venerdì 30 aprile 2010

HISTORICA. LUIGI DI RUSCIO : Le streghe s'arrotano la dentiera. - Prima parte -

HISTORICA . LUIGI DI RUSCIO : Le streghe s’arrotano la dentiera
- Prima parte –

Luigi Di Ruscio ha compiuto ottant’anni. Da molti, molti anni vive in Norvegia da emigrato “ secondo un senso geografico che appartiene ai viaggi perduti di tanti lavoratori della nostra penisola.”Operaio in Scandinavia non si è fatto confondere nemmeno dalla solitudine e se ha tradotto i versi di Ibsen:
“Vivere è la lotta con i mostri
nel profondo del cuore e del cervello
scrivere è tenere
giudizio finale contro se stessi”
ne ha scritto di suoi bellissimi, almeno a mio giudizio, contenuti in quella raccolta intitolata. “ Le streghe s’arrotano le dentiere” pubblicata da Alberto Marotta Editore nel 1966.
Luigi Di Ruscio è nato a Fermo nelle Marche nel 1930. Ha compiuto studi da autodidatta fin dall’elementari. Nel 1952 ha pubblicato a Milano un’altra raccolta dal titolo: “ Non possiamo abituarci a morire “ con prefazione di Franco Fortini.l
E’ poi emigrato in Norvegia dove ha lavorato come operaio metallurgico.
Scrive di lui Salvatore Quasimodo :” Le poesie di Luigi Di Ruscio seguono le soste dei lunghi soggiorni nei parks della miseria.Così per lui non possono avere importanza di locandine turistiche i colori dei paesi ,le pallide marine rugose… E ugualmente non ha valore toccare il reale poiché l’esatta espressione del Di Ruscio avviene proprio nelle indifferenze per la realtà cioè per tutto quello che è letteratura o censura perifrastico-sociale….”.

“…Di Ruscio inventa dunque nelle sue poesie ogni momento la sua esistenza.Egli sembra mettere assieme le parole con la metodica faticosa di come da operaio metteva assieme i mattoni. Va contro le leggi del discorso e le sue composizioni sono quasi dei maudits.E’ comunque una formica nel formicaio del nostro tempo,un’ape nell’alveare del nostro tempo , ma ha una richiesta irrinunciabile da fare . vuole sempre sapere, vuole essere messo al corrente del fine e del prezzo del suo lavoro. (…) Un salario affettivo che sia in accordo con la perfezione delle macchine (ma sono perfette le macchine?),una ricerca nella quale non si rincorrono finalità morali assolute ma solo le domande minime sul

senso di una esistenza da operaio. Domande che diventano quasi una valvola di sfogo , una spia rossa della resistenza organica alla fatica quotidiana ,il supporto perché ci si possa reggere ancora in piedi. Una vita tra le paure dell’adolescente , l’ansia del giovane per le paure della guerra ,la fatica da operaio nella maturità,l’esperienza di emigrante in Norvegia…”
“.. Non si distrae Di Ruscio nel raccontare queste cose nelle sue poesie e non crea la pagina da concerto da auditorium piuttosto il finito senso di una vita passata senza poter scegliere, nel senso sartiano della parola, rassegnato a vivere la vita passando gli anni con la partita a tresette ma anche con la voglia di viverla in un altro modo senza più speranza di riuscirci: “ a volte la vita la prendo in pugno,per poi ritornare ad essere questa controfigura di uomo”.

Da Le streghe si arrotano la dentiera

1.
Per la gatta in calore
le cavalcate dei gatti sopra i tetti
e l’allegria cancella le crepe delle case
la luna è insieme ai canti dei galli
il fischiare è questo voler ammutire i cani
che abbaiano e si agitano come volessero addentare
il vento di questa notte che porta l’odore della cagna
la luna passa tra le nubi e dà luce a occhiate
e cosa dovrei decidere in quest’ora di notte
che non giunge mai al suo termine
i pensieri s’attaccano ai muri e alle pietre
le streghe s’arrotano le dentiere sopra i tetti.

