto, troppo tempo.
Non è neanche un elefante: l’elefante nella stanza è la stanza stessa, la
biosfera nella quale è racchiusa tutta la vita attualmente conosciuta
nell’universo, e dalla quale tutto dipende, la biosfera ormai devastata dai
cambiamenti climatici, con ulteriori cambiamenti ancora da venire. È un
fenomeno di scala superiore a quanto gli esseri umani abbiano mai affrontato e
i giornalisti raccontato, tranne forse la minaccia di una guerra nucleare
totale, ma quella era una cosa che sarebbe potuta succedere, mentre questa sta
succedendo davvero. Il cambiamento climatico è in corso, e sta cambiando tutto.
È la cosa più grande di tutte, perché è tutto, almeno per il prevedibile
futuro.
Alcune zone
abitate della Terra diventeranno inabitabili; sempre più spesso le coltivazioni
producono raccolti insufficienti, il che crea carestie, ondate migratorie
legate al clima, conflitti (i fenomeni climatici hanno avuto un ruolo nella
guerra civile siriana); la calotta glaciale della Groenlandia si sta
sciogliendo a tutta velocità; e anche quella dell’Antartide occidentale si sta
sciogliendo molto più rapidamente di quanto prevedevano i modelli elaborati
qualche anno fa; entro la fine di questo secolo il livello del mare salirà in
maniera così drammatica che ogni atlante mai stampato diventerà obsoleto, e
nelle zone a minore altitudine avremo linee di costa del tutto nuove; a lungo
andare New York sarà probabilmente spacciata, così come gran parte del
Bangladesh, dell’Egitto e del Vietnam, nonché la Florida occidentale e altre
porzioni della costa atlantica degli Stati Uniti; gli oceani si stanno
trasformando in pozze acide; le scogliere coralline dove nascono e crescono i
pesci che nutrono una percentuale significativa della popolazione terrestre
stanno morendo in fretta; l’estinzione sta accelerando; e fenomeni atmosferici
di inaudita violenza diventeranno la norma, producendo catastrofi come il
megaincendio scoppiato proprio questo mese in Alberta, la più grande calamità
naturale nella storia del Canada (di cui, per inciso, negli Stati Uniti si è
parlato spaventosamente poco).
Tutte queste
notizie fanno fatica a competere con le effimere sceneggiate umane che di volta
in volta meglio si prestano a seminare scandalizzata indignazione e a
raccogliere clic. Il che è in parte colpa della natura umana, in parte colpa
dei media, incapaci di mettere le cose in prospettiva e di raccontare la scala
e la pericolosità dei cambiamenti climatici – e le sempre minori possibilità
che ci restano di minimizzarne anziché massimizzarne l’impatto. Le storie che
stanno distruggendo la nostra casa – perlopiù in maniera lenta, indiretta,
complessa – vengono quasi sempre trascurate e sottovalutate. Trattandosi di un
processo in corso, invece di un singolo evento accaduto ieri, è difficile che
se ne parli, anche quando rientrerebbe nella copertura delle normali notizie di
scandali, menzogne e giri di soldi, come nel caso della Exxon e altre aziende
di combustibili fossili che hanno nascosto informazioni sui cambiamenti
climatici per decenni prima che ne venissimo a conoscenza. Il magnifico
movimento globale che si è sviluppato intorno alla questione del clima e le
rapidissime ed efficaci transizioni ad altre fonti di energia attualmente in
corso vengono descritti nel migliore dei casi in maniera frammentaria, oppure
ignorati del tutto.
Le
generazioni future ci malediranno per esserci distratti dietro a mille futilità
mentre il nostro pianeta bruciava. I giornalisti hanno un ruolo fondamentale
rispetto alle possibilità e alle responsabilità in questo momento di crisi. Noi
che creiamo e tiriamo fuori le storie abbiamo un potere tremendo.
E quindi, vi
prego, rompete, scardinate, ribaltate la storia.
[1] Alcune scuole ovviamente insegnano
benissimo a scrivere non-fiction, ma non tutte. E questa è un’altra storia.
© Rebecca
Solnit, 2016. Tutti i diritti riservati.(12 Ottobre 2016 )