giovedì 22 novembre 2012

OCCHIO DI GIUDA : Carceri e dignità, dibattito al liceo classicoL'Aquila


OCCHIO DI GIUDA : Carceri e dignità, dibattito al liceo classicoL'Aquila
Studenti e avvocati penalisti hanno discusso sulle drammatiche condizioni in cui vivono i detenuti nelle prigioni italiane.

IlCapoluogo.it
giovedì 22 novembre 2012 21:34

di Marianna Gianforte

Dall'inizio del 2012 a oggi sono già 54 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri italiane, praticamente un bollettino di guerra. Non godono di buona salute le carceri italiane e lo sanno bene gli avvocati penalisti. In tutt'Italia è stata dedicata una giornata per sensibilizzare, con iniziative a livello locale, sulle drammatiche condizioni di vita in cui sono costretti i detenuti. Obbligati a muoversi in spazi ridottissimi, dentro celle di pochi metri quadrati, dove dormono su materassi di piuma vecchi e sporchi e dove il bagno, sempre un bagno turco, è ritagliato dentro la cella stessa e separato dalle brande da una semplice tenda. Carceri che sono quasi sempre prive di spazi ricreativi e di attrezzature sportive, che tutto sono fuorché luoghi per la rieducazione del detenuto, come stabiliscono la Costituzione e la legge italiana.

Al liceo "D.Cotugno" di Pettino si è tenuto un convegno dal titolo "Il carcere non può aspettare". A spiegare a 250 studenti del classico, del liceo linguistico, del pedagogico e dell'istituto di scienze motorie sono stati gli avvocati del consiglio direttivo della camera penale "Emidio Lopardi jr." dell'Aquila: Massimo Manieri, Fabiana Gubitoso (che è anche la responsabile dell'osservatorio carceri), Giulio Lazzaro e Gianluca Totani.

Il problema del sovraffollamento non riguarda il carcere aquilano, che è di massima sicurezza e ospita detenuti in regime di 41bis. «Nella struttura di Preturo i detenuti hanno una cella ciascuno, con il bagno personale», ha spiegato la Gubitoso, «ma non hanno alcuna privacy: sono controllati 24 ore al giorno da telecamere». Se nel carcere di Sulmona, diventando quasi totalmente casa lavoro, i suicidi sono diminuiti negli ultimi tempi, sono però aumentati a Teramo. In Abruzzo la situazione delle carceri non è di molto diversa da quella nel resto del Paese, perché i detenuti rinchiusi sono 3mila, in sovra-capienza di mille persone, in quanto il massimo di capienza consentita in Abruzzo è di 2mila detenuti.

Preoccupanti i dati dei suicidi registrati negli ultimi anni nelle case circondariali d'Italia. Nel 2010 su 186 deceduti, 65 sono stati suicidi. Nel 2011, su 184, i suicidi sono stati 66. Numeri che hanno indotto anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e papa Benedetto XVI a sollecitare il governo a mettere mano al sistema carcerario.

«Scopo del convegno è rompere il muro dell'omertà», ha spiegato Manieri, «sulle condizioni in cui vivono i detenuti. La pena detentiva è costrizione fisica, ma il carcere non deve trasformarsi anche in costrizione psichica. Occorre un rinnovamento della cultura e della società verso chi è rinchiuso in carcere, che è una persona che ha sbagliato e ha pagato la sua pena. Ma una volta espiata la pena, anche chi ha sbagliato ha diritto di essere reintegrato nella società. Occorrono provvedimenti drastici per cambiare questo stato di cose».

Uno dei motivi per cui le carceri sono sovraffollate è dovuto «all'eccessivo ricorso da parte dei magistrati alla custodia cautelare», hanno spiegato gli avvocati, «un dato statistico ci dice che su 100 persone rinviate a giudizio vengono definite colpevoli dopo i tre gradi di giudizio solo il 15%. Molti i processi che finiscono in prescrizione. Il 50% della popolazione carceraria non sta scontando una pena definitiva, è in carcere ma non ha ancora subìto il primo processo. Esiste la cosiddetta custodia cautelare, con la quale il magistrato ha la possibilità di prevenire, ad esempio, che la persona indagata inquini le prove, o che si dia alla fuga o che reiteri il reato. Ma come si fa a dire con certezza se tra 2 mesi quella persona compie ancora lo stesso reato? Questo concetto viene utilizzato per prevenire reati attuando una politica giudiziaria sbagliata. Il risultato è che abbiamo carceri capienti per 45.778 persone, ma che ne contengono oltre 68mila. Una situazione che rende difficile anche mantenere buone le condizioni igieniche».

«Ci sono carceri come quello di Catania dove c'è il 327% di sovraffollamento stimato», ha aggiunto la Gubitoso, «e con un'ora d'aria al giorno. Non si tratta di una difesa di chi sta in prigione, che di solito è condannato con sentenza passata in giudicato; la questione è che la prigione non deve essere un'afflizione, ma deve avere una funzione rieducativa».

Nel corso del convegno è stato proiettato un video in cui sono state illustrate le condizioni di promiscuità e degrado in cui i detenuti trascorrono il loro tempo: spesso 20 ore su 24 in cella. Poi spazio alle domande da parte degli studenti, che nei giorni scorsi si sono preparati con l'aiuto dei docenti di storia e di filosofia. Gli studenti, Alessio, Beatrice, Federico per dirne alcuni, hanno posto domande sui maltrattamenti in carcere, su come si possa rieducare una persona che ha tolto la vita a un'altra persona, sulla dignità dei detenuti calpestata, su cosa si possa fare per porre fine a tutto questo.
Fonte : Il capoluogo.it
Eremo Rocca S. Stefano giovedì 22 novembre 2012

OCCHIO DI GIUDA  : Intra moenia
La tarantola racconta 22 novembre 2012

Quando esci da lì, il mondo è quadrato e regolare.
Guardi verso destra, guardi verso sinistra e non riesci a vedere la fine del viale alberato, dritto e ordinato. Sei spuntato fuori da quel muro lungo quanto il viale, perfettamente grigio e squadrato, le cui linee sono interrotte solo dalla torre di vedetta blu. Ce n’è una anche là in fondo e una dalla parte opposta, che ti fanno intuire la fine del viale e il punto dove il muro continua dietro l’angolo. Che è un perfetto angolo di novanta gradi: lo sai perché non potrebbe essere diversamente, ma anche perché tre ore prima, arrivando in macchina, hai pensato che non ti era mai capitato di vedere tanti angoli retti tutti insieme.
Lungo quel viale non c’è nessuno (a parte le persone che sono uscite con te dalla piccola porta scorrevole: blu) e di Roma intuisci la presenza, un po’ più in là, col caos, il traffico e tutto il resto. La fila di alberi è regolare, i gialli e i marroni dell’autunno, poi, ti aspettano discreti, senza fare domande. Non sono mica sfacciati come i colori dell’estate, che ti corrono incontro gridandoti “ehi, eccoti finalmente! beh, di cosa abbiamo voglia, oggi?”.
Quando esci da lì pensi che è giusto così, e che se l’avessi deciso tu l’avresti fatto esattamente in quel modo: quadrato, regolare, ordinato.
Perché in quel momento hai bisogno di due cose.
Una, un po’ di silenzio per ascoltare le voci che ti accompagnano da là dentro.
Due, angoli retti e linee dritte per metterle in cornice, quelle voci, quelle facce e le ore che hai passato di là dal muro.
≡≍≡

Il punto è il modo che ha Bianca di chiederti le cose. Anche se non la guardi in faccia, anche per iscritto: prima di ora Bianca l’ho incontrata una sola volta nel mondo reale, ma mi è bastata per immaginarmi, ogni volta che leggo le sue email e i suoi post su Facebook, la sua voce entusiasta che più si accalora e più accentua quelle venature di Abruzzo e basso Lazio, e i suoi occhi ipnotici.
Il punto è il modo che ha Bianca di chiederti le cose. Di solito, quando qualcuno ti propone di fare qualcosa che non hai mai fatto prima, ti domandi innanzitutto se sai come si fa. Quando te lo chiede Bianca, dici di sì e poi pensi “adesso però devo capire come si fa”.
Bianca aveva scritto due mesi prima: “ti va di parlare a Rebibbia?”
“Il capolinea della metro? Una volta ho suonato la chitarra alla stazione di Piazza di Spagna.”
“No, no: il carcere. Una lezione a Rebibbia.”
Io avevo risposto: “Fai conto che sono già lì.”
Lei aveva riscritto: “Benissimo, ti contatterà Monica.”
Io avevo cominciato a pensare: “Da che parte si comincia per fare una lezione a Rebibbia?”
≡≍≡