2.
Ha un numero di anni che non si contano
perché per il cantiere non si può passare
i sessant’anni
e lui deve aver falsificato le carte
ha fatto la guerra mondiale d’ardito
e racconta la vita degli assalti,
come prendere le donne e i fiaschi di vino
lasciando sui tavoli al posto dei soldi
le bombe a mano
e l’Africa ha avuto la sua fatica e la sua guerra
e tutto racconta del sole e del vento
e per ogni cosa dà la sua sentenza
parla con calma e il vino comincia a lasciarlo
da parte
perché dice che vuol fare la nuova guerra
e non prende pensione perché in guerra non si
mettono marchette
e per rimanere invalido occorre avere fortuna
trovare un proiettile savio che spacchi qualche osso
ma non è una fortuna che capiti a tutti
e la fortuna l’ha persa tutta nascendo.

3.
Mangia in estate pomidori in inverno patate
conosce la carne alle feste comandate o quando
mietono o battono
i porci li para tirando pietre precise sulle groppe
correndo sul campo di foraggi
scopre i nidi degli uccelli e delle serpi
mette i lacci sui fossi per gli uccelli assetati
alla sera sta silenzioso con gli occhi pieni di sonno
sente i discorsi dei grandi e certi pensieri li fissa
nel cervello
l’ulivo è come l’uomo
soffre il caldo in estate e in inverno la tramontana
e pensa metà del sonno all’uomo e all’ulivo
all’olio che sta tra le parti del pomodoro
in cui inzuppa la mollica del pane
scacciando le mosche stancamente perché è l’ora
del sonno
appoggia sulla coscia della madre la testa
dove ora le mosche possono fermarsi
non hanno più la mano veloce che le prende a volo
e gli stacca le ali per farle continuare a vivere
come un verme che la gallina becca.

4.
In questa strada ho cercato le prime parole
visto l’elmetto tedesco e lo scoppio delle bombe
case sventrate e notti sommerse nella paura
le immagini delle madonne trafitte
e cristi spaventosi gessi macchiati di sangue
le dure popolari di mio padre e brillava la marca
rossa
l’affanno che colpiva la mia gola la stretta nausea
sono cresciuto tra queste mura che s’alzano murate
con la terra
con l’erba murana che s’arrampica tra le screpolature
con i cardi sui cigli delle strade
dove camminava una morte tedesca o alleata
e non vi era neppure il tempo per piangerli i morti
e l’oscura fede che si faceva materiale
al fischio clandestino di bandiera rossa.

5.
La notte si chiude
con l’ultimo tram che fa tremare le case
e il miagolio dei gatti rimane nella memoria
tutte le immagini della giornata tornano
vorrei ancora goderli questi momenti
contemplare con calma tutte le immagini
le voci della strada hanno suoni inarticolati
forse è un uomo che traballa
e discute con nemici ignoti
e fa gesti con le mani per tutto avere
e non ha che l’aria
la luna impassibile
sembra che ascolti ogni nostra parola
che spii i sogni più intimi
quando sono liberati i nostri mostri
e dobbiamo correre.

6.
Oscillavano le cotte e le bandiere s’afflosciavano
i contadini che vanno alla confraternita
per avere la tomba
per non finire anche morti nella terra
intonavano gli inni dei riti
poi i cardinali e i nobili vestiti di nero
e la celere perché la folla non si confonda con loro
non si devono confondere dobbiamo vederli
sfilare soli
dobbiamo ancora soffrire in questa lotta
che ci fa impazzire

poi la madonna questo dolore che fa piangere ma
non ci ferma più
la folla che avanza se la porta come un fuscello
e la celere la folla che trabocca non la sostiene più
i cardinali se non vorranno essere pestati dovranno
correre
come un fuscello la folla porta la madonna
questo dolore che non pesa più.

7.
Ancora attendere con la fumata di tabacco puzzolente
il trinciato forte che arrotoli con calma
nella leggera cartina
nella strada dei sambuchi con gli odori dolci
della primavera
con i tulipani rossi che infioccano i campi di grano
tra la mosca e la zanzara petulante
in questa strada che diventa torrente quando disgela
all’acqua che sazia tutte le terre e i mattoni delle case
la gallina svolazza nell’aia sul primo fieno falciato
una volta d’uccelli tra i rami della quercia
che rinfoltito i rami e coperto i nidi scassati
dall’inverno
seduti sull’orlo di questa strada aspettiamo l’ultima fumata
aspettiamo di buttare l’ultima cicca.

