ET TERRA
MOTA EST L'Aquila, coi terremoti del
2016 la desiderabilità della città è crollata: ecco perché
di Mattia Fonzi
I terremoti
che, il 24 agosto, il 26 e il 30 ottobre scorsi, hanno scosso l'Appennino
centrale, si sono ripercossi anche all'Aquila producendo, soprattutto a medio
termine, un danno socio-culturale importante: «Un ulteriore e grave crollo
della desiderabilità della città».
Ad
affermarlo è Antonello Ciccozzi, antropologo dell'Università degli Studi
dell'Aquila e attento osservatore delle dinamiche socio-culturali che hanno
attraversato L'Aquila, soprattutto a partire dal terremoto del 6 aprile 2009,
quello ha cambiato profondamente il corso della sua storia recente.
Con news-town.it
Ciccozzi ha già dialogato due settimane fa [leggi
l'articolo di seguito], quando abbiamo sviscerato le sfaccettature sociali
della percezione del rischio. Ma perché la desiderabilità dell'Aquila, agli
occhi dei non-aquilani, è mutata dopo le scosse di agosto e ottobre? La
consapevolezza della sismicità della città è stata davvero razionalizzata negli
ultimi sette anni e mezzo, oppure la comunità ha attivato dispositivi
culturali che hanno preso la strada della rimozione del rischio?
"Il
terremoto refa' fra trecento anni". «Negli ultimi anni, talvolta, abbiamo rimosso il
rischio più culturalmente che strutturalmente». In tal senso sono stati messi
in campo alcuni cerimoniali sociali, come li definisce Ciccozzi: «Uno è
il diffuso proverbio post-sismico "tanto mo' ha fatto, refa' fra
trecento anni!" (Ormai il terremoto ha fatto, e rifarà tra trecento
anni, ndr), in relazione alla credenza quasi totalmente
pseudo-scientifica secondo la quale nell'aquilano i terremoti distruttivi si
susseguono ogni tre secoli circa», sottolinea l'antropologo aquilano. E
si tratta di una vulgata diffusa e inconsciamente incorporata in città,
molto di più di quel che si crede. Una credenza che porta a
sottovalutare il rischio, a livello individuale, collettivo e istituzionale.
L'idea ha
indubbiamente – forse in modo inconsapevole – influenzato anche le politiche
pubbliche con le quali si è approcciato in questi anni alla sicurezza
sismica, partendo dal "peccato originale", ossia la scelta del miglioramento
sismico, a scapito dell'adeguamento. Come è noto agli addetti ai
lavori – se ne parlò molto nell'immediato post-sisma aquilano – la differenza
tra adeguamento e miglioramento sismico è sostanziale.
L'adeguamento, secondo le normative vigenti, prevede interventi sull'edificio
per il raggiungimento di un indicatore di sicurezza sismico convenzionale pari
a 1 (il grado massimo). Il miglioramento, invece, prevede lavori per un
coefficiente di sicurezza più basso rispetto all'adeguamento, stabilito in base
al tipo di edificio (pubblico o privato) e all'attività in esso effettuata
(scuole, ospedali, etc.).
Com'era, dov'era? Questi temi sono per Ciccozzi
legati ad aspetti culturali, prima ancora che tecnici: «Nei casi in cui
subordiniamo il valore della sicurezza sismica degli edifici, a quello della
loro tutela storico-artistico-architettonica». In merito il ricercatore
chiarisce che «se il come ricostruire è uno questione tecnica di tipo
ingegneristico-architettonico, il perché restaurare in luogo di demolire
rimanda a un campo di premesse culturali; un campo che è quello
dell'antropologia dell'abitare, nonché della concezione della storia».
Qui entra in
gioco, nel caso dell'Aquila, la questione del "com'era dov'era".