Bianca

Io e Bianca siamo arrivati in zona con largo anticipo, per metterci in un angolo di un bar a preparare il nostro materiale.
A un certo punto, nei giorni scorsi, Monica ci ha fatto sapere che la lezione l’avremmo fatta insieme. Con un grande sospiro di sollievo da parte mia: se devi fare una cosa che non hai mai fatto prima, in un posto dove non sei mai stato prima, la cosa migliore che possa capitarti è di portare Bianca con te. Ve lo dico anche come consiglio.
L’unico bar vicino all’unico parcheggio libero non ha sedie né tavolini. In equilibrio sul trespolo il massimo che puoi tentare è mordere un cornetto senza sbilanciarti: di smanettare col powerpoint non c’è speranza. Così dopo il cornetto ci chiudiamo in macchina, però dai ché il tempo corre. Guardiamo l’orologio perché fra meno di un’ora abbiamo appuntamento con Monica, un botanico e un’archeologa in qualche altro bar qua intorno. Magari stavolta con i tavoli.
Mentre scarico dalla sua chiavetta le fotografie da copiaincollare nella presentazione, Bianca le indica sul monitor del mio computer e me le spiega una ad una. A un certo punto mi fa: “ma come è cominciato tutto questo?”.
“Mi hai scritto tu due mesi fa”, le ricordo.
“Ah. Io pensavo fosse stata una tua idea.”
“Mia? No. Era tua.”
Bianca scrolla il capo.
“Anzi”, aggiungo, “me l’hai detto in quel periodo che stavi leggendo il mio librino. Pensavo che l’avessi passato tu a Monica e che lei ti avesse fatto la proposta.”
Bianca ci pensa ancora. Poi si scuote come per dire “vabbè, non è importante” e torna a spiegarmi le foto.
≡≍≡

Quando esci di lì, hai bisogno di un po’ di silenzio. Perché lì dentro è una specie di amplificatore.
Per esempio, il lungo corridoio coi tuoi passi che risuonano (insieme a quelli di Bianca, di Monica, dell’archeologa, del botanico, dell’educatrice e dell’agente che accompagna tutti verso l’aula) è probabile che te lo ricorderai per un pezzo. Perché forse quel colore pallido e quelle forme neutre sono stati pensati per sollecitare il grado più basso possibile di stimoli emotivi. E invece hanno l’effetto di azzerare qualunque variabile esterna e qualunque rumore di fondo, e quello che senti, cento volte più forte del normale, senza interferenze, sei tu. Tu, la tua voce e quella di chi ti accompagna. E i saluti di persone che ti si fanno incontro, che ti sorridono e ti danno la mano: sei appena entrato in casa loro.
Lì dentro è un amplificatore.
Mentre sei lì con loro e parli di bellezza, e di città, e di quanto i luoghi c’entrino con quello che sei e col modo in cui ti vedi e ti racconti, e di come se quel luogo muore anche tu non te la passi tanto bene, ascolti il silenzio impressionante dell’aula, vedi gli occhi puntati e realizzi che sul rapporto con un luogo che non esiste più, o sul non vederlo per molto tempo, o addirittura mai più, loro potrebbero scriverci un saggio interminabile. E quando spieghi che secondo te le fratture nei muri sono anche fratture dell’anima, e racconti che c’è della gente a cui da quei muri fratturati (e dunque anche un po’ dalla propria anima) è stato ordinato di allontanarsi, uno alza la mano e ti domanda incredulo: “ma come gli è venuto in mente? Ma lei ce l’ha una spiegazione?”. Ti sta dicendo che lui su quelle fratture ce ne ha da raccontare, e che se quelli che si sono guadagnati il privilegio di stare fuori dalle mura avessero un grammo di giudizio, di quel legame fra la gente e i luoghi si prenderebbero cura, altro che amputarlo d’autorità.
È un amplificatore, lì dentro: perché le cose che porti da fuori entrano in una risonanza tale con le storie di lì, che ti ritornano indietro con un impatto che ti toglie il fiato.
“Fratture”, si chiama l’incontro organizzato per questo lunedì pomeriggio. Bianca ha preparato una bella introduzione su città e di bellezza, io ho un po’ di appunti su luoghi e autobiografia. L’idea era di parlare di come dalle fratture della vita possa scaturire novità e creatività. La vicenda dell’Aquila (che poi, tu guarda alle volte, è l’evento che ha causato anche l’incontro fra me e Bianca) doveva essere lo spunto e la cornice: seguendo le domande delle persone che abbiamo incontrato lì dentro, invece, diventa la protagonista. Un po’ perché quella notte la sveglia imprevista delle 3 e 32 è suonata anche a Roma, anche per loro. E un po’ per la vorace curiosità verso quello che succede nel mondo di fuori.
Ma soprattutto, da tempo avevo un pensiero e qui vi trovo conferma: fra chi abita lì dentro c’è un senso della giustizia tutto speciale. Gli racconti di una sopraffazione, di una angheria, e loro non se ne fanno una ragione. Ti fanno domande, ti incalzano, vogliono capire come sia possibile una follia del genere.
≡≍≡

Avevamo deciso di portare dei libri per la biblioteca del carcere, in ricordo del nostro passaggio. Qualcosa che avesse un legame con la nostra lezione.
Bianca ha avuto due idee strepitose. Ha con sé una copia delle “Lettere dal carcere” di Gramsci, che fa sempre bene, ma soprattutto ha un grande libro fotografico con le immagini della città distrutta e degli stessi luoghi un po’ prima del terremoto. Lo sfogliavo in auto mentre arrivavamo a Roma: “Dio, Bianca, guarda…”, le ho detto, “i portici con lo struscio…”. Lei guidava ed è rimasta con gli occhi puntati in avanti. Ma mica per non distogliere lo sguardo dalla strada. No, non è quello. “Per carità, non farmela vedere!”, mi ha intimato.
Aveva ragione. Quell’immagine faceva proprio male al cuore.
Quando scendiamo dalla macchina tiro fuori da una tasca della valigia un libro pieno di foto sulla Basilica di San Bernardino. È il regalo che ho portato io. Lo sfoglio, me lo guardo. Uhm…
Bianca sta per chiudere il bagagliaio, “aspetta!”, le dico.
Riapro la valigia, frugo fra due maglioni. Tiro fuori un libro che ultimamente porto con me nei miei viaggi.
Un romanzo bizzarro e fantastico, con dei personaggi grotteschi, quasi dei fumetti, che hanno nomi incredibili come Don Sisma, Principino Poppy, Anxiety, Caverna Hammer e tanti altri che non mi ricordo. È ambientato in una città (per tutti “la Città”) dopo un terremoto spaventoso (per tutti “la Grande Scossa”). Un libro pazzesco e divertente: l’ha scritto un autore aquilano, Enrico Macioci. Anche il titolo è strano: “La dissoluzione familiare”. È una storia che è una lente deformante di un evento (un terremoto) che a sua volta è una lente deformante della realtà.
Lancio San Bernardino dentro la valigia, chiudo il bagagliaio e dico a Bianca: “Andiamo.”
Devo ricordarmi di ordinarne un’altra copia appena torno a casa.
Fonte  :http://massimogiuliani.wordpress.com/2012/11/22/intra-moenia/
Eremo Rocca S.Stefano giovedì 22 novembre 2012

lunedì 3 settembre 2012

ANIMALI VERI ANIMALI IMMAGINARI : L’ippocentauro


ANIMALI VERI  ANIMALI IMMAGINARI    :  L’ippocentauro


L’ippocentauro (cavallo con busto e testa di uomo) è un animaleimpossibile, dice Lucrezio (De rerum natura , V, 878), perché a vent’anni
la parte umana sarebbe nel pieno della giovinezza, mentre la parte
cavallina sarebbe già vecchia e morirebbe. Una faccia e un busto giovane,
con una pancia e le gambe già macilente e decrepite. Ma non è un buon
argomento, perché l’ippocentauro è così consolidato come animale
fantastico che probabilmente ha una sua fisiologia intermedia tra l’uomo e
il cavallo, e non c’è problema di rigetto di una parte per l’altra. Si tenga
presente che essendo l’uomo innestato poco sotto l’ombelico, al posto
dove ha il collo il cavallo, tutti gli organi interni sono ripetuti due volte,
cosa peraltro che si dà anche nei gemelli siamesi.

