martedì 28 gennaio 2014

CANZONIERE : Osce,trenda novembre

CANZONIERE : Osce,trenda novembre




Ósce, trenda novembre d’u dujemile e ttré / scrive stu testamiénde esistenziale / a presenze de na trestézza bestiale / na deméneca cchiù longhe de nu mese / Lasse re ttiérre ca tenghe ngimme a lune / e cavadde janghe cu r’asscédde e piede / e i giacinde’n fiore nzine a Venere / a re mamme de magge da purtuà e figlje / lasse l’utreje mberlate d’a mende / a re cecale chešcose e candatrice / ca pònne ngiutì subbete a luvatrice / se le face nassce nu penziere scure / lasse re scarpe cu re ttacce sotte a capanévere / nghiuse ndò cunvende / accussì se chióve forte e méne u viénde se póte fà nu tippe tappe assatanate / e ppe ffenì lasse tutte re poesije / a re puttuane de l’India misteriose / e qquanne Kalì m’avvranghe rabbiose / re ponne legge da u Pualazze u Viénde.
     “Oggi, trenta novembre del duemilatré / scrivo il mio testa-mento esistenziale / alla presenza di una tristezza bestiale / e una domenica più lunga di un mese / Lascio le terre che possiedo sulla luna / ai cavalli bianchi con le ali ai piedi / e i giacinti in fiore nel grembo di Venere / alle madri di maggio da portare ai figli / lascio l’utero imperlato della mente / alle cicale estrose e cantatrici / che potranno stordir la levatrice / se gli fa nascere un oscuro pensiero / lascio le scarpe con le bullette alla suola alla capinera / rinchiusa nel convento / così se piove forte e tira il vento potrà danzare un tip tap assatanato / e per finir lascio tutte le poesie / alle puttane dell’India misteriosa / e quando Kalì mi abbrancherà rabbiosa / potranno leggerle dal Palazzo del Vento.”
(Da Franco Arminio Terracarne  Milano Mondadori  Strade blu 2011"La farfalla di pietra" 
Eremo Rocca S.Stefano  martedì 28 gennaio 2014

SILLABARI : Ricchezza povertà

SILLABARI : Ricchezza povertà


Oggi prendo in prestitoun post su fb di  antonio Museo che riporta  le parole di Alessandro Robecchi pubblicate lo scorso 23 gennaio su Il Fatto Quotidiano. Trovo che rendano molto bene lo sconcerto di fronte alle cifre della distribuzione della ricchezza (e della povertà) nel mondo.
“Ottantacinque. Non 85.000 (ottantacinquemila), né 8.500 (ottomilacinquecento), e nemmeno 850 (ottocentocinquanta), che già sarebbe spaventoso. No, no, proprio 85. Ottantacinque persone su questo affascinante e confortevole (per loro di sicuro) pianetino posseggono una ricchezza pari a quella di 3 miliardi e mezzo di persone, cioè lo 0-virgola-moltissimi-zeri-virgola-uno della popolazione ha un reddito pari a quello del 50 per cento più povero. La cifra, diffusa dall'Oxfam, è al di là di ogni immaginazione, provoca una specie di vertigine. In ogni paese del mondo c'è un grafico con due linee ben distinte: uno schizza verso l'alto, ed è la quota di ricchezza dei pochissimi super-ricchi, l'altra precipita verso il basso, ed è l'aumento della povertà dei moltissimi più poveri. Negli ultimi trent'anni la parte di ricchezza detenuta da pochi è aumentata ovunque e la quota di povertà distribuita tra gli altri è aumentata anche quella. Ovunque. (…) Tutto questo, si direbbe, rende un po' ridicole alcune stupidaggini fondamentali che vengono ripetute da decenni. Una: quella che recita che se aumenta la ricchezza diminuisce la povertà. Il ricco darà da lavorare, si dice, e migliorerà le condizioni dei poveri. Ecco. Cazzata, come ci dicono le cifre, dato che ovunque i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri e più numerosi. Altro mito di cartone da sfatare, il vecchio sogno delle simpatiche socialdemocrazie nordiche (che anche qui risuona, va di moda, insomma), cioè la famosa frase di Olof Palme, che diceva: "La sinistra non deve combattere la ricchezza ma deve combattere la povertà".Bello, eh! Suona bene. Ottimo per l'aperitivo! Peccato che sia proprio la ricchezza di pochi a creare la povertà di molti”.