Questa impostazione, secondo l'antropologo aquilano, porta, se estesa a dogma,
«al rischio di un assolutismo della conservazione». Una prospettiva a
ben vedere infondata in quanto «basata su un'idea dell'Aquila in cui il centro
storico è ridotto a un unum medievale; e su una concezione della storia
dove la stessa è semplicisticamente confusa con il passato. Anzi, con un
momento del passato elevato a emblema identitario, e non intesa per quello che
è, ossia come un processo in divenire».
In merito lo
studioso nota che «se uscissimo dalla tentazione identitarista di confondere la
storia della città con una istantanea di nostro gusto del suo passato remoto,
ci accorgeremmo che l'urbanistica aquilana è solo marginalmente medievale; la
città storica è, viceversa, un'antologia di stili architettonici, dati molte
volte proprio dalle successive ricostruzioni non basate affatto sul com'era
dov'era». In tal senso Ciccozzi osserva che «il costrutto mitologico-politico
del com'era dov'era può arrivare a inibire la possibilità di
re-immaginare e riscrivere il nuovo anche dentro il centro storico, sostituendo
con architetture contemporanee di valore gli elementi di tessuto urbano di
scarso valore e gravemente danneggiati». Invece, a volte «si arriva, in nome di
un folklore identitarista travestito con il blasone di
"storia", a subordinare la sicurezza alla conservazione,
compromettendo la futura desiderabilità della città».
Rispetto a certe più o meno recenti
polemiche, il ricercatore osserva che «è avvilente vedere una cittadinanza che,
mentre insorge rumorosamente e in massa se qualche ragazzino fa una scritta sui
muri, o se durante il partecipato aperitivo di Natale qualcuno, travolto
da un eccesso orgiastico di libagioni, commette una liberatoria pisciata
tra i vicoli diroccati, resta in silenzio menefreghista quando le istituzioni,
in nome della tutela, sostengono di voler restaurare una scuola andando in
deroga rispetto al 100% di sicurezza sismica e spendendo una cifra fino a
quattro volte maggiore di quanto costerebbe demolire l'edificio e ricostruirlo
ex novo, mettendo la sicurezza in primo piano». In merito Ciccozzi
precisa che non sta «difendendo chi commette minuti atti d'inciviltà» ma si
rammarica della «incapacità della cittadinanza di comprendere scale di rilevanza
e livelli di priorità rispetto alle problematiche reali; e di mobilitarsi
in funzione di ciò», scegliendo invece di «appagarsi e perdersi nella
tentazione miope, fuorviante e misera della ricerca del piccolo capro
espiatorio».
Qui la
questione riguarda in concreto il restauro della scuola De Amicis, che è uno
degli argomenti centrali di un'analisi pubblicata recentemente da Ciccozzi (Com'era
dov'era. Tutela del patrimonio culturale, sicurezza sismica degli edifici,
Etnografia e ricerca qualitativa, Bologna, Il Mulino, 2015).
Le
5 caratteristiche variabili. Che fare, dunque? Secondo Ciccozzi «questo è un discorso più tecnico,
ma dovremmo, come dire, imparare ad essere tutti un po' "spontaneamene
galileiani"». Ossia si dovrebbero collocare le scelte sulla ricostruzione
su un piano di analisi del rischio che, in questo caso tenga conto in modo
combinatorio di una serie di caratteristiche (variabili) degli edifici. Ciò
al fine di pervenire a una sorta di «microzonazione della restaurabilità» che
ci indichi, nel modo più specifico e parcellizzato possibile, se è il caso di
restaurare o no.
Ciò
significa in fondo «approdare a una cultura diffusa della consapevolezza
razionale del rischio». Per questo si dovrebbe «combinare il valore storico,
architettonico e artistico dell'edificio da ricostruire, con il livello di
danno subito, con il costo di intervento per il restauro, e
soprattutto con la destinazione d'uso e il livello di sicurezza
promesso dal restauro. Il tutto per comprendere e decidere, di volta in volta,
se è il caso di restaurare o di demolire e ricostruire».