Nel caso dell’ippocentauro però il cervello è dell’uomo e l’apparato riproduttivo delcavallo. Essendo umano di mentalità non disdegna le femmine umane,
infatti si danno casi frequenti di rapimenti, mentre non è mai giunta notizia
che un ippocentauro andasse in un allevamento e montasse una giumenta
in calore. E tuttavia tecnicamente questo caso sarebbe più facile. Si noti
che non ci sono ippocentauri femmina, ma solo maschi. Dunque come si
generano? È verosimile discendano dall’accoppiamento di uomo e cavallo:
così come il mulo ad esempio viene dalla cavalla e dall’asino, è sempre
femmina ed è sterile. Da ciò se ne deduce che essendo sempre maschio
l’ippocentauro, sia figlio di una donna umana congiuntasi con un cavallo.

E questo per la verità non è cosa infrequente, anche al giorno d’oggi faparte dei sogni venerei femminili, di trastullarsi con un cavallo, allevarlo,
accarezzarlo; mentre gli uomini è difficile si erotizzino con una cavalla, la
quale infatti non figura nel repertorio della pornofilia corrente.
Dunque una donna ama un cavallo e si congiunge con lui. Dopo nove
mesi nasce l’ippocentauro, il parto è difficile, la donna non sa come
giustificarsi; il padre non è noto, scrivono in ospedale. Gli danno il
cognome della madre. Dopo un solo giorno dal parto il piccolo
ippocentauro galoppa già per i corridoi dell’ospedale, perché così fanno
anche i puledri, sanno già camminare d’istinto dopo poche ore per seguire
il branco nella steppa sconfinata. All’ospedale non sono abituati, però un
ippocentauro bambino fa tenerezza e tenerlo in culla non è possibile,
perché scalcia e balza fuori nitrendo. La madre lo allatta e non parla,
conscia della sua colpa e della sua debolezza, e non sa neppure accusare un
cavallo preciso. E d’altronde poi nessun cavallo mostrerebbe il sentimento
paterno della responsabilità. Le mandano allora (alla madre) uno

psicologo, ma lei piange e ripete: «Come ho potuto?» Le mandano unprete, che chiede se lo vuol battezzare. La madre dice: «È un essere
mitologico, è meglio che cresca pagano». Intanto l’ippocentauro galoppa
in mezzo alle infermiere che son divertite, va su e giù per le scale, passa
con gran rumore di zoccoli nella corsia dei lungodegenti, che però così
stanno allegri, per quanto possono. La direzione vuole dimettere la madre
e l’ippocentauro, soprattutto l’ippocentauro, perché non sono attrezzati alla
mitologia e allo scalpitare di zoccoli. E così segue la triste storia
dell’ippocentauro nel mondo moderno, per il quale non c’è un posto
naturale nella classificazione zoologica, come nell’antichità, né un posto
geografico; la Tessaglia, dove un tempo si dice vivesse, è oggi una regione
amministrativa della Grecia, la quale fa parte dell’Unione Europea, tutta
coltivata e con piccole industrie, turismo, tecnologia; perfino gli asini sono
quasi scomparsi, e gli ultimi muli li ha dismessi l’esercito. Ci sono gli
animali selvatici, ma sono numerati anche loro, censiti; un ippocentauro

non può essere abbandonato nel parco del Gran Paradiso ad esempio,tenuto anche conto che è un animale meridionale; e poi parla, ragiona,
nella tradizione gli ippocentauri fanno i pedagoghi; Chirone è stato
maestro di Esculapio, e gli ha insegnato musica, medicina, chirurgia; e poi
maestro d’Achille. Nel mondo d’oggi un ippocentauro farebbe il
pedagogista; però sarebbe una pena, tenerlo seduto a una cattedra, e inoltre
sono anche stati un simbolo d’ira, con tendenza a bere e alle risse. Invitati
a un pranzo di nozze dai Lapiti, si legge in Omero (Odissea, XXI, 295
ecc.), hanno bevuto troppo e hanno incominciato ad offendere, infastidire
le donne, menare le mani. Così un ippocentauro messo seduto a fare il
pedagogista scalpiterebbe con il suo di dietro; un pedagogista deve essere
comprensivo, metodico, interculturale; un ippocentauro si presenterebbe
ubriaco, calci a destra e a sinistra, come metodo suo pedagogico, e poi
urla, nitriti, cacche in giro, mosche, tafani, liti coi direttori didattici,
tradizionalmente gli ippocentauri hanno arco e frecce; ebbene: i direttori

didattici inseguiti a colpi di frecce, e così un eventuale ispettoreministeriale. Nel mondo moderno non c’è posto per loro; già non c’era
posto nella Roma antica, cioè erano già una rarità, Plinio dice di averne
visto uno conservato nel miele, mandato a Roma dall’Egitto come cosa
introvabile e meravigliosa. Poi se ne sono visti nell’inferno di Dante (canto
XII, 56 ecc.) come esempio dell’iracondia. Poi? Poi sono spariti. Le donne
non si accoppiano più con i cavalli, e se succede, interrompono la
gravidanza, su consiglio anche del servizio sanitario sociale.
L’ippocentauro sembra avesse una voce un po’ umana e un po’
cavallina, tutta esplosiva e nitrente; ce l’hanno uguale certi presidi
antiquati di scuola media, che gridano in latino mentre la classe è in
tumulto, prendono uno per l’orecchio e gli gridano dentro l’orecchio:
spero, promitto, iuro... reggono l’infinito futuro.

Ermanno Cavazzoni ha deciso di dedicare un curioso libretto, da poco pubblicato da Guanda.
Si intitola Guida agli animali fantastici


Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 3 settembre 2012

mercoledì 29 agosto 2012

il capoluogo | Con il grande mondo dentro

il capoluogo | Con il grande mondo dentro

STORIE E VOCI DAL SILENZIO : Poesia e solidarietà. La città dolente

STORIE E VOCI DAL SILENZIO   : Poesia e solidarietà. La città dolente


Per una sera. Solo per una sera il frusciare delle lunghe vesti , il respiro dei veli,  i passi ovattati della clausura hanno fatto posto  ad una intrusione.In punta di piedi , nelle antiche sale  del Convento di S. Basilio  che ospita l’esperienza di clausura delle ultime monache celestine  , i presenti all’evento  “ Una cordata per l’Africa “  hanno   assaporato non solo  il cibo della cena  ma nell’orto hanno ascoltato la lettura di poesie .

 Voci di grandi poeti scelte da Vincenzo Battista che hanno proposto ai presenti i temi de 'La città dolente, le attese, spirito di riconquista',  un trittico curato da Vincenzo Battista  che con  Angelo De Nicola ha organizzato  l’iniziativa  di sensibilizzazione e solidarietà nei confronti più antico monastero aquilano e della sua missione in Africa intitolata a Celestino V nell'ambito del progetto "Cordata per l'Africa".
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Nell’orto del monastero,  prezioso non solo per la sussistenza delle monache, in una condizione di precarietà ma anche di essenzialità ,ma soprattutto  luogo della  comunione con il creato e il senso della vita che germoglia, vive e  muore in una sintesi  naturale dell’essere e dell’esserci , in un crescendo di emozioni e di sensazioni , l'attore Marco Valeri e il chitarrista Francesco Sabatini hanno raccontato la situazione della città (dolente), in un momento di attesa, ma con un uno spirito di riconquista. Tra le toccanti note di Bach, sono stati magistralmente interpretati brani e poesie di Buccio di Ranallo, Marcone, Montale, Palazzeschi, La Pira e Pavese.

Nell’aria  della sera appena rinfrescata di questa fine estate,   tra le mura dell’orto  segnato da impalcature e macerie , con il profumo di rosmarino e basilico  il pubblico presente ha potuto ascoltare appunto poesie e brani  d’amore, di  passione, di incitamento alla città , alla sua vita dolente dopo il sisma , alla sua voglia di riconquista  attraverso attese   che alimentano la quotidianità.
Proprio per la città e per questa voglia di riconquista ho scritto una poesia  che è stata letta in quel contesto  che parla della voglia di riconquista attraverso il cielo stellato e l’infinito  dentro e fuori di noi di cui è metafora il Laboratorio del Gran Sasso. .