8.
Passiamo gli anni con la partita a tressette alla sera
e le parole che si ripetono sempre sulle carte giocate
oppure camminare nella notte
dicendoci quello che abbiamo di più intimo
pensando al futuro come fanno i ladri con i loro piani
discutiamo il mondo cerchiamo la prova
dell’esistenza
ogni tanto qualcuno parte su piroscafi luminosi
qualcun altro va volontario o ad emigrare
nelle miniere belghe
e chi non ha migliaia di chilometri di mare
e la miniera neon l’avrà inghiottito
ritornerà come ritorna il militare con la valigia
piena di malinconia
qualche altro va a Roma con lettera a mano
si raccomanda al commendatore e al deputato
che cambiano una lettera con un’altra lettera
dorme in dormitori pubblici e mangia pane
e polvere
rincammina il giorno appresso su questa Roma
ubriacata
gli altri continuano a camminare per il paese
in tutti i sensi
ricordando i nomi delle costellazioni.

9.
Le ore sei sono l’inizio della nostra giornata
noi siamo l’inizio di tutti i giorni
inizia il giro delle ore
sulla trafilatrice che mi aspetta con la bocca
spalancata
inizia la mia danza e il mio spettacolo
in certe ore della giornata
entra nel reparto la chiarezza del sole
e per poco lo sporco nostro
è schiarito come nelle immagini dei santi
rubo il tempo per la fumata che raspa nella gola
spio come un ladro i minuti sul quadrante
dal grande occhio
pensieri dietro pensieri, una recita dietro una recita
poi calcolando gli istanti dentro un istante benedetto
ci scuote l’urlo della sirena
ci attende il riposo per la sveglia di domani
la suoneria che entra dentro i sogni esplodendoli
così per tutti i giorni della mia esistenza
con l’allegria fuori della mia ragione.

10.
Quando ho scoperto mio padre che guardava le formiche
il sole spaccava le pietre e intontiva i muratori
senza cappello di carta
una buca scura intorno granelli di terra impastata
e il brulicare delle formiche con troppo grandi

semi nella bocca trascinati
e mio padre con schifo ha strisciato il piede
sul nido
così ho imparato a guardare le formiche e ad avere
questo schifo
di umano in mio padre vi è solo questo astratto
schifo
questo assalto dei sensi della nullità che mio padre affoga
con la partita a stoppa contata con acini di fava
e ogni vittoria e ogni perduta salutarla di vino
e la sbornia gli porta una sorta di furore disperato
e scaraventa piatti e bicchieri contro il muro
e si condanna in questo furore e nel tacere
e nella fatica che è una battaglia già perduta
senza senso né scopo
mio padre ha scoperto nella formica la sua immagine
e la distrugge

il vino la fatica e il fumo alla notte gli scassano
il petto
con una tosse paurosa che è stata presente in tutti
i nostri sonni
distrugge ogni giorno la sua vita con una seire
lunga di anni
tropo forti per essere distrutti troppo presto
questo vizio di guardare la formica ha perduto
mio padre
vive sulla terra in perfetto rancore
la sua forza la sua terrestrità l’ha sdoppiato
e tutto a mio padre è divenuto perfettamente inutile
è rimasto il sapore della stoppa, il furore che attacca
il cervello
così anche a me la formica mi dispera
vivo in questo formicaio imparando a distruggere
me stesso con rabbia
perché di tante bandire mi è rimasto mio padre
che distrugge preso da schifo la laboriosa formica.

Eremo Via vado di sole L'Aquila. Venerdì 30 aprile 2010

mercoledì 28 aprile 2010

HISTORICA : GIOVANNI QUATRARIO

HISTORICA : GIOVANNI QUATRARO

UN UMANISTA DEL 1300 RACCONTA COME SPROFONDO' LA TERRA

"SULMONA QUEL GIORNO RIPOSAVA SOTTO UN'ALTA COLTRE DI NEBBIA"
Giovanni Quatrario vide morire anche sua sorella
Tra i maggiori umanisti sulmonesi, Giovanni Quatrario (1337-1402 o 1404) era adolescente quando fu testimone del terremoto del settembre 1349 e lo descrive con rara intensità, per aver visto il dramma che viveva la madre: “Obruta Sulmo iacet nebulis contexitur altis” è il primo verso che riguarda la descrizione, contenuta nel “Carmen maternum”. “Sulmona quel giorno riposava sotto un’alta coltre di nebbia quando si alzò un boato e la terra si preparò a sprofondare. Timorosi ci riversammo in luoghi aperti, impediti nell’andare dalla nebbia, riuscimmo a scorgere solamente le nubi di polvere attorno alle cose.

Tu, priva degli usuali ornamenti femminili, in mezzo alla polvere ricontasti i tuoi figlioletti, mancava la tua bella figlia che giaceva ormai sotto le macerie, gridavi il suo nome mentre la terra che ancora tremava non riusciva a trovare pace e tutti noi credemmo di scendere quasi fino alla palude Stigia. La gente spaventata scappava senza meta mentre intorno gli edifici crollavano colpiti dal terremoto fino alle fondamenta. Cercavi con lo sguardo la casa nel posto a te ben noto, ma ormai essa era un cumulo di calce e pietre e un groviglio di travi di legno divelte. Anche la tua forza d’animo rimase schiacciata da tale sofferenza; chiamavi a gran voce nella speranza che qualche posto o una qualche cavità nascondessero la tua cara figlia, anche se in fin di vita; ora gridando e ora in silenzio ti aggiravi tra i meandri delle rovine per tentare di percepire un qualche lamento, ma le Parche avevano tagliato rabbiosamente il filo della vita di tua figlia.
Un peso più gravoso si aggiunse a quella terribile perdita, né le parole riuscirebbero a descriverlo nella loro essenzialità: il corpo di tua figlia giaceva in mezzo alla polvere color argento. Ahimè quante lacrime provocò in te quel corpo martoriato !”
(Da “Civiltà letteraria abruzzese” di Carlo De Mattheis, Textus, L’Aquila, 2001, pag. 110)

Eremo Via vado di sole, L'Aquila. mercoledi' 28 aprile 2010

EDITORIALI 1 : Una politica staccata dalla realtà

EDITORIALI : Una politica staccata dalla realtà
Mauro Calabresi su La Stampa di sabato 24 aprile 2010

La notizia che ha colpito di più gli italiani questa settimana è stata la morte a Ventotene di due ragazze di quasi 14 anni schiacciate da un masso. Il mondo politico, concentrato sullo scontro senza precedenti tra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera, non se ne è neppure accorto. Ma i sondaggi, che commissiona quotidianamente, lo hanno ricordato ieri mattina a Berlusconi prima che entrasse in Consiglio dei ministri per essere investito dalle minacce di una crisi di legislatura lanciate da Bossi. Archiviate le elezioni regionali doveva cominciare una nuova fase di riforme costituzionali e di politiche capaci di rispondere alle necessità di un’Italia a cui mancano una bussola, una prospettiva e un disegno di largo respiro. E a cui manca una politica di difesa e di messa in sicurezza del territorio, che risolviamo con il suo contrario: i condoni.

C’era la promessa di occuparsi di federalismo, di tasse, dei costi della politica, dell’efficienza della giustizia e del rilancio dell’economia. Si ragionava sul fatto che finalmente c’era tutto il tempo - addirittura tre anni senza elezioni di portata nazionale - per affrontare nodi irrisolti da decenni. Invece si discute addirittura della possibilità di elezioni anticipate e lo slancio riformista sembra già miseramente crollato. Difficile aspettarsi che i cittadini comprendano le ragioni per tornare alle urne, più facile immaginare che il numero dei disillusi e dei disgustati cresca ancora. Alle regionali quattro elettori su dieci sono rimasti a casa o hanno lasciato la scheda bianca, ma quanto deve ancora crescere l’area dello scontento per mettere in allarme una politica che ha perso ogni contatto con la realtà? Certo è assai improbabile che si vada al voto già questo autunno - i tempi per farlo prima dell’estate non ci sono - e allora viene da chiedersi cosa dobbiamo aspettarci da questa legislatura. Il tentativo di riformare globalmente la Costituzione è già fallito tre volte e i presupposti inpassatoeranoassaipiùforti.

Come pensare che possa riuscirci un Parlamento in cui maggioranza e opposizione non trovano nessun filo di dialogo e in cui la maggioranza stessa è impegnata in un duro regolamento di conti interno? Vennero affondate la commissione Iotti e la bicamerale di D’Alema, nonostante un clima bipartisan che portava a scommettere sulla loro riuscita, così come furono gli elettori a bocciare, con un referendum, la riforma federalista approvata a maggioranza dal centrodestra nella penultima legislatura. Nelle ultime settimane il dibattito si era acceso immaginando di dare all’Italia un Presidente eletto direttamente dai cittadini, ogni giorno però cambiava il modello straniero di riferimento, adesso sembra già tutto svanito. Sulla scrivania del Capo dello Stato, al Quirinale, è ancora appoggiata la cartellina gialla con la dicitura Presidenza del Consiglio dei ministri che Roberto Calderoli ha lasciato a Giorgio Napolitano. Quella cartellina, che contiene una bozza di riforme, doveva servire a far decollare il dibattito, invece è servita a farlo precipitare.

La cartellina gialla infatti è stata la goccia che ha scatenato l’ira di Gianfranco Fini nemmeno avvisato della visita al Quirinale del ministro leghista. Il presidenzialismo, poi, sembra già non interessare più né al premier che negli ultimi giorni ha confidato di averlo lanciato per provare a stanare proprio Fini (che dell’elezione diretta aveva fatto una sua storica bandiera), né alla Lega realmente interessata solo al varo del federalismo fiscale. Viene da chiedersi adesso perché proprio da lì si era pensato di cominciare. Il Capo dello Stato, in tempi in cui anche i presidenti di Camera e Senato si sono gettati nella mischia politica, sembra essere l’unico punto di riferimento istituzionale, l’unico che non partecipa alle risse, che non grida e non minaccia. Penso che così si spieghi perché nei sondaggi continua ad avere l’indice di gradimento e di fiducia più alto.

Eliminare quella che appare come l’ultima figura di garanzia del Paese, per trasformarla con l’elezione diretta nella massima espressione di una parte, non sembra un’idea geniale di questi tempi. Bisognerebbe prendere atto che non esiste un clima da Grandi Riforme, che non c’è più tempo da sprecare in dibattiti sterili, e mettere a fuoco riforme mirate puntando su quelle su cui è possibile raccogliere un consenso più ampio, su passi capaci di dare segnali positivi al Paese. Si dovrebbe avere il coraggio di discutere di cosa ha bisogno l’Italia, su quale ruolo vuole avere oggi in un mondo che è cambiato drammaticamente. Alla politica si chiedono certezze, stabilità, la capacità di non farci sconfiggere dalle sfide globali. Invece siamo qui a guardarci l’ombelico, a preoccuparci delle insegne dei negozi, a mettere in competizione gli insegnanti nati a cento chilometri di distanza, a pensare di chiuderci all’interno delle nostre regioni, dimenticando che il mondo corre e può tranquillamente passare oltre. Nel 2009 in Francia i turisti cinesi hanno speso il doppio di quelli americani e a Parigi si costruiscono in gran corsa alberghi per ospitare i nuovi ricchi orientali. Più che il dialetto lombardo dovremmo far studiare ai nostri figli il mandarino e chiedere ai nostri politici di indicarci le opportunità del mondo nuovo e preparare il Paese a prenderle al volo.

Fotocollage di Valter Marcone e litografia di Veronesi

Eremo Via vado di Sole , L'Aquila, mercoledì 28 aprile 2010

martedì 27 aprile 2010

BIBLIOFOLLIA : IL LETTORE INNAMORATO

BIBLIOFOLLIA : IL LETTORE INNAMORATO


Io lettore. Portavoce della malinconia delle lontane radici dell’uomo,di storie di costumi , tradizioni e uomini e donne e creature di questa terra che leggo nei libri e che rischiano di essere soffocate se non vengono traghettate di nuovo nella vita (perché dalla vita arrivano anche inconsapevolmente nel momento in cui vengono racchiuse nei libri). Io lettore. Io lettore innamorato mi permetterò alcune cose come un innamorato che sta fuori testa a causa del suo amore. Mi permetterò in questa “Bibliofollia” anche di scherzare con il fuoco delle tragedie o di ridere a crepapelle o di intristirmi o di divagare o di pensare o di “sentire”.


Solista, duettante o direttore d’orchestra ,come lettore mi interessa mescolare e tendere ad un geniale meticciato delle idee, delle cose, delle arti , mestieri, codici, culture, scritti, suoni,immagini..
Così con Bibliofollia nasce la passione per una rapsodia che esplora le lontananze. Nasce un amore per gli incontri impossibili ,un contatto tra destini inespressi e anche a volte espressi in musiche, parole e immagini e in quant’altro ancora..
Sono dunque queste le storie degli arrangiamenti, dei prestiti e delle restituzioni,del nascere e del crescere,dell’andare e del tornare, del domandarsi e del rispondere , del camminare e del sostare tra i libri e la loro lettura.E’ questa bibliofollia?Ma di che bibliofollia si tratta? Di una finzione o di una funzione. Una finzione.



Tutto per i libri , tutto a causa dei libri , tutto nei libri. Scrive Julies Vallès in Le vittime du livre: “Nessuna delle nostre emozioni (noi lettori ndr) è autentica. Gioie, dolori, amori e vendette ,i nostri singhiozzi , le nostre risate , le passioni, i delitti , tutto è copiato ,tutto! In questo consiste il libro L’inchiostro galleggia su questo mare di sangue e di lacrime. Questo è spesso allegro o triste. Ma attraverso le rovine, i fiori ,le esistenze mancate, le morti provocate, il libro, sempre il libro […] La cortigiana ha Manon Lescaut , Leonie Chereau copia la Signora delle Camelie , Angelina Lemoine legge Marion Delorme ed anche Madame La Fargue aveva fatto le sue brave letture. Tutte le donne che hanno un po’ avvelenato il marito , gettato alle fiamme il figlio , sono vittime del libro. Così ogni assassino in redingote ,ogni suicida in camice da lavoro tutte vittime del libro.”E provate ad abbinare il nome di un politico con un libro, il nome di un uomo dello spettacolo o della cultura ad una storia raccontata dai libri. Da Omero a Camilleri incluso.
La scrittura può sottrarre o aggiungere , può pregiudicare le esperienze come incrementarle e stravolgere l’identità: personale, di gruppo, di vicinato, di partito e via dicendo .

Povero me. Attento lettore innamorato come me. Tanto più leggiamo tanto più i libri ipotecano la nostra esperienza e ci procurano sapere e sensazioni fittizie.
Allora “Bibliofollia “, bibliofollia è questo amore per i libri. Anche Julien Sorel il protagonista di Rosso e Nero di Stendhal è spiritualmente preda di un testo modello.
Qual è il mio testo modello, qual è il vostro? O signora della porta accanto il tuo è Madame Bovary? .
Ahi quale amore folle ci siamo scelti. Leggere storie e racconti immaginari ci fa diventare pazzi, visionari . Innamorati visionari, ma anche innamorati ladri, innamorati assassini come tutti quelli come noi di cui racconteremo in Bibliofollia la storia. Questo è Bibliofollia che andiamo a incominciare appalesando qualche sintomo per farci riconoscere :” Lettori e lettrici che si alzano e si coricano con un libro in mano , ----come ricorda Rudolf Gottlieb sacerdote di Erfurt nel 1796 — ci si siedono a tavola , lo tengono accanto a sé sul posto di lavoro, lo portano a

passeggio e non sanno più separarsi dalla lettura una volta incominciata fino a quando non l’hanno terminata. Non hanno ancora trangugiato l’ultima pagina del libro , che già si guardano intorno avidamente , dove è possibile procurarsene un altro; e se su una toilette , un leggio o altrove ne intravedono qualcuno che riguardi il loro campo o che si presenti leggibile per loro lo afferrano e lo divorano con una sorte di bulimia”
Ma basta esternare sintomi altrimenti qualcuno ci riconosce troppo presto, a prima vista . E che diamine facciamolo aspettare, lavoriamo ancora un po’ in incognito , restiamo nell’ombra ,facciamo attendere chi legge. O tu che leggi, se sei come noi ci hai già riconosciuto, nulla ti può essere nascosto: vieni allora nella confratria , ti aspettiamo. Tu che non ci hai ancora riconosciuto continua a leggere , sei sulla buona strada per accomunarti a noi.

Eremo Via vado di sole , L’Aquila, martedì 27 aprile 2010

domenica 25 aprile 2010

SETTIMO GIORNO . Il popolo di Dio.

SETTIMO GIORNO : Il popolo di Dio

Ad Antiochia di Pisidia, Paolo e Barnaba respinti dai Giudei si rivolgono ai Gentili ovvero ai pagani.
In quella città “ Molti Giudei e proseliti credenti in Dio seguirono Paolo e Barnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio “ ma i Giudei, come prosegue il brano degli Atti degli Apostoli ( 13,14 ,43-52) ricolmi di gelosia contrastavano con parole ingiuriose Paolo.
“ Allora Paolo e Barnaba con franchezza dichiararono ‘ era necessario che fosse proclamato prima di tutti a voi la parola di Dio ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco:noi ci rivolgiamo ai pagani . Così infatti ci ha ordinato il Signore; Io ti ho posto per essere la luce delle genti ,perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra ‘ Nell’udire ciò i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero”.

Si delinea così nell’individuazione del popolo di Dio una chiave di lettura dell’intero Antico Testamento nel quale appunto si narra l’incontro di Dio con il suo popolo. Un popolo che egli si è scelto , con il quale ha stabilito un patto di alleanza per i secoli , a cui appunto nei secoli è restato fedele. Il popolo di Dio qui è un popolo nuovo,il popolo dei pagani, visto che i Giudei non l’hanno accettato e riconosciuto e il compito degli apostoli è dunque quello di portare il Vangelo, la buona notizia, fino ai limiti del mondo.
Grande fu infatti il desiderio di Paolo di andare fino in Spagna perché a quel tempo in quella terra, allo Stretto di Gibilterra chiamato Colonne d’Ercole era posto il limite del mondo, il mondo sino ad allora conosciuto. La salvezza allora portata fino all’estremità della terra.

D’altra parte se riflettiamo sull’espressione “ vita eterna” non possiamo non affermare che la vita eterna consiste nell’ascoltare e mettere in pratica la parola di Dio che è luce ai nostri passi . Di un Dio buono il cui amore per il suo popolo è per sempre dimostrato dalla sua fedeltà di generazione in generazione.
La vita eterna è l’affermazione dunque della testimonianza della parola e alla parola e comincia proprio ora e qui . Come è cominciato non da ora e non solo da qui la presenza di Dio nella storia dell’uomo . La storia di una umanità che letta in modo immantinente o sentita raccontare dai mezzi di comunicazione di massa può creare qualche disorientamente e porre delle domande a cui è a volte difficile dare delle risposte. Risposte che si risolvono tutte nella certezza di una presenza di Dio nella storia di cui egli stesso non può che essere il compimento.

Una storia compiuta nella quale ci viene presentato ,per la seconda volta, il popolo di Dio che nella narrazione dell’Apocalisse di San Giovanni Apostolo ( 7,9 – 14b – 17 ) sta “ davanti al trono di Dio e gli presta servizio giorno e notte nel suo tempio ; e colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro”.” E’ un popolo affrancato perché “ non avrà più fame e sete , non lo colpirà il sole, né arsura alcuna,perché l’Agnello che sta in mezzo a quel popolo sarà il suo pastore.”La condizione essenziale di quel popolo , dell’essere appunto popolo di Dio, è però quella di venire da una grande tribolazione e di aver lavato la veste rendendola candida nel sangue dell’Agnello : Gesù l’Agnello immacolato.

E’ infine un popolo come gregge di un pastore buono che ha cura delle sue pecore