Questo esercizio dovrebbero farlo
«tanto i tecnici, in modo rigoroso, quanto i cittadini, in modo spontaneo».
Basta un minimo sforzo d'immaginazione per capire come queste variabili si
manifestano diversamente nel caso di una chiesa, di un edificio privato, o di
una scuola. Se non si studiano e valutano queste cinque variabili
c'è il rischio di perpetuare atteggiamenti che "confondano la storia
con il passato". Tutto, tra l'altro, a grande vantaggio economico
di parte, nei confronti di chi è imprenditorialmente impegnato nel restaurare,
al posto di demolire.
«Nel caso di
una città sismica come L'Aquila, operare una ricostruzione materiale realmente
orientata alla massimizzazione della sicurezza significa, in ultima analisi, ripristinare
la desiderabilità del luogo, fattore che dovrebbe essere inteso come conditio
sine qua non per la tanto declamata "ricostruzione sociale e
culturale"». Questo significa consentire alla gente di scegliere in
serenità un futuro all’Aquila.
L'Aquila
= terremoto? Dopo i
terremoti di agosto e ottobre, il turismo, leggermente in ripresa, è
nuovamente crollato, come addirittura molti studenti universitari fuori
sede per (legittima) paura hanno manifestato più o meno concretamente la
volontà di andare via. Questo soprattutto perché, per Ciccozzi, dopo agosto
sono mutate la percezione e la collocazione della città dell'Aquila nello
scenario nazionale: «Prima del 24 agosto L'Aquila era "la città
dove c'è stato il terremoto", dopo è diventata "la città dove
c’è il terremoto". Nell'immaginario nazionale la rappresentazione
sociale della città è cambiata. Ora per la maggior parte degli italiani vale
l'equazione "L'Aquila=terremoto", le scosse del 2016 hanno
riportato molti alla convinzione che siamo una specie di 'Aleppo sismica'».
Questa
percezione dell'Aquila come città pericolosa «è stata probabilmente acuita da una comunicazione
istituzionale del rischio che è passata dagli eccessi rassicurazionistici del
2009, del presunto sciame sismico che avrebbe scaricato energia, agli eccessi
allarmistici di dispacci che arrivano a una sorta di terrorismo deterministico
per cui "certamente ci sarà un terremoto di magnitudo 7"; ma
purtroppo sappiamo che, nel nostro caso, l'allarmismo è meno infondato del
rassicurazionismo».
L'Aquila
non è desiderabile.
L'antropologo osserva che «le città vive sono città attrattive, luoghi dove
si desidera andare a vivere, non luoghi da dove si desidera fuggire; e i
recenti terremoti hanno progressivamente privato L'Aquila di desiderabilità,
rendendola un luogo da dove si vuole fuggire; prima per il disagio oggi per il
pericolo; prima per la lunga stagione della ricostruzione, che si è rivelata
più simile a un inverno che a una primavera, e oggi – peggio – per la paura del
terremoto che, non è che "ormai ha fatto", ma ritorna».
In merito
Ciccozzi conclude che «se vuole essere tale, L'Aquila desiderabile, L'Aquila
bella, deve coniugare la sua storia urbana con un livello di sicurezza
adeguato alla sua storia sismica; è un compito difficile, e non significa certo
demolire tutto in preda al panico, ma nemmeno, all'opposto, illudersi che certi
livelli di sicurezza possano bastare sempre».
Stiamo
ricostruendo bene? Saremo in grado di capire che, senza un 100% reale e diffuso
di sicurezza sismica, la città non sarà mai più attrattiva, desiderabile,
almeno come lo è stata (e come la ricordiamo con nostagia) fino alle 3:31
del 6 aprile 2009?
Tra incoscienza e social-psicosi: la percezione del
rischio durante uno sciame
di Mattia Fonzi
Al tempo dei
social network e della condivisione compulsiva di ogni tipo di informazione,
assume un'importanza dai risvolti sociali rilevanti la ricerca (spesso
ossessiva) del dato, anche quando non comprensibile ai più, anche quando non
verificato. Ne sono esempi lampanti quelle sorta di social-psicosi
collettive ad ogni scossa di terremoto nell'aquilano, quando migliaia di
cittadini tirano ad indovinare su Facebook la magnitudo del terremoto
prima che gli enti preposti comunichino i dati.
Più seria,
invece, è la paura nei territori ad alto rischio sismico non epicentro
dei terremoti del 2009, e di quelli di agosto e ottobre scorsi. Per intenderci,
è di questi giorni lo sciame sismico che investe il territorio dell'Alta
valle dell'Aterno aquilano, come anche ricostruzioni più o meno
scientifiche (e più o meno storiche) vorrebbero la Valle Peligna come
prossima futura zona di sfortunati cataclismi.
Ma qual è il
rischio reale delle popolazioni che "vivono uno sciame sismico"?
Nessuno lo sa con certezza, purtroppo. Ma è cosa certa che la percezione del
rischio sia costruita culturalmente. Per questo abbiamo voluto interpellare
l'antropologo aquilano Antonello Ciccozzi, noto anche per essere stato
un consulente decisivo dell'accusa nel processo alla Commissione Grandi
Rischi, dove il capo d'imputazione – l'accusa di aver dato alla popolazione
una diagnosi di non pericolosità che, diminuendo la percezione del
rischio, ha concausato la mortalità dell'evento – ha comunque retto ai tre
gradi di giudizio, seppur ristretto a uno solo degli imputati, nonostante com'è
noto l'assoluzione della maggior parte degli accusati in Cassazione.
Ciccozzi ha
proseguito lo studio dei fattori culturali che condizionano la percezione del
rischio. In merito, l'anno scorso ha pubblicato Il senso del caso nella
«savana della complessità»: la percezione del rischio sismico in una
prospettiva antropologica, nel volume, edito da Rubettino, Prevedibile /
imprevedibile. Eventi estremi nel prossimo futuro: una raccolta
interdisciplinare di analisi con contributi autorevoli, come quelli della
sismologa storica Emanuela Guidoboni, del geofisico Francesco
Mulargia, del sismologo Gianluca Valensise e del disastrologo David
Alexander.
"Gli
oggetti del rischio vengono definiti a partire da categorie culturali – afferma
l'antropologo – è importante ribadire che rischio e pericolo non
sono affatto sinonimi: il rischio è legato alla percezione della
pericolosità, percezione che non è innata ma culturalmente condizionata.
Per fare un parallelo, possiamo dire una curva è pericolosa se ha determinate caratteristiche,
ed è rischioso percorrerla velocemente". Tutto questo porta ad un
corollario: "I rischi non percepiti sono più pericolosi di quelli
percepiti, ossia a una diminuita percezione del rischio si associa un
aumento della pericolosità, ad esempio, una curva a gomito non segnalata è più
pericolosa di una uguale ma segnalata". Affermazioni importanti, in tema
di catastrofi naturali.
Incoscienza
o paranoia? In questo
ambito, gli atteggiamenti culturali per Ciccozzi tendono alla semplificazione
binaria, ad oscillare tra eccesso di rimozione ed eccesso di percezione,
tra rassicurazionismo, ossia la tendenza psicologica alla rimozione del
rischio, come paradossale strategia di difesa – chi conosce il processo Grandi
Rischi sa di cosa parliamo – e allarmismo, la tendenza ad assolutizzare
il rischio stesso. Come si fa dunque a mediare il proprio atteggiamento su una
bilancia che si muove tra incoscienza e paranoia? Il concetto di allerta,
nella sua gamma di gradualità, medierebbe le posizioni estreme della percezione
dell'allarme perenne, e della sicurezza perenne.
Le polemiche
e le udienze in tribunale sulla Commissione Grandi Rischi hanno aiutato alla
percezione dell'allerta nel caso dei recenti terremoti sull'Appennino centrale?
"Sicuramente nel caso delle ultime scosse nessuno si è sognato di dire che
'sta scaricando energia' - dice Ciccozzi - l'Italia e la comunità
scientifica internazionale non hanno mai compreso il processo dell'Aquila, perché
ne è stato mistificato il senso per rifugiarsi nel facile cliché di Galileo,
del processo alla scienza, del processo per non aver previsto il terremoto: il
problema non è che le autorità preposte alla comunicazione del rischio non
abbiano allarmato la popolazione. Il problema è che hanno rassicurato
prevedendo e comunicando un non-terremoto".
Il problema,
dunque, è spesso la comunicazione del rischio. Ad esempio, come
abbiamo già scritto, la comunicazione della distanza di un luogo
dall'epicentro è fondamentale per la percezione reale, e questo non è
sempre successo, soprattutto nella retorica sulla "resistenza degli edifici
di Norcia" messa in campo dai molti media dopo il terremoto dello scorso
24 agosto.
Una retorica
che si è, purtroppo, letteralmente sgretolata a fine ottobre, quando si è
tragicamente capito che Norcia non aveva subito danni ad agosto non perché più
resistente degli altri comuni dell'area, ma semplicemente perché l'epicentro
del terremoto di agosto era a 50 km da Norcia stessa. Un po' come la
distanza tra Avezzano e L'Aquila la notte tra il 5 e il 6 aprile 2009, insomma.
In merito
Ciccozzi concorda che "si è ormai diffusa la credenza secondo la
quale la magnitudo sia un parametro oggettivo per classificare l'impatto di un
terremoto, così non si comprende che ciò che condiziona la disastrosità di
questi eventi è prevalentemente l'accelerazione al suolo, che è funzione non
solo della magnitudo ma anche e soprattutto della distanza dall'epicentro. Così
ci è toccato sentire che il terremoto del Cile nel 2010 sarebbe stato 30mila
volte più forte di quello dell'Aquila. Ma questo che significa? Che impatto hanno
subito le case più vicine all'epicentro in termini di accelerazione al suolo?
Se andassimo a vedere non credo che sarebbe molto maggiore di quello che vi fu
all'Aquila il 6 aprile 2009".
Che
fare? Che consigli
dare alle numerose famiglie che in queste settimane vivono un nuovo sciame
sismico? "Premettendo che la definizione sciame è scorretta per
definire un evento in corso, e che si dovrebbe usare il termine sequenza,
ma ormai tale abitudine di è affermata in italia dopo quella disgraziata
riunione, bisognerebbe prima di tutto evitare di acclimatarci dentro
l'angoscia assoluta o la rimozione assoluta del rischio – sostiene
l'antropologo aquilano – prendere consapevolezza che c'è un rischio alto e
sempre, e intraprendere condotte improntate alla su citata allerta".
Ciccozzi
richiama la formula della disastrosità che "è data da tre principali
fattori: agente d'impatto fisico (prodotto dal terremoto), vulnerabilità
(la capacità degli edifici di reggere quell'impatto), esposizione a tale
vulnerabilità, vale a dire in questo caso il fatto di trovarsi o meno dentro
edifici che possono crollare".
"Approdare
a una cultura dell'allerta significa acquisire una consapevolezza del rischio,
e adottare delle condotte informate ad essa". Ciò significa nel breve
termine ridurre il fattore esposizione – stare attenti a dove si va,
rispettare le accortezze che la prevenzione suggerisce (borse, torce, etc., ndr)
– e nel medio e lungo termine occuparsi del fattore vulnerabilità, ossia
mettere in campo azioni di sicurezza sismica sulla propria abitazione,
rafforzarla".
Tutte queste
azioni, tuttavia, implicano una forte consapevolezza culturale del
rischio: in pratica, uscire individualmente e collettivamente dalla pericolosa
cultura del fatalismo.
28 dicembre 2016