Un omaggio all’Infinito di Giacomo Leopardi  nei cui versi si sente  il respiro dell’universo nelle viscere di una montagna.  Giacomo Leopardi un uomo   che ha saputo ascoltare e parlare. Appunto  come questo  uomo di ogni tempo   vagabondo, viandante e pellegrino che si ferma a guardare, ad ascoltare, a toccare   “un  altro mondo “  in “questo   mondo”  che quotidianamente  ha a sua disposizione. In lui , uomo , e nella sua “ ricerca “  continua, incessante,  faticosa, solitaria, estraniante, dunque si incontra  non solo  il mondo visibile ma anche quello invisibile ma soprattutto l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo  che non vengono messi a confronto  ma  che si completano  a vicenda per permettere a lui, uomo, di potersi chiamare sempre di più  “uomo”.
Veder le stelle in una pietra
sentir cantare il silenzio nel buio
toccare l’infinito in una siepe
domandarsi sulla terra il destino di una foglia
impastando cielo e terra
nel pianto d’un bambino
nello sguardo d’un vecchio.

Tu non dormi stanotte
e il pensiero di te
è un sogno vagabondo
viandante e pellegrino
che porti nel cuore .Dentro il cuore
coltivi l’infinito , storia d’ingorghi
d’amore frastornati dal mormorio
delle stelle.  Con le  stelle
vado incontro al mattino e nel silenzio
mi fingo uomo.

Veder le stelle tornare e tornare  ancora
nell’ora del desiderio  è come un morso
d’eternità,un fiore di terra
una gemma di mare,un pensiero
d’argilla. Veder cielo e terra
come un solo corpo d’amore,
come un canto ,un brivido
una vela fluttuante, un crepuscolo
che continua a cadere all’infinito ,
un profumo di tiglio a mezzanotte
su un’erba lattea di  prato.

Sul prato delle stelle  nascenti
seguire  l’ultimo volo d’un uccello
rotta d’ alfabeti  e ragnatela di vite
è per te come andare per mare ,
il mare dove è ancora dolce  naufragar .


Grande partecipazione anche alla cena di solidarietà, preparata con portate sorprendenti dalla scuola aquilana di cucina "Scherza col cuoco", che ha amplificato la raccolta di fondi. Alla fine è stata messa insieme una significativa cifra, che va ad aggiungersi ai fondi delle precedenti iniziative i cui ricavati sono stati devoluti a favore della costruzione di un pozzo per l'acqua nel convento delle Celestine nella città di Bangui, nella Repubblica Centrafricana, dove intere comunità di migranti dai conflitti etnici e dalle malattie lasciano i villaggi per cercare rifugio presso le istituzioni dei paesi europei e in quelle religiose come appunto il monastero di San Pietro Celestino, con il suo centro di accoglienza, per curare soprattutto i bambini.

L'iniziativa è stata realizzata grazie alla collaborazione del Lions Club L'Aquila Host, il cui presidente, Pierfranco Tantillo, ha consegnato un assegno alla badessa del convento nell'ambito di uno specifico service per la 718esima edizione della Perdonanza celestiniana: un gesto concreto in un momento difficile per il convento e per la sua missione.

La fotocronaca della serata evento "La città dolente, le attese, spirito di riconquista" è stata realizzata dalla fotografa romana Marina Mogarelli inviata all'Aquila per documentare la serata. Si trova su www.il capoluogo.it    mentre le foto di questo post le ho scattate  durante l’avvenimento.

Dunque nel refettorio delle suore  preso in prestito per la cena , accanto ad un altro refettorio dove le suore hanno dovuto approntare una cappella , tra gli oggetti cari e quotidiani per ciascuna di loro,  di fronte ad un crocefisso ligneo che ricorda quello  caro a frate  Pietro  che nell’ eremo di Sant’Onofrio sul Morrone gli parlava come racconta la leggenda , i convitati hanno potuto  vivere alcune ore,   segnate da quell’enorme  orologio a pendolo sistemato nell’ingresso dell’edificio,  in  comunione e allegria, nello spirito proprio del frate del Morrone   essenzialità e precarietà
Eremo Via vado di sole, L’Aquila, mercol.edì 29 agosto 2012  

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il capoluogo | Cordata per l'Africa: solidarietà al monastero di San Basilio

il capoluogo | Cordata per l'Africa: solidarietà al monastero di San Basilio

il capoluogo | Con il grande mondo dentro

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domenica 26 agosto 2012


ASINOMONDO   : L’ASINO DI BURIDANO  O DELLA LIBERTA’


Buridano si occupò dell'analisi della volontà umana, che ritenne seguire le valutazioni dell'intelletto. In particolare la volontà che dovesse decidere quale scegliere tra due beni considerati equivalenti dall'intelletto si troverebbe in imbarazzo.Un esempio della sua tesi, che tuttavia non è dovuto a Buridano e ne banalizza pesantemente il pensiero, è il famoso paradosso dell'asino che posto tra due cumuli di fieno perfettamente uguali e alla stessa distanza non sa scegliere quale iniziare a mangiare morendo di fame nell'incertezza.
L'asino di Buridano.

Chi ricorda questa teoria medioevale? Forse pochi, nelle sue implicazioni. Eppure per un discorso sulla libertà inizierei proprio da qui.
La libertà, includendo anche il libero arbitrio, ha molteplici significati. Chi è libero? Un individuo? Un'insieme? La libertà di Dio?
Le due grandi suddivisioni sono tra indeterministi e deterministi. Ai primi appunto si fa riferimento con l'asino di Buridano,per dimostrare che non ci sono motivi che spingono a comportarsi in un modo o nell'altro. Si tratta sempre di volontà.
Muore di fame non sapendo scegliere tra due ceste di fieno uguali. E' questa la libertà dell'indifferenza,quando i motivi delle scelte alternative si annullano e la volontà può decidere liberamente: la decisione umana è libera.
Le critiche a tale conclusione sono: Se l'uomo sceglie da razionale e libero, perchè sceglie tra due alternative identiche? Se libertà è indifferenza, sarebbe pura casualità. A parte considero la libertà della psicologia della personalità, dove contano i condizionamenti dell' ambiente e le pulsioni.
Per i deterministi tutto è causale e non c'è libertà. Ci sentiamo liberi semplicemente perchè non siamo consapevoli di tutti i fattori che ci determinano.
Ma,si controbatte, la tesi del determinismo universale è ben lungi dal poter essere dimostrata. Nessuno in fisica,in cui le variabili sembrano sotto controllo,si può vantare una validità assoluta: figuriamoci nell'etica e nella psicologia.


Oggi il libero arbitrio indagato dalla filosofia deve tenere conto dell'apporto delle neuroscienze,come per importanti questioni filosofiche, e anche per certeemozioni che un tempo erano di solo dominio della psicologia (es. l'empatia) . Ho trovato utile la lettura del “Gene agile, la nuova alleanza fra eredità e ambiente”, di Matt Ridley, Biblioteca scientifica Adelphi. Il libero arbitrio, sempre definendo a cosa ci si riferisce, perchè ad esempio in tale campo scientifico non sarebbe opportuno citare Dio, sarebbe compatibile con i geni, in un processo di causa/effetto non, ma circolare. Nel cervello non ci sarebbe uno “Io” ma una configurazione di atti cerebrali in continuo cambiamento. Vi entrano in gioco storia, emozioni, istinto, esperienze e influenze esercitate dagli altri,dal caso,ecc.
In ogni caso nelle concatenazioni di eventi della nostra vita il potere decisionale autonomo dell'Io non ha fondamento né è possibile stabilire per certi episodi una gerarchia di cause-effetti, secondo importanza determinante.
Secondo tutti i grandi filosofi il libero arbitrio non esiste, come per Da Vinci, Hobbes, Spinoza, Hume, Leibniz, Kant, Voltaire, Schopenhauer. Bergson,ecc. Ecc. il libero arbitrio dei cattolici è il poter intervenire nel disegno di Dio.
Siamo tutti dotati di Libero arbitrio, ma in che senso? Si tratta solo di un sentimento della sua esistenza che non ne dimostra quella effettiva. Emotivamente siamo certi di essere liberi nel decidere, ma è impossibile,ad esempio per quanto riguarda il controllare impulsi,necessità,emozioni, desideri, gusti,scelte,determinate dai nostri interessi,ecc. Il libero arbitrio è un sentimento la cui realtà è negata dalla scienza e dalla filosofia, che potrebbero sollevarci da ansie e autocolpevolizzazioni. Ciò che decidiamo di fare o pensiamo è conseguenza di non controllabili necessità neurofisiologiche, di condizionamenti della propria storia biografica, di emozioni, desideri e pulsioni mosse da una causalità inconscia. Non ci resta che dire di sì al nostro destino, come affermò Jung. Ma se si preferisce possiamo anche far finta che tutto dipenda da noi, pur sapendo che non è vero. In un determinato periodo della vita nessuno avrebbe potuto fare scelte diverse da quelle che ha fatto. La frase controfattuale “se invece avessi fatto così ... allora ....” con cui sovente ci si rammarica di non aver imboccato strade alternative è un ipotesi irreale. Può giovare conoscere se stessi e valutare le situazioni che si presentano e che il caso mette sulla nostra via.
Ma “gli uomini si credono liberi soltanto perchè sono consapevoli delle loro azioni e inconsapevoli della cause che le determinano.” E' Spinoza. Chi ha il coraggio di contraddirlo?

Ma è Leibniz che afferma ancora :49. Da ciò segue altresí che il caso dell'asino di Buridano, fra due prati, ugualmente portato all'uno e all'altro, è una finzione che non potrebbe verificarsi nell'Universo, nell'ordine della natura, benché il Bayle abbia altra opinione. È vero che, se il caso fosse possibile, bisognerebbe dire che si lascerebbe morir di fame; ma, in fondo, la questione verte sull'impossibile, a meno che Dio non produca la cosa espressamente. Infatti l'Universo non potrebbe esser diviso in due parti da un piano condotto per il mezzo dell'asino, tagliato verticalmente nel senso della sua lunghezza, in maniera che tutto sia uguale e simile da una parte e dall'altra, come un'ellissi o come ogni figura piana, della categoria di quelle che io chiamo “anfidestre” [a due lati], per esser cosí divisa in due parti uguali da una linea retta qualsiasi passante per il suo centro: infatti né le parti dell'Universo, né le viscere dell'animale sono simili, né ugualmente situate dai due lati di questo piano verticale. Si avranno dunque molte cose dell'asino e fuori dell'asino, sebbene non ci appaiano, che lo determineremmo ad andare da una parte piuttosto che dall'altra; e quantunque l'uomo sia libero, mentre l'asino non lo è, non è meno vero, per la stessa ragione, che anche nell'uomo il caso d'un perfetto equilibrio tra due partiti è impossibile, e che un angelo, o almeno Dio, potrebbe sempre render ragione del partito che l'uomo ha preso, assegnando una causa o una ragione inclinante che l'ha indotto realmente a prenderlo, benché questa ragione sia spesso molto complessa ed inconcepibile a noi stessi, perché il concatenamento delle cause legate tra loro va lontano.
(G. W. Leibniz, Monadologia e Saggi di Teodicea, Carabba, Lanciano, 1930, pagg. 121-124)


Eremo Via vado di sole. L'Aquila, domenica 26 agosto 2012

mercoledì 22 agosto 2012

Brasile. Ogni detenuto potrà leggere un libro al mese, farne una recensione e così ottenere quattro giorni di sconto della pena.

Il più struggente e anche il più istruttivo elogio del libro arriva dalle carceri brasiliane. È un elogio che
ci riguarda: perfeziona l'equivalenza universale tra i libri e la libertà. Perché tra i dannati di laggiù si è appena accesa la luce di «una alternativa alla pena» che i legislatori brasiliani hanno intitolato alla «redenzione dei reclusi». È un esperimento varato in quattro carceri, grazie a una legge appena approvata. Dice che ogni detenuto potrà leggere un libro al mese - di letteratura, filosofia o scienza - farne una relazione scritta «con proprietà di linguaggio e accuratezza, dimostrando di averne compreso il valore e il senso» e ottenere in cambio «quattro giorni di sconto pena». Non più di un libro al mese, per ora. Dodici libri all'anno, l'equivalente di 48 giorni di libertà in più.

L'idea è così azzeccata, così pertinente, che poteva venire in mente solo a chi ha conosciuto la geometrica afflizione del carcere, il rumore delle serrature, i fantasmi della solitudine. E infatti è stata Dilma Rousseff a idearla. Che molto prima di diventare l'attuale presidente del Brasile è stata incarcerata per tre anni, dal 1970 al 1972. Era la cupa stagione dei generali. Dilma, studentessa di famiglia borghese era entrata nella guerriglia, era stata arrestata a San Paolo con un'arma addosso, aveva subito ventidue giorni di tortura. Da allora non ha mai dimenticato quanti abissi contengano quelle mura. Quanto buio. E quali piccole vie d'uscita possano trasformare i reclusi in «persone migliori».

Il libro è una di quelle vie d'uscita. Perché apre mondi immaginari. Racconta vite vere. Insegna che il destino è multiplo, la malasorte ondivaga, l'odio può essere guarito, la poesia può svelare significati inattesi alla semplice nostalgia di un tramonto, l'amore può cambiarci in una sola sera, e anche la libertà è sempre possibile, ma mai chiudendo gli occhi. «Chiunque di loro avrà una visione più larga del mondo» hanno detto al ministero della Giustizia brasiliano, varando questa legge che punta tanto sui libri, quanto sui detenuti.

http://www.controlacrisi.org/notizia/Altro/2012/8/15/25450-brasile-ogni-detenuto-potra-leggere-un-libro-al-mese-farne/
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venerdì 10 agosto 2012


SILLABARI :  Diritti  (I )


Charles Beitz è un filosofo politico americano professore a Princeton. Noto per  essere stato tra i primi a occuparsi di giustizia globale, Beitz ha pubblicato di recente per Oxford University Press un libro, The Idea of Human Rights, in cui esamina la dottrina dei diritti umani nella prospettiva della politica globale. Scrive nella recensione  sul libro Sebastiano Maffettone su Il Sole 24 Ore del  28 febbraio 2010 “L’ analisi è di natura fìlosofica, e il suo scopo principale sta nel mostrare in che cosa consistono la forza e il valore del linguaggio dei diritti umani. La tesi centrale è che dipendano da una pratica di successo moralmente difendibile. In questo modo, Beitz rovescia un'intera tradizione filosofica in materia. Non si tratta di argomentare a favore di una teoria della giustizia da cui far dipendere una lista ideale di diritti umani in base alla quale poi criticare l'esistente. Si tratta invece di valutare le teorie normative dei diritti umani confrontandole con la pratica attuale.
Questo metodo innovativo è capace di numerose sorprese. In base a tale scelta, infatti, Beitz riesce a criticare con successo quelle che sono oggi le due visioni filosofiche più popolari in materia di diritti umani. Mi riferisco alla teoria del diritto naturale, da San Tommaso al naturalismo contemporaneo, e a quella consensualistica, cui si possono associare nomi illustri della fìlosofia sociale e politica contemporanea come quelli di Habermas e Rawls.Con rigore argomentativo straordinario, Beitz dimostra come la "pratica" dei diritti umani non sia giustificata a sufficienza da queste teorie. C'è quindi bisogno di un punto di partenza innovativo ("a fresh start"), che egli trova in un modello a due livelli. Questo modello deve giustificare una pratica sociale sulla base della rilevanza degli stati nazionali e del valore della tutela dei diritti umani nella politica globale. Ciò vuol dire che i diritti umani richiedono tutela istituzionale da parte di soggetti del tipo degli stati e che proteggono gli interessi delle persone che sono ritenuti essenziali dal punto di vista della . comunità internazionale. Questa stessa visione teorica è applicata poi a casi complessi come quelli della povertà, della democrazia e della tutela delle donne.
Nel proporre questa teoria, Beitz fa un uso spregiudicato dell'ultimo Rawls e ne difende le tesi anti-cosmopolitiche in maniera brillante. Soprattutto, mostra come la filosofia analitica possa essere applicata a problemi concreti in maniera del tutto persuasiva. Si tratta di un libro impegnativo e originale che sicuramente farà discutere molto quanti si occupano di teoria delle relazioni internazionali.
Charles Beitz. “  The Idea of Human Rights”, Oxford University Press, pagg. 236, $ 20,50.


SILLABARI : Diritti ( II)


Carlo Carbone sul Sole 24 Ore del 14 febbraio 2010 aveva scritto  la recensione ad un volume di Michele Ainis  intitolato la cura. In questo volume si affronta l’esame dei diritti in Italia in un momento di crisi che a distanza di alcuni mesi  palesa tutta la sua importanza e richiede appunto come il libro di Beitz  un’attenta lettura.Scrive Carbone :”Nonostante i recenti tentativi di tessere un dialogo tra governo e opposizione e le reiterate sollecitazioni del Presidente della Repubblica per avviare quel riformismo istituzionale e operativo che serve al paese, la cura al capezzale dell'Italia malata tarda ad essere prescritta e, soprattutto, somministrata. Nel migliore dei casi, è rinviata a dopo la tornata elettorale di fine marzo.(2011, che non c’è stata n.d.r. ). Intanto, nell'arena politica aumenta la confusione, tra l’eco dei rischi di default degli anelli deboli dell'area euro, nel Mezzogiorno europeo (Grecia, Portogallo e Spagna) e l'amara sorpresa del recente impeachment del nostro vertice della Protezione civile. Eppure si era detto che la crisi finanziaria internazionale avrebbe dovuto rappresentare un'opportunità per indurre la politica a "cambiare registro" al fine di apportare le necessarie riparazioni ad un motore - il sistema Italia - che ha denunciato malfunzionamenti.

Del resto, il termine crisi in latino, in senso figurato, significa scegliere, decidere e tutti sappiamo quanto il nostro paese avrebbe bisogno di un ceto politico che lo facesse con serietà, responsabilità e determinazione. Servono riforme istituzionali democratiche e costituzionali in grado di rendere più competitivo il paese e di intercettare una struttura sociale sempre più sfuggente e liquida: soprattutto, cambiare alcuni meccanismi di funzionamento che contribuiscono a paralizzare l'Italia, malata di precoce invecchiamento, di un latente quanto subdolo declino economico, di relazionalità nepotistica e corporativa, di mancanza di merito e di adeguate politiche dr inclusione sociale. Il paese è perciò in una situazione certo non incoraggiante (ulteriormente depressa dalla crisi), che è ribadita da un'analisi collettanea ltaly Today. The Sick Man oJ Europe che uscirà  a Londra da Routledge, con contributi in prevalenza di studiosi stranieri. Dunque, il malato deve essere curato e, se cerchiamo terapie adeguate, conviene iniziare a consultare La cura di Michele Ainis (Chiarelettere), un volu­me che prescrive una terapia, proposta nel format di un deca­logo, tanto suggestivo quanto radicale. «Se volete nuove leggi, bruciate quelle vecchie», sug­gerisce Ainis, costituzionalista e autore di un bel saggio, La leg­ge oscura. « Una guerra silenzio­sa - egli scrive - arma l'uno con­tro l'altro gli italiani. È la guerra del diritto contro il privilegio, dell'equità contro l'ingiustizia. È anche la guerra dei più giova­ni contro il potere degli anziani. Delle donne contro le strettoie d'una società maschile. Dei sin­goli contro il concistoro delle lobby. Dei talenti contro i paren­ti. Più in generale degli spiriti li­beri, dei senza' partito,' contro l'obbedienza cieca e serva recla­mata dalla politica». C'è insom­ma una camicia di forza da  mandare in pezzi per promuovere una democrazia fondata sul me­rito, la legalità, l'uguaglianza (in­tesa come pari opportunità "ai nastri di partenza"). Per rimuo­vere “l'ingessatura'' occorre una cura adeguata, riforme" del fare" che riguardino le classi di-­rigenti e la società, i loro mecca­nismi di formazione e quelli di selezione. Bisogna anche esse­re animati da una pretesa tecno­cratica che è, forse, specchio di quei cambiamenti nel software culturale e istituzionale che l'in­certa rivoluzione borghese ita­liana non è stata in grado di in­trodurre nei centocinquanta anni di unità del paese. Istitu­zioni e classi dirigenti italiane. avrebbero riscosso maggior fi­ducia e legittimità se avessero adottato una linea culturale in. grado di mettere in valore meri­ti e competenze, piuttosto che ricorrere ai moltiplicatori della disuguaglianza, quali sono i cri­teri di fedeltà e di mera apparte­nenza di ceto.Come dar torto a questa idea tecnocratica, di buona democrazia come meritocrazia elettiva, che sembra ispirare Ainis e accomunarlo al forum di pensiero  che va da Platone a Giovanni Sartori? Perciò proviamo a girare pagina, raccogliendo la sfida riformista per disarmare il potere delle lobbies che agiscono "sottotraccia" e remano a favore dei propri interessi, come fanno del resto le oligarchie dei partiti politici e dei sindacati o ancora, gli ordini professionali e i baroni universitari: per non parlare della necessità di evitare di essere guidati da élite inette. Altrimenti assisteremo all'evaporazione della centralità dell'interesse nazionale e all' affermazione arrogante di singoli, gruppi e piccole patrie. Il decalogo di Ainis spazia da cure specifiche per i concorsi pubblici (con sorteggio dei commissari), a regole capaci di disciplinare la democrazia interna di partiti e sindacati, ad un'emersione delle lobbies con una legge dedicata, che, tra l'altro, preveda il depotenziamento del ricorso alla cooptazione, ad una nuova legge elettorale che cancelli le nomine di fattto dei parlamentari, ad un ricambio delle classi dirigenti che rispetti la regola dei due mandati al massimo' per gli incarichi di vertice. Dunque abbiamo più, che un'idea delle terapie necessarie e, volendo, disponiamo di mezzi e soluzioni per inaugurare una stagione riformista in grado di cambiare le istituzioni e il  paese. Resta appunto il problema del soggetto innovatore. Chi . si farà parte e guida di un simile cambiamento? Ma a questa domanda è chiamato a rispondere il ceto politico, di governo e d'opposizione. È nell' arena politica la "porta stretta" da attraversare per cambiare l'Italia.


Eremo Via vado di sole, L'Aquila, venerdì 10 agosto 2012

il capoluogo | L'aria palpitante sulle parole ...

il capoluogo | L'aria palpitante sulle parole ...

ANIMALI VERI ANIMALI IMMAGINARI    :  L’anfisbena


L’anfisbena, dice Eliano, è serpente a due teste, una davanti e una dietro (Nat. anim., IX, 23); quando va in una direzione, la testa dietro viene disattivata e funziona da coda, mentre quella davanti osserva, pensa,
prende le decisioni; e se c’è da scappare non deve perdere tempo a voltarsi,ma passa il comando all’altra testa, quella di scorta, che è di natura piùpavida ed è già pronta a fuggire alla massima velocità, evitando qualsiasi ripensamento. L’anfisbena ha risolto con quest’alternanza di potere o comunque di prerogative decisionali, il conflitto che si può creare tra le teste negli animali a più teste. Ogni testa nell’anfisbena avrebbe potuto tirare in un senso, e avremmo avuto un animale teso allo spasmo in due direzioni come una fune, e irresoluto, da un lato feroce ma impossibilitato ad attaccare, perché l’altro avrebbe tirato per scappar via senza riuscirci;due teste la cui somma fa zero, ma con altissimo costo energetico.
Il problema delle molte teste e dei rapporti intrapersonali, si ripresenta in diversi animali fantastici: l’idra di Lerna, la chimera, i capelli serpentiformi della Medusa eccetera. Ogni testa avrà una sua personalità;
ce n’è una che funge da capo? o vige di massima un sistema democratico parlamentare? nel senso che ci saranno teste più benpensanti e conservatrici, e altre più di sinistra, anarcoidi, propugnanti un regime di
stampo sovietico; altre ancora timorate di Dio, remissive, devote, con il sorriso falso da prete in faccia; e poi altre, pure e semplici teste di cazzo, ignoranti e però con l’idea ad esempio di avere buon gusto, ad esempio in fatto di moda, con l’idea di saper essere originali e di distinguersi da tutte le altre, mentre invece resta il fatto che sono teste di cazzo ignoranti, e non arriveranno a capire neanche questo, che è una forma di autodifesa,l’ignoranza, perché se lo capissero (quanto sono ignoranti, e infantili, e
penose, nel giudizio di tutte le altre) cadrebbero nella depressione, in forma di attacchi di panico, che oggi si cura coi neurolettici, ma un tempo,ad esempio nei tempi antichi, non aveva vie di guarigione, e se qualcuna delle teste dell’idra finiva in questo stato (per via dell’ignoranza originaria)la si vedeva poi floscia, stare sdraiata mentre le altre le turbinavano intorno all’arrivo di Ercole che doveva compiere su di loro una delle sue fatiche.
Difficile pensare che cento teste siano tutte unanimi, anche se gli autori antichi su questo tacciono, che non ce ne sia ad esempio qualcuna stonata ma con la mania di cantare, e tutte le altre a dirle «basta», «smettila», «ci fai venir mal di testa», e lei che invece per un po’ sta zitta e poi si rimette a canticchiare, e il fatto è che essendo tutte attaccate allo stesso corpo (l’idra era una specie di grosso sauro) non si può rispedire costei a casa sua o mandarla in qualche altra zona disabitata della palude. La situazione
dell’idra di Lerna è quella di un condominio dai muri di carta, dove continuamente si sente gridare «basta!» al vicino o a quello del piano di sopra, e battere con la scopa al soffitto: «è tutta notte che qualcuno cammina e sposta i mobili... basta!», per non parlare del volume della televisione, che ai tempi di Ercole non c’era, ma c’era l’analogo, e tra le teste dell’idra imperava la discordia e il battibecco condominiale, per cui in realtà erano animali deboli, questi dalle cento teste, persi dietro a quisquilie, cause penali pendenti, dispetti, sgarbi, antipatie. Cosa peraltro che già si riscontra negli animali fantastici a tre (Cerbero) o a solo due teste, i bicefali, che tendono a mordersi, avere opinioni opposte, questi
sono come una coppia di coniugi al tempo del matrimonio indissolubile: dei musi!, le due teste si piantano dei musi che durano settimane, o non si parlano più per dei mesi, una voltata di qua, l’altra di là; si avvicina il cavaliere con la spada in mano, anche se sono animali fantastici nessuna delle due però vuole cedere: «Senta da quella lì», risponde una delle due al cavaliere, facendo cenno verso quell’altra. «Che cosa?» dice l’altra «chi è che dovrebbe sentire da me?». «Ma smettila una buona volta! » dice la
prima. «Chi è che la deve smettere?» dice l’altra. Il cavaliere a questo punto rinuncia e va via disgustato.


Eremo Via vado di sole, L'Aquila, venerdì 10 agosto 2012

mercoledì 1 agosto 2012

BIBLIOFOLLIA  L’Almanacco Bompiani  è tutto completo


Per la prima volta la Libreria Antiquaria Malavasi di Milano ha riunito e passa sul mercato la collezione completa dell'«Almanacco Letterario Bompiani» (Mondadori-Unitas-Bompiani, 1925-1999), per un totale di 42 voll., in brossura e cartonato, in 8 °piccolo e in 8° grande.Laacollezione è in vendita al prezzo di €44oo. Un lungo saggio firmato dallo storico dell'editoria e bibliofilo Hilarius Moosbrugger  sul sito www.maremagnum.com ricostruisce la storia della rivista. Il direttore letterario Rcs Mario Andreose su Il Sole 24 0re del 21 novembre 2010 traccia questo profilo culturale.
Il primo numero dell'Almanacco Bompiani vede la luce nel 1930 (anche se qualche esperimento c'era già stato). È un modo, per l'eclettico e dinamico Valentino, per catturare le grandi fìrme, anche all'infuori dell'ancora ristretto ambito degli autori della casa, con una pubblicazione che, oltre a registrare gli avvenimenti culturali più signifìcativi dell'anno, si impone per la formula di interventi ad ampio spettro e la veste raffinata.


Chi potesse sfogliare oggi l'intera collezione (42 numeri, compresi i primi e le ristampe) potrebbe leggerla come uno "specchio del tempo", le cui fasi in successione recano il segno dei collaboratori che hanno affiancato l'editore. Come Zavattini e Bruno Munari -quest'ultimo responsabile fin dal 1933 diuna rivoluzione grafica e iconografìca che lo pone al livello della migliore avanguardia europea, nonostan te la convivenza iniziale con i disegni tradizionali di Angoletta, Novello, Veliani Marchi. Nell'Almanacco 1937, ribattezzato antiletterario, Munari realizza, fuori testo, fotomontaggi e collage che celebrano,nobilitandolo, l'immaginario mussoliniano del tempo; come farà poi anche nei libri per bambini, ci sono pagine con dei buchi-finestre dai quali, continuando a sfogliarle, appare sempre affacciato il volto del duce.Interrotto durante la guerra l'Almanacco riprende nel '59 (l'ultimo Bompiani-Zavattini). In seguito saranno i vari collaboratori della casa editrice a occuparsene, su temi che, remoti alla vocazione bellettristica delle origini, cercano di cogliere fermenti e suggestioni di una società sulla via del villaggio globale.

Nel 1972 Valentino esce di scena e sarà Umberto Eco a curare l'ultimo Almanacco della sua gestione, titolo Cent'anni dopo. Il ritorno dell'intreccio. Il secondo titolo suona come un atto di pentitismo da parte di un ideologo del  Gruppo '63. In realtà, e con il senno di poi, appare di più come un esercizio di laboratorio per il futuro romanziere perché, accanto a testi d iBarthes, Sartre, Gramsci e altri, Eco allestisce una «crestomazia di pagine celebri e ignote della narrativa d'appendice». Il declino si consuma con la fine degli anni 70 nonostante il tentativo di affidarlo in precedenza a penne brillanti quali Rita Cirio, Nataliaspesi, Lietta Tornabuoni (assieme a Oreste Del Buono per il numero del 1980). Ci saranno due sole eccezioni, postume, all'insegna della "sicilitudine": Leonardo Sciascia, nel 1986, curerà, a cinquant'anni dalla sua morte, un Omaggio a Pirandello che comprende anche la ristampa anastatica dell'Almanacco 1938 a lui dedicato; Matteo Collura, nel '99, nel decennale della scomparsa, cura Leonardo Scia scia. La memoria e il futuro.


Eremo Via vado di sole, L'Aquila, mercoledì 1 agosto 2012

mercoledì 11 luglio 2012

Ho seguito l’erba sulla strada    - poesie  -



1.
Ho seguito l’erba sulla strada
fin dentro gli androni
ed era come seguire un filo
d’arianna della vita
di tutta quella gente
che non calpesta più queste strade
e non abita più quegli androni.
Le gugliate del mio respiro
smorzato dall’odore di polvere
intrecciano una tela di destini
che non possono fondersi in uno
perché sono lunghe queste vite
e spaziano nella speranza di un’altra.
La speranza mentre sono qui
che la vita perduri nella vita
per non lasciare il governo della casa
anche quando non si è presenti
e perdere l’amore che a fatica
abbiamo dato e abbiamo ricevuto .
Solitudini di giorni
appaiono così un’inezia
quando rammento il dolore
che è troppo mio compagno
anche perché non so dire
se questo dolore
è terra di riporto o terra vera
quella dove cresce l’erba
e scorre l’acqua, quella
che t’accoglie  quando nasci
e ti consola quando muori .



2.
-Prega – dice - per la città perduta –
dal futuro con l’anima nascosta
dal passato come lume di torcia tascabile .
Tu che hai visto cadere mura
hai sempre detto che non c’è
morte  senza che non vi sia nascita
e per questo pregherò.
Il meriggio di luglio è un’ora
che non passa eppure eppure
guardarsi attorno in questa città
è come spingere una barca in mare
in un viaggio attorno al mondo.
Ho sognato da sveglio le lusinghe
Delle voci trapassate nel tempo
Che sembrano una calca
In cui tra poco sarò scomparso.