Eremo Rocca S.Stefano  martedì 28 gennaio 2014



giovedì 23 gennaio 2014

Caro Peppino

Caro Peppino



Caro Peppino ora posso sedermi e parlare un po’ con te. E’uno dei nostri colloqui, quelli che  dasempre ci hanno accompagnati  neisentieri  che abbiamo percorso assieme,qualche volta camminando fianco a fianco ,qualche altra rincorrendoci,qualchealtra ancora fermandoci ad aspettare.
Ieri sera ,quando mi hanno telefonato per dirmi  che ti eriincamminato da solo  per un viaggio ,nontanto sconosciuto ma  sorprendentementenuovo,ti ho pensato appunto in cammino  su una distesa di  campi assolati erigogliosi  tra le colline e di fronte almare ( che quella era la tua terra reale,quella dalla quale sei venuto in mezzoa queste montagne e di cui tante volte mi hai parlato ).
Ti ho visto camminare senza fretta  verso un casolare  dal quale venivano giù a rotta di collo,sustrade bianche e scorciatoie color vinaccia del suolo,  i tuoi due Flyn  che guaendo e scodinzolando ti hannointravisto al tuo apparire all’orizzonte. Quel Flyn che ti uccisero i fascisti quando ancora adolescente o giovaneuomo, vivevi ancora a Castel Castagna che io non ho conosciuto e quell’altroFlyn ,che pure io ho conosciuto, che fu investito da un’auto una mattinad’estate  su una strada lungo mare alrientro da una passeggiata .
E così a lungo  nellaserata sono rimasto con il pensiero di te e delle cose che ci dicevamo ultimamente. Quando tu passeggiavi sullastrada che dal ponte sull’autostrada porta all’edicola della Madonna di Pettino, da quando sei rientratonella tua abitazione, che sta proprio un poco discosta da quella  strada ,dopo il terremoto.
Io salivo da Santa Barbara, venendo da  Valle Pretara ,dove nei primi anni dopo ilterremoto  avevo trovato una dimora, perrecarmi a Cansatessa  alla Chiesadell’adorazione il venerdì pomeriggio. Mi fermavo ad aspettarti all’edicoladella Madonna se caso mai non ti avevo già visto per strada. E così
mentre mi dicevi “Arrivo all’edicola della Madonna, tre  Ave Maria e poi torno indietro “ mi chiedevisempre ,con la solita premura,.notizie dei nostri amici e conoscenti masoprattutto dei ragazzi che avevamo conosciuto nella casa di rieducazione, nelriformatorio e nel carcere minorile.
Erano ,da ultimo ,da quando anche  io ero andato in pensione, le nostregiaculatorie, le nostre litanie,una sorta di grani di rosario sgranati  tra il rumore del traffico di quella stradae  i battiti del nostro cuore..E quandol’affanno si faceva insostenibile  unpoco per la strada in salita e un poco per l’emozione dei ricordi ,cambiavamodiscorso  Così fino ai primi mesi diquesto inverno che seppure mite ha comunque portato giorni di pioggia e vento che probabilmente non ti ha permessodi uscire:
Non ho saputo più niente delle tue condizioni fisiche ma oranon è questo quello che conta. .Ora so che sei in buona forma  per affrontare questo nuovo cammino  e che non sei solo. Ti accompagnano i dueFlyn e la luce splendente d’un mattino di sole invernale,con appena un poco divento e il riverbero della neve su in alto in alto sui monti  dove lo sguardo si confonde , accecato,e tuttodiventa vastità azzurra.
Mentre poi questo pomeriggio venivo a salutare i tuoifamiliari mi sono venuti in mente questi versi Li ho scarabocchiati sul fogliodi un piccolo taccuino che tengo in macchina ,accostando ogni tanto per poterscrivere, un verso dopo l’altro ,come faccio qualche volta la sera  quando midistendo sul letto. Mi alzo e mi distendo di nuovo  ogni volta che mi viene in mente un verso . Unverso dopo l’altro.

Tu eri seduto accanto a me
e piano
ancora più piano delle altre volte
intralciando il traffico
a cinquanta chilometri all’ora,
come spesso andavi anche tu ,
sono arrivato.
Mi aspettavano Clara, Anna Rita
Francesco ,ma tu eri con me .
Da questo paese
che da quassù guarda il mondo
sono sceso a valle
con la piccola utilitaria
per salutarti  ora chehai deciso
di incamminarti da solo,
presi gli attrezzi per il viaggio
concordato il segnale
per ritrovare la strada ,
chiusa la porta dietro le spalle
senza fretta .
Ti sei messo in cammino
che cosa  può dunquesuccedere
in questa sera –giovedì – sui campi
laggiù tra gli sbuffi di nebbia,
che cosa può succedere. E’ questa
un’ora che intenerisce il cuore
e volge tutto alla malinconia
d’una speranza ,la speranza
che salutandoci  oranon entri nel buio.

  Avrei potuto raccontare a tutti i presenti queste cose. Maci ho rinunciato perché sarebbero state tradite dall’emozione del momento.Avrebbero avuto il ritmo frettoloso di chi si preoccupa del tempo adisposizione degli interlocutori, di chi frammenta un discorso scegliendo e non riuscendo così a condividere fino in fondo  proprio quell’emozione  del momento.
Avrei voluto raccontare quella stupenda parabola del buonseminatore. Metafora del nostro lavoro che tante volte abbiamo meditato insiemee da soli  e che in fondo rimane oggi ,oggi che sei partito, come un viatico per il cammino che mi rimane da fare
«Ecco, il seminatore uscì a seminare.  E mentreseminava una parte del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e ladivorarono.  Un'altra parte cadde in luogo sassoso, dove non c'era moltaterra; subito germogliò, perché il terreno non era profondo.  Ma, spuntatoil sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò.  Un'altra partecadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Un'altra partecadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, doveil trenta.”
Una sola semina, lo stesso seminatore, lo stesso seme, glistessi gesti, la medesima fatica, e tuttavia gli esiti sono diversi.  Perchè nonsi parla delle  sue qualità, di cui nullaviene detto, bensì della  sua sorte.
La sorte  del seme èla sorte della vita .E guai nella vita a non accontentarsi  solo dell’unico seme che cade “sulla buonaterra”e dà frutto .Frutto che non dipende ancora una volta dal seme ma dallaterra. Come si fa a vedere se la terra è buona? Con un atto di fiduciadeponendovi il seme.

E dunque caro Peppino è il cuore che  fa atti di fiducia. E dunque non dirò dellebanalità come quella che il tuo cuore  siè fermato, che il tuo cuore fa fatica ,perché non è vero. Perché il tuo cuoreera per gli altri .Gli altri dunque
E allora mi sono immaginato che forse arrivando al terminedel cammino che oggi hai intrapreso tu ti aspetti di trovare le bandiere delsindacato al vento ed un immenso corteo che ti saluta.in quella terra non ci sono cortei e bandiere al ventoperché è terra nuova dal cielo nuovo dove bandiere e cortei sono incongruentifuori     luogo.
Forse dietro la porta del casale troverai un saio daindossare per “Cantare lu Sand’Andonje


Se ci date una forma di cacio
non possiamo che darvi un bel bacio
un augurio per la casa bella
e l'Anno Nuovo e la Pasquella!

Se al contrario ci date un lonzino
con salami salcicce e buon vino
li mangiamo con la mortadella
ad Anno Nuovo e la Pasquella!

Se ci date un mezzo capretto
o magari un bell'agnelletto
noi mettiamo una grande padella
e l'Anno Nuovo e la Pasquella!

Con un buon piatto di tagliatelle
queste mura diventan più belle
un buon sugo con la coratella
e l'Anno Nuovo e la Pasquella!

E già ti sento cantare. Mentre scrivo mi sono ricordato unacosa. Parlando di questo momento abbiamo qualche volta  scherzato su un segnale di riconoscimento perritrovarsi. E allora ho cercato questa poesia di Eugenio Montale da “Satura”

Avevamo studiato  perl’aldilà
un fischio un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
Che tutti siamo già morti senza saperlo.

E se non è così caro Peppino tu fischia  ogni volta che ti fermi sul cammino,ad ogniincrocio,ad ogni tappa. Ti sento ,ti sento dentro al cuore.

Eremo Rocca S.Stefano giovedì 23 gennaio 2014

sabato 18 gennaio 2014

VOCI E STORIE DAL SILENZIO :L'ultima estate di Cechov nel giardino senza ciliegi

VOCI E STORIE DAL SILENZIO :L'ultima estate di Cechov nel giardino senza ciliegi


Scritto da PIETRO CITATI, Corrieredella Sera | 09 Settembre 2013
La moglie lontana, il figlio mancato, la delusione artistica 




Nel settembre 1898, Anton Cechov si trasferì a Jalta, in Crimea, dove imalati di petto passavano i mesi d'inverno. Qualche tempo più tardi, avrebbeaccettato di morire: ma allora aveva soltanto trentotto anni, la mente piena diracconti e di drammi, il desiderio di una donna che non aveva mai conosciuto, esperava di avere ancora quindici anni di vita. Non aveva voglia di partire daMosca, dove lo trattenevano amici, teatri, ristoranti, biblioteche, librerie,concerti: «Ma — scrisse — ho dovuto andarmene da Mosca perché seguito ancora aintrattenere dei rapporti illegittimi con i bacilli». Sperava nel clima dellaCrimea, che gli consigliavano i medici: sperava che la febbre, i freneticiaccessi di tosse secca, il sapore di sangue nella bocca lo avrebberoabbandonato — sebbene egli non si lamentasse mai della malattia, perchélamentarsi era, per lui, un segno di cattiva educazione. Lì, a Jalta, accettavadi vivere una vita rallentata, contendendo qualche anno o qualche mese allamorte.
I suoi bellissimi occhi blu-marrone erano ancora chiari, netti, precisi, enessuna ombra li macchiava. Spesso, a Jalta, il tempo era bellissimo anched'inverno, quando Mosca e Pietroburgo erano coperte di neve: tutto era limpido,asciutto, caldo: tutto verdeggiava; fiorivano le rose, i garofani, icrisantemi, e certi fiori gialli di cui non sapeva il nome. Un giorno, furapito dall'entusiasmo. Vicino a Jalta, a Kucukòj, vide una casa di quattrostanze, una casinetta tartara, una cucina, una stalla per le mucche, essiccatoiper il tabacco, una sorgente che sgorgava dalle rocce, una bilancia, unacredenza, un armadio, una dozzina di sedie viennesi, una stufa di ferro —mentre il latte era chiuso in brocche immerse nell'acqua fredda. Lì accanto, ilmare era meraviglioso. La villetta gli piacque tanto che la comprò subito, peruna somma bassissima: fece il contratto di acquisto; e pochi giorni dopo ciandò ad abitare, portandosi dietro le materasse, delle lenzuola e un samovàr.Amò sempre Kucukòj, che lasciò in eredità alla moglie. «Bellevue, una taleBellevue da restare senza fiato».
Durante i mesi d'inverno, Cechov viveva a Jalta. Fece costruire una ampia casadi tre piani, con una specie di torre, dalla quale si vedeva il mare. Amavasoprattutto il giardino, dove piantò lui stesso, nel novembre 1899, settantapiante di rose: cinquanta acacie piramidali, molte camelie, gigli, tuberose. Afebbraio, solo tre piante di rose non avevano attecchito. Il salice era verde:l'erbetta era fitta, il mandorlo in fiore; mentre aveva verniciato in tintaverde delle panche di legno. Zappava in giardino per giornate intere: il tempoera splendido: tutto era in fiore; gli uccelli cantavano. «Questa non è unavita — scrisse — ma una cuccagna». Era fierissimo del suo talento digiardiniere: se non fosse stato scrittore, avrebbe fatto certamente ilgiardiniere. Già a metà gennaio, aveva sentito il timido, incerto pigolio degliuccelli, specie dei tordi, che alla fine di marzo avrebbero preso arditamenteil volo per Mosca.


Purtroppo, a Jalta, c'era anche la noia: una immensa nebbia di tedio, pesante egreve come il marmo, che gli abitanti producevano ogni giorno, senza sosta,come se non sapessero fare altro. Cechov sognava le folle colorite e divertentiche gremivano le strade nevose delle grandi città del Nord, le belle donne(«qui non c'è nemmeno una donna»), e i teatri. A Jalta, anche il bel tempofaceva venir noia: d'estate gli alberi erano ingialliti e infelici: lui nonriusciva a scrivere nemmeno un racconto, perché aveva bisogno di respirareun'altra aria, che gli donasse l'esistenza della felicità. «Qui — diceva — èimpossibile lavorare, impossibile e impossibile, assolutamente impossibile». Sisentiva come un albero sradicato, o un uomo al confino.
Alla sorella Marija scrisse, nel novembre 1899, una lunga lettera di timbroquasi kafkiano: «Non sai che noia, che giogo è coricarsi alle nove di sera,coricarsi furioso, con la consapevolezza che non c'è un posto dove andare,nessuno con cui parlare, e che si lavora non si sa per cosa, dato che in ognimodo i tuoi lavori non ti riesce nemmeno di vederli, né di sentirli. Ilpianoforte ed io, ecco dentro casa due oggetti che conducono un'esistenza senzasuono, perplessi sul perché ci abbiano messi qui, visto che nessuno ci suona».Per divertirsi, almeno un pochino, aveva escogitato uno sport personale,comperando una trappola di nuova costruzione, con cui acchiappava i topi.
Che dicevano di lui, gli amici vecchi e nuovi, specialmente i nuovi, che per laprima volta lo avevano incontrato a Jalta? Tutti erano d'accordo; e quasi tuttiavevano torto. Gli amici dicevano che parlare con lui era una cosapiacevolissima: non avevano mai incontrato un essere umano così amabile,gentile e affettuoso. Quando parlava, si nascondeva dietro l'ironia e ladiscrezione, come se lui non esistesse, e esistesse soltanto il piacere, atutti comune, della parola. Le sue lettere erano spiritosissime: tra le piùspiritose che io conosca; persino quando era disperato, divorato dallatubercolosi, senza nessuno, e sapeva che la morte stava lì, a mezzo metro dalui. Gli amici aggiungevano che Cechov era generosissimo: aiutava di continuogli altri, anche quando non aveva denaro: gli altri uno per uno; non le folle,come faceva grandiosamente Tolstoj. Ma, a un certo punto, anche gli amici piùcari facevano una terribile riserva su di lui. Cechov non voleva bene anessuno: era completamente privo di amore e di passione; come diceva Gorkij,trattava «gli uomini con freddezza diabolica, indifferente come la neve e latormenta». La cosa singolare è che Cechov, in giovinezza, aveva detto le stessecose di se stesso, sostenendo di essere vuoto, e privo di quel misteriosoqualcosa che è necessario alla letteratura.


Cechov era distante, talvolta freddo (ma sempre amabile, o amabilissimo).Badava alle superfici: persino a come si vestiva, se andava a trovare Tolstoj.Non abbracciava e baciava nessuno, al contrario degli affettuosissimi scrittorirussi che ho incontrato. Ma nella profondità di quel meraviglioso diamante cheera la sua anima, sentiva un immateriale amore per la vita, anche se a unadomanda della moglie rispose: «La vita è esattamente come una carota. Unacarota è una carota, e non si sa altro». Per Tolstoj, provava una veravenerazione, sebbene Tolstoj gli dicesse che i suoi drammi eranospaventosamente brutti, più brutti delle tragedie e delle commedie diShakespeare. Non aveva un bisogno assoluto della presenza della persona amata:l'amava di più, se talvolta l'amata era lontana migliaia di chilometri e luipoteva soltanto fantasticare di baciarla e abbracciarla tre o quattro mesi piùtardi (ma allora con fortissimo ardore erotico). La donna amata, per lui, erala luna, che non appare ogni giorno all'orizzonte, e ingrandisce erimpiccolisce: questa luna era un amatissimo specchio, che concentrava in sétutti i raggi del sole sconosciuto, o forse assente.
***
Nell'autunno del 1898, Cechov vide Olga Knipper recitare sulle scene del Teatrod'arte di Stanislavskij: due volte, in un testo di Aleksej Tolstoj, e in unaripresa del Gabbiano dello stesso Cechov. «Olga — scrisse —, secondo me, èmeravigliosa: quella voce, quella nobiltà, quella schiettezza — tutto era cosìbello da sentirsi la gola stretta. Se fossi rimasto a Mosca, mi sareiinnamorato di lei». In realtà s'innamorò subito, senza riserve; e disse,pensando certamente a lei: «Quanto più invecchio, tanto più frequente e pienosento in me il battito della vita».
Scrisse per la prima volta ad Olga il 16 giugno 1899: poi il 1° luglio. Eranolettere discrete, miti, dolcissime, spiritose, talvolta buffonesche: semprepiene di amore. «Non fatemi perdere la testa», le diceva: ma la testa era giàperduta. In luglio fecero un viaggio insieme nel Sud: lei gli scrisse, e luirispose: «Cara, straordinaria attrice, meravigliosa donna, sapeste come lavostra lettera mi ha rallegrato. Mi inchino a voi profondamente, cosìprofondamente, ma così profondamente da sfiorare con la fronte il fondo del miopozzo. Mi sono abituato a voi, e ora soffro di nostalgia e non possoassolutamente rassegnarmi all'idea che non vi vedrò fino a primavera... Sepossibile, non dimenticate lo scrittore a riposo, e vostro assiduo ammiratoreAnton Cechov». E poi: «Attrice, scrivete, per amore di tutto quello che c'è disanto, altrimenti intristisco come in prigione, e m'arrovello, m'arrovello».«Mi pare sempre che la porta stia per aprirsi e che entri tu. Ma tu non entri,tu adesso sei alle prove». E infine: «Ti bacio forte, da svenire, dastordirmi».
Olga Knipper era nata nel 1868, otto anni dopo Cechov. Non erano molti: ma latisi aveva rapidamente logorato e invecchiato Cechov, che diceva di sentirsi «suo nonno», anzi il «suo nonnino». Il padre di Olga era un ingegnere di originetedesca: la figlia aveva ricevuto una buona educazione borghese, con lezioni dimusica, di disegno e di lingua straniera. Poi aveva seguito corsi di artedrammatica, e nel 1898 era entrata nel Teatro d'arte di Stanislavskij, di cuidivenne presto la migliore attrice. Era vivace: parlava con curiosità e gioiadi vestiti, cappelli e cucina; avida di vivere e di essere festeggiata, conpranzi e feste e medaglie e fiori. Amava Cechov: ma amava anche il successo, acui Cechov era (quasi) indifferente, e il potere, che Cechov disprezzava.Sposandosi con lui, Olga Knipper sapeva di diventare la più famosa attrice diRussia, e la moglie, come diceva infelicemente, del «Maupassant russo».
Nei primi giorni del dicembre 1900, Cechov decise di partire per Nizza, senzanessuna ragione dichiarata, abbandonando per qualche tempo Olga, la sua «luna».Amava viaggiare, prendere la fuga, andarsene molto lontano dagli sguardi.«Viaggiare da un posto all'altro e rimirare ogni cosa è assai più piacevole chestarsene a casa a scrivere, sia pure per il teatro». Offese e ferì Olga, laquale gli scrisse: «Non posso rassegnarmi a questa separazione. Perché seipartito, mentre dovresti essere vicino a me? Ieri, mentre il treno siallontanava e nello stesso tempo tu ti allontanavi da me, sentii per la primavolta che ci separiamo. Ho camminato a lungo dietro il treno come se non cicredessi ancora, poi mi sono messa a piangere, come non l'avevo fatto da moltianni».
Qualche giorno dopo, il 15 dicembre, Cechov arrivò a Nizza, e scrisse allamoglie una lettera nella quale non sembrava nemmeno supporre di averla ferita.Lì, a Nizza, — disse — era felice per lo scintillio del sole, la finestra dicamera spalancata, e l'anima anch'essa spalancata a tutti i venti del mondo.Ascoltava i cantori e i suonatori ambulanti, si scaldava al sole, e pensava conrimpianto e nostalgia a Olga abbandonata. Poi si spinse fino a Firenze, a Roma,e forse sarebbe andato ancora più lontano se non l'avesse assalito la passioneopposta: la noia di girovagare; imponendogli di tornare a Jalta. Il 22 febbraio1901 era di nuovo a casa.
Dopo questa fuga e queste lacrime, Olga decise imperiosamente di sposareCechov; e lui disse di sì, senza letizia. Non voleva ferirla. Ma il matrimonio,per lui, era così poca cosa — poco più di un gesto —; a lui importava soltantol'amore di Olga e la propria esistenza di «giardiniere». «Faremo tutto quelloche desidererai», disse alla moglie. Io sono in «tuo potere». Così Cechovraggiunse Mosca. Sebbene fosse in potere di Olga, si difese come poteva: conl'ironia, i sotterfugi, e il silenzio. «Ho una paura terribile degli sposalizi— scrisse alla moglie —, delle congratulazioni, dello champagne, che bisognatenere in mano e nello stesso tempo sorridere con aria vaga». Il 25 maggio sisposarono di nascosto, evitando i parenti e gli amici: alla cerimonia c'eranosoltanto quattro persone; Cechov aveva invitato come testimoni due studentisconosciuti. Olga accettò lo strano matrimonio, perché, sebbene fosse unasignora dell'apparenza, amava il marito più di quanto immaginasse.
La luna di miele non assomigliò a nessuna delle lune di miele che il matrimoniocristiano abbia mai conosciuto. A Mosca Cechov salutò, velocissimo, la madre diOlga: poi prese il treno per Novgorod, discese in battello il Volga, risalì ilfiume Bianco e si fermò ad Aksenovo, in un sanatorio. Aveva un piano: comeTolstoj raccomandava, fare una cura di kumýs (una specie di yogurt), lunga duemesi. Ne beveva quattro bottiglie al giorno: il miracoloso kumýs lo feceingrassare di otto libbre («ma non so per cosa, se per il kumýs o per ilmatrimonio»), e quasi cancellò la tosse secca che gli rovinava la vita.
Dopo trenta giorni Cechov si annoiò: in fondo, a lui di guarire importava poco;voleva vivere una vita felice o almeno senza tedio. Abitare nel sanatorio diAksenovo era come vivere in un «battaglione disciplinare». I giornali eranotutti vecchi, «roba dell'anno passato», c'era un pubblico senza interesse,attorno baschiri; e se non fosse stato per la natura, la pesca, e le lettere,sarebbe certo scappato via. Così fece: scappò via: tornò a Jalta, dove, dopoquindici giorni, stava di nuovo male, vendetta del kumýs abbandonato. Ma, alcontrario di quello che qualcuno potrebbe supporre, il matrimonio farsesco e latediosa luna di miele non l'avevano affatto disamorato della moglie. Il 25agosto le scrisse da Jalta: «Tesoruccio mio, son giusto tre mesi oggi che cisiamo sposati. Io sono stato felice, grazie a te, gioia mia, ti bacio molto. Tiabbraccio forte, forte. Il tuo marito e amico per i secoli dei secoli.Anton».Tutto questo era vero: l'unico matrimonio che Cechov potesse conoscere.
Quale sia stata la vita dopo il matrimonio è difficile raccontare: bisognerebbeavere un binocolo doppio, o uno triplo, e fissare contemporaneamentel'insondabile anima di Cechov, e l'oscura anima di Olga. Certo, lui l'amavamoltissimo, e spesso, malgrado la malattia e la solitudine, le sue letterecommuovono per freschezza, dolcezza e ardore. «Anima mia, angelo, cara mia,colombella, ti supplico, credi che io ti amo, ti amo profondamente; nondimenticarmi dunque, scrivi e pensa a me più sovente». «Ho una voglia pazza divedere mia moglie, ho nostalgia di lei e di Mosca, ma non c'è niente da fare.Ti penso e ti ricordo quasi ogni ora». «Ti bacio forte fino all'indecenza».«Credo che se potessi essere disteso solo per metà notte, con il naso sepoltonella tua spalla, cesserei di stare male. Non posso vivere senza di te».
Olga era sempre via: a Mosca, a Pietroburgo, a fare le prove, a recitare, allefeste: esisteva con un'intensità estrema. Cechov sapeva che la separazione erafatale, ma avrebbe voluto che lei implorasse un po' di libertà ai suoi tirannidel Teatro, e scendesse ogni tanto a Jalta, sia pure per pochi giorni. Questacondizione diventò tragica nei mesi dell'inverno 1901-1902, quando lei promisedi venire per le feste di Natale, poi a gennaio, poi a febbraio, e non vennemai, come la «principessa lontana» della leggenda. Questa volta lui si arrabbiòprofondamente. «Sei una tedesca positiva, di carattere — le scrisse il 25gennaio 1902 —, arrivi il lunedì della prima settimana di quaresima e te ne vaiil mercoledì o addirittura il martedì della medesima settimana... Sei la miacroce!... Bisogna minacciarti, altrimenti non verrai affatto, o verrai solo permezz'ora».
Anche Olga aveva nostalgia del marito: la mattina non aveva il coraggio dialzarsi e guardava verso l'altra sponda del letto, dove, qualche volta, eraapparsa la barba bionda e brizzolata di Cechov. Ma lui non c'era: non c'eramai; c'era soltanto il letto non disfatto, il cuscino intatto, e lei siaccusava di essere crudele col suo eterno teatro. Ma, a nessun costo, avrebberinunciato al teatro. Non avrebbe nemmeno rinunciato al suo efferato spiritod'ordine. Voleva che il marito lavorasse sempre per il Teatro d'arte di Mosca:voleva che si cambiasse la cravatta ogni giorno, che si facesse la barba e icapelli, che si tagliasse le unghie, e che ogni giorno, facesse un bagnonell'acqua fredda, che lo avrebbe certo fortificato. Era pestilenziale. Cechovla prendeva in giro, e le obbediva: «Mi sono abituato a te come se fossi unbambino — diceva — e senza di te sto male e ho freddo». Lei rispondeva: «Cometi abbraccerò, con quali occhi ti guarderò ed esaminerò in ogni particolare ilmio meraviglioso marito».
***
Tutto precipitò. In pochi mesi, i lineamenti del meraviglioso marito dalla«barba bionda» s'incupirono. La tubercolosi s'impadronì del suo organismo,senza lasciare nulla d'intatto o d'incolume. Cechov era soltanto un sistematubercolotico: tossiva, sputava sangue, stava male di stomaco, soffriva didiarrea, non aveva fiato. Vestirsi lo faceva ansimare. Il peso di un cappottosulle spalle gli pareva insopportabile. Se faceva quattro passi nel giardino,doveva arrestarsi, senza fiato, con le orecchie ronzanti. Se gli altri loavevano sempre divertito, ora si sentiva disperatamente solo: solo, seduto nelsuo studio, o disteso su un divano, come se fosse già nella tomba. Quando gliamici cercavano di rallegrarlo, stava in silenzio, tossicchiando, conun'espressione tetra, e ascoltava gli altri con un'indifferenza quasiletargica, il bastone tra le ginocchia, lo sguardo perduto nelle lontananze. Scrivevasei righe al giorno con immensa fatica: gli sembrava sommamente inutile farlo,e non riusciva a esprimere i suoi sentimenti. Avrebbe voluto smettere persempre di essere uno scrittore: oppure diceva che tutto quello che avevascritto apparteneva al passato. Non sapeva quello che avrebbe scritto infuturo, e questo lo tormentava moltissimo.
In questa vita cancellata, gli restavano due desideri: avere un figlio, ecomporre qualcosa di lieto. Scrisse gioiosamente alla moglie: «Adesso ho unavoglia terribile che tu metta al mondo un mezzo tedeschino, che diverta eriempia la tua vita... Avrai un bambino che romperà i piatti, e tirerà per lacoda il tuo cagnolino e tu lo guarderai e sarai consolata». Quando il bambinoavrebbe avuto un anno e mezzo, lui sarebbe stato un vecchio curvo, con la barbagrigia e la bocca sdentata. Ma il bambino non venne alla luce.
Quanto al vaudeville, era un antico desiderio: da anni sognava di scriverequalcosa di gaio e di frivolo, una specie di farsa, con una confusione del diavolo.Così compose Il giardino dei ciliegi: ci lavorò con entusiasmo, lo abbandonò elo riprese: fu deluso e si entusiasmò di nuovo: la sua farsa gli sembròqualcosa «di smisurato e di colossale», che gli faceva paura; e alla fine,placato e gioioso, spedì a Mosca la sua commedia il 13 o 14 ottobre 1903.Voleva partire anche lui per Mosca. «Svelta, svelta, chiamami vicino a te, aMosca — scrisse alla moglie. Non ne posso più di vivere senza teatro e senzaletteratura... Non attendo che il tuo ordine di fare la valigia e di partireper Mosca. A Mosca! A Mosca! Questo non è detto da tre sorelle, ma da unmarito». Fu quasi il suo ultimo gioco.
La rappresentazione del Giardino dei ciliegi non gli piacque: secondo lui,Stanislavskij non l'aveva compreso, interpretandolo come un dramma sociale. Epoi aveva fissato la prima della commedia il 17 gennaio 1904, in onore del suoquarantaquattresimo compleanno. Lui detestava i compleanni. La sera del 17gennaio, restò a casa. Fu costretto ad andare a teatro alla fine del terzoatto, quando venne trascinato sulla scena, mentre la sala lo applaudiva indelirio. Ci furono discorsi, enfaticissimi e noiosissimi, di giornalisti,attori, presidenti di circoli letterari, che incensarono per più di un'ora unuomo che detestava i complimenti. Pallido, esangue, Cechov strizzava gli occhisotto la luce cruda della ribalta. Non riusciva a reprimere gli accessi ditosse: non sapeva che fare delle sue mani scheletriche. Dopo l'ultima ovazione,si ritirò, senza aver pronunciato una parola di ringraziamento. Stanislavskijdisse crudelmente: «Si respirava come un tanfo di funerale». Il funerale nonera lontano.
Il 10 giugno 1904, Cechov e la moglie giunsero a Badenweiler, una piccola cittàd'acque non lontana da Basilea. Il tempo era fresco e bellissimo. Dal mattinoalle sette di sera, Cechov restava nel lussureggiante giardino di villaFriederike, seduto, o a metà allungato in una poltrona a sdraio. Il sole nonbruciava, ma accarezzava la pelle. Non scriveva, non leggeva: forse non pensava;come aveva sempre sognato, Cechov era diventato un puro contemplatore, cheguardava il giardino, i fiori splendenti, le montagne coperte di boschi, ipochi tedeschi che percorrevano la strada. Forse avrebbe voluto vivere così,con gli occhi aperti sul vuoto, il pochissimo tempo che gli restava da vivere.
Qualche giorno dopo, annoiato di contemplare il giardino vuoto, Cechov andò inun albergo: stava seduto sul balcone della sua camera, e guardava, per ore, lepersone che andavano e venivano all'ufficio postale. «La salute — scrisse allasorella — torna non ad once, ma a libbre». Verso la fine del mese, Badenweilervenne assalita da un caldo feroce, e Cechov si senti soffocare. Sognò diandarsene: ma dove? Il 1° luglio sembrò star meglio: ma a mezzanotte e mezza sisvegliò e chiese ad Olga di chiamare un medico. Il dottor Schwörer arrivò alledue del mattino. Cechov si rialzò sul guanciale e disse con tranquillità grave:Ich sterbe, «io muoio». Il medico ordinò una bombola di ossigeno. Cechovprotestò: «Ora, tutto è inutile. Prima che portino la bombola, sarò uncadavere». Allora il dottor Schwörer ordinò una bottiglia di champagne. Cechovprese il bicchiere, si volse ad Olga e disse sorridendo: «È molto tempo che nonho bevuto champagne». Vuotò lentamente il bicchiere, e si distese sul fiancosinistro. Qualche istante dopo, smise di respirare.

Eremo Rocca S. Stefano  sabato 18gennaio 2014






il capoluogo | Le mani sulla ricostruzione dell'Aquila

il capoluogo | Le mani sulla ricostruzione dell'Aquila

BIBLIOFOLLIA : La morte della carta (deve ancora arrivare)

BIBLIOFOLLIA : La morte della carta (deve ancora arrivare)


«Vogliono che ceda i diritti dei miei libri in ebook e dico,al diavolo, io amo le biblioteche!»: così lo scrittore Ray Bradbury, scomparsoil 6 giugno del 2012 all’età di quasi novantadue anni. In effetti amava cosìtanto le biblioteche pubbliche da aver destinato i diritti delle sue opere informato digitale, dopo averli ceduti a Simon & Schuster, a quelle della suaadolescenza. Qualche mese prima era stato un altro scrittore, Jonathan Franzen,a mettere in guardia dai rischi di quella che ha chiamato “impermanenza” degliebook, e più in generale dal senso di volatilità connesso alla digitalizzazionedell’editoria. Per Franzen il senso di fisicità e di permanenza del librocartaceo è parte integrante dell’esperienza di lettura, e solo attraverso talepersistenza è possibile continuare ad avere principi e valori durevoli.

Non sono pochi gli autori e gli studiosi che negli ultimianni ci hanno ricordato come i mutamenti nelle tecnologie della scrittura sianoda sempre collegati a svolte epocali nella storia della cultura. A questi si èaggiunto Alessandro Ludovico, fondatore di Mag.Net e Neural.it e ricercatorepresso il centro Creating 010 della Hogeschool Rotterdam, con il testopubblicato un anno fa nei Paesi Bassi, Post-Digital Print. Il ragionamento diLudovico parte da una constatazione: la normalità del digitale nelle nostrevite. Nel mese di maggio dell’anno scorso, a pensarci, le vendite di musica informato esclusivamente digitale hanno superato per la prima volta quelle di cde altri supporti fisici. Per musica, immagini, film e serie tv, pratiche comestreaming o download sono ormai la prassi, suggerisce Ludovico, ma per il mondodei libri e delle riviste il cambiamento è appena iniziato. Le nuove tecnologiecol tempo rimpiazzeranno dunque anche la carta stampata? Stando ai dati dimercato, che vedono l’editoria cartacea in flessione e la diffusione di ebookin aumento, sembrerebbe di sì. Se si pensa all’abbandono, dopo 244 anni, dellaversione stampata da parte dell’Encyclopaedia Britannica, o a quel che stasuccedendo nelle scuole di tutto il mondo, la conclusione potrebbe sembrare lastessa. In realtà la risposta non è così semplice.

La morte del libro è stata annunciata più volte nel tempo daletterati, scienziati e artisti. Nel 1894 in Francia viene pubblicata una storiaillustrata (La fin des livres, di Octave Uzanne e Albert Robida) che raccontadi un mondo in cui i contenuti dei libri vengono fruiti in spazi pubblici eprivati attraverso una sorta di piattaforma ‘on demand’, capace di offrireriproduzioni vocali in tempo reale o registrate. Biblioteche trasformate in“fonografoteche”, grammofoni miniaturizzati, riproduttori sonori di opereletterarie a monete sparsi per le vie cittadine (a qualcuno verranno in mentegli audiolibri, più noti sul mercato anglosassone ma in crescita anche inItalia), e autori che diventano di fatto editori di se stessi. Anche lecartoline futuristiche dell’artista francese Villemard, del 1910, raffiguranola sostituzione del medium cartaceo con altri media, ad esempio attraverso larappresentazione di studenti intenti ad ascoltare lezioni mediante rudimentaliauricolari connessi a macchine mangialibri.

Nei primi anni Trenta a parlare esplicitamente di libri come“contenitori antiquati di parole” e di “parola scritta non al passo con itempi” è Bob Brown, ideatore di una macchina pensata per la rapida riproduzionecinematica di testi miniaturizzati. Nei Readies for Bob Brown’s Machine,pubblicati nel 1931, compaiono testi scritti appositamente per la sua macchinada poeti come Gertrude Stein, Filippo Marinetti, Ezra Pound e William CarlosWilliams. Ludovico, nel ripercorrere questi e altri importanti passaggistorici, ricorda le dichiarazioni sulla fine dei quotidiani cartacei delloscrittore H.G. Wells, convinto nel 1940 che i giornali fossero “mortistecchiti”.


Il libro è obsoleto” è anche una delle celebri massime diMarshall McLuhan, il letterato canadese che ha dedicato la sua vita ariflettere su vecchi e nuovi media. McLuhan negli anni Sessanta opponeva lalentezza del medium cartaceo alla rapidità della comunicazione radiotelevisiva,non volendo automaticamente decretare la morte della stampa. Scrive infattiLudovico: “il nuovo processo di globalizzazione ha incorporato gradualmenteanche la stampa, trasformandola ancora una volta”. La tesi di Post-DigitalPrint è che a garantire la sopravvivenza della stampa sia stata la sua continuaevoluzione, forzata dalla comparsa di nuovi e più rapidi media.

Dalle avanguardie storiche alla underground press, fino aBorges che nel suo Libro di Sabbia del 1975 immagina un libro senza principioné fine, composto da un numero infinito di pagine numerate arbitrariamente,qualcosa che oggi a noi ricorda molto da vicino l’idea di ipertesto digitale.Ed è proprio sulla differenza tra ciò che la carta può e non può fare rispettoal digitale che ruota il ragionamento di Ludovico: “il ruolo della paginastampata – scrive – è radicalmente mutato, da medium prevalente diventa mediumcomplementare”.

A ridefinire il nuovo ruolo della stampa contribuisce oggi,in modo neanche troppo paradossale, la rete. Motore di innovazione e produzionedi cultura in ogni ambito, il network è anche alla base della trasformazionecontemporanea dell’intera filiera editoriale. Il new digital publishing è unfenomeno culturale che prende corpo nei mutamenti che riguardano distribuzione,librerie, biblioteche, recupero di testi antichi, autopubblicazione e stampa ondemand, modelli alternativi di vendita di prodotti stampati, anche attraversomezzi digitali (come il “Search Inside the Book” attivato da Amazon nel 2003per incentivare la vendita di libri cartacei). La stampa è sì “minacciata”dalla digitalizzazione dei testi e dal cambiamento delle abitudini deiconsumatori, ma al contempo viene rivitalizzata e ha ancora un ruolo nellanostra “era immateriale” (ad esempio per edizioni limitate, per l’archiviazionea lungo termine e la memoria, legate alla natura statica del libro, o per ivantaggi della carta rispetto ai sistemi chiusi e proprietari di letturadigitale). Qualcosa di simile rileva anche Ted Striphas nel suo The Late Age ofPrint, nel sottolineare come i libri, persino in un mondo che diventa semprepiù digitale, siano tutt’altro che morti. È forse questo il senso delle paroledi McLuhan sulla natura del libro: “obsolescenza non significa estinzione:piuttosto il contrario”.
di Mario Pireddu  http://ltaonline.wordpress.com

Eremo Rocca S.Stefano sabato 18 gennaio 2014





sabato 4 gennaio 2014

VERSI D'ALTRI E ALTRI VERSI :Patrizia Cavalli: tentazioni

Patrizia Cavalli: tentazioni: fotart Quante tentazioni attraverso nel percorso tra la camera e la cucina, tra la cucina e il cesso. Una macchia sul muro, un pezzo...