3.
Un paese colorato e suggestivo
d’estate, silenzioso d’inverno.
Ed è come una restituzione alla vita
dopo il vagabondare per mesi
ed anni diventati un tempo
senza misura  o senso.
Un suono di stoviglie smosse
davanti ai monti circostanti
fa sentire le vecchie pietre d’unto
e il fumo delle fascine
spartisce il passato e l’avvenire .
Si sposta la luce, il vento
e le automobili sul selciato
della strada  antistante la casa
e si sposta pure chi di fretta
va a sedersi sulle panche  dell’ambulatorio.
Per questa terra gira ancora
un venditore ambulante
con il suo camion di frutta e verdura
e non più carretto e mulo .
Chi viene dunque ora porta notizie
che la tivvù è spenta
e i giornali servono per accendere
il fuoco del camino .
Le case e le topaie in fila
seguono le strade strette
dove fa ombra il tetto spiovente.
Cresce l’erba
e come è giusto e come il cuore
tollera passo in rassegna ora
la vita e conto  dentro le mie tasche
i soldi, le ansie  e le lacrime.



4.
Per il fatto che dobbiamo vivere
ancora un po’,guardiamo fuori la finestra,
beviamo acqua con il limone
e a colazione mangiamo ciambelle
con il burro.
Solo un po’ dobbiamo ancora vivere
e quando vengo da vivo
a parlarti nell’ora morta
nel mezzogiorno della città
là sotto il monte dove dormi
lascio che tu mi immagini
dovunque ora sei
e il tuo riflesso è dentro
dentro i miei occhi.
Ora e ancora un tavolo
è un tavolo, un bicchiere
un bicchiere e per questo
io ti parlo  di tutto
di tutto quello che voglio.
Come se potessi ancora abbracciarti
e cerco il tuo volto
su una foto  e vedo solo
quel chiaro  e quell’alone
che trepida nell’aria.
Nell’aria del nostro parlare
ancora, vigilia di nessun avvenimento
perché tu stai lì ed io qua ,
mi consola
non so in quale ricordo
l’amore che mi porto  ancora
dentro sorgente di luce  e canto
che mai mi allontana da te.


Eremo Via vado di sole, L'Aquila, giovedì 12 luglio 2012

domenica 8 luglio 2012

BIBLIOFOLLIA : Lessero l'Encyclopedie...

BIBLIOFOLLIA  :  Lessero l'Encyclopedie...


Lessero l'Encyclopedie ed ebbero poi tagliata la testa.L'Encyclopedie  , un'opera che ha cambiato la storia del pensiero  rappresntò anche un'operazione  economica e finanziaria notevole.
In particolare la gran parte delle copie furono acquistate e lette  da quel ceto borghese  destinatoa scomparire  dopo la rivoluzione francese.
Solo 28 copie furono acquistate  a Nantes , una città  moderna e all'vanguardia .
L'Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri (Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers nel titolo originale) è una vasta enciclopedia pubblicata nel XVIII secolo, in lingua francese, da un consistente gruppo di intellettuali sotto la direzione di Diderot e D'Alembert. Essa rappresenta un importante punto di arrivo di un lungo percorso teso a creare un compendio universale del sapere, nonché il primo prototipo di larga diffusione e successo delle moderne enciclopedie, al quale guarderanno e si ispireranno nella struttura quelle successive.
La sua introduzione, il Discorso Preliminare, è considerata un'importante esposizione degli ideali dell'Illuminismo, nel quale viene altresì esplicitato l'intento dell'opera di incidere profondamente sul modo di pensare e sulla cultura del tempo.

Il Piano dell'opera (Prospectus) del 1750 ottenne un migliaio di sottoscrizioni e le condizioni di acquisto, dettagliate nell'ultima pagina, prevedevano: per dieci volumi in folio dei quali 2 di tavole: 60 lire d'acconto, 36 lire alla consegna del primo volume, prevista per il giugno 1751, 24 lire alla consegna dei successivi, scaglionati di sei mesi in sei mesi, 40 lire alla consegna dell'ottavo volume e dei due tomi di tavole. In tutto, 372 lire[4].L'opera, per i tempi di enorme portata, occupò circa mille operai nell'arco di 24 anni. Ci furono 2.250 sottoscrittori per una tiratura di 4.250 copie (numero risibile oggi, ma durante il XVIII secolo, una tiratura «normale» non andava oltre i 1.500 esemplari).
Visto l'elevato prezzo d'acquisto, si può supporre che il lettore tipico dell'opera facesse parte della classe borghese, dell'esercito, dell'amministrazione statale o della Chiesa.[5]. Dal momento che i salotti di lettura si moltiplicavano, è possibile ipotizzare l'opera sia stata consultata da un pubblico significativamente più esteso di quello costituito dai diretti acquirenti.
Il temporaneo divieto imposto alla diffusione dei tomi primo e secondo, lungi dalle intenzioni dei censori, accese la curiosità del pubblico attorno all'opera, stimolando proprio in quel periodo più di 4.000 ordinazioni. A seguito dei sommovimenti generati dalla pubblicazione de De l'esprit, al ritiro del privilegio di stampa e al divieto papale, Le Breton fu condannato, quale pena accessoria, a rimborsare i sottoscrittori, ma nessuno di essi si fece mai avanti per ottenere materialmente alcuna somma.


In conclusione, l'impresa fu un vero successo editoriale: per 1.158.000 lire spese, ne furono guadagnate 2.162.000, praticamente raddoppiando l'investimentoAll'originale seguirono rapidamente riedizioni, adattamenti e copie non autorizzate. Così, sebbene la prima edizione fosse stata tirata in 4.225 esemplari, se ne contano quasi 24.000 tra tutte le diverse edizioni vendute all'epoca della Rivoluzione francese. Tra il 1776 e il 1777, Charles-Joseph Panckoucke e Jean-Baptiste-René Robinet pubblicarono un «Supplemento all'Enciclopedia» in quattro volumi, più uno di tavole. Una "Tabella alfabetica" apparve in due volumi nel 1780. Dal 1782 al 1832 fu pubblicata una edizione completa in 166 volumi.
A cura di Panckouche furono pubblicate prima il Tableau encyclopédique et méthodique e successivamente il monumentale progetto enciclopedico Encyclopedie Methodique, evoluzione di quella di Diderot e d'Alembert.


Eremo Via vado di sole , L'Aquila, domenica 8 luglio 2012

giovedì 5 luglio 2012

Da un martedì ad un sabato - poesie –

Da un martedì ad un sabato  - poesie –



1.
Da un martedì a un sabato
ho letto  del viaggio delle navi
raccontato da Omero
e mi sono chiesto  per dove fare rotta
ora che il mio vagabondare
corre dietro ad un’amo0re
che tutto muove, Omero
e il suo mare.
Resta con me stasera
in questa silenziosa fantasia
che è come un paese d’estate
stracolmo d’inganni
che è come  il pensiero d’un dolore
d’altri tempi
l’impercettibile lancetta
del desiderio che viene  senza pazienza
nel contro vento del rosseggiare
della sera
ed è quasi un deriva
tra sogno e insonnia.
Dentro  perduto
avanza  di nuovo  ancora il desiderio di te
ed è un dolceamaro respiro
inesauribile.



2.
Bella e ricolma di malinconia
dinanzi agli occhi  ho questa luna
esanime in un cielo a cenci
come uno straccio  smorto
di lenzuolo  sul letto disfatto.
Una terra  umida assolve l’aria afosa
piena di echi e stanotte
par sentire un verso straripato
troppo simile a una censura
che è come dire  al cuore
non ti vergognare  di trovare
da un respiro d’amore
la pienezza d’un suono.



3.
In sogno ho visto il mare
era come un campo di fieno
alla luce impallidita d’un sole
dalle braccia abbandonate sulla terra ,
odorava di rose
ed era mosso da un vento vuoto.
Il mare, il mare che ha natura
e fede nel sogno   si è fatto ombra.
L’ombra silenziosa del nostro tempo
passato che abbiamo vissuto
come esistenze di giorni ,
di notti, di parole e respiri,
di amplessi e litigi.
Lungo l’erba infinita di quelle onde
ai venti successivi  di quello
che mi resta  da vivere
dissemino di mare in mare
le tepide figure
del mio dolore di vivere.



4.
Lo spazio d’uno sguardo
è quel chiedere scusa
come una carezza che arde.
Riposa l’eternità con i suoi limiti
e nelle calde mani
odora una passione
da uomini. Ritorna
ma invano  la voglia d’un tremebondo
amore pieno  di venti tormentosi
e incolmabili  di fiori.


Eremo Via vado di sole, L'Aquila, giovedì  5 giugno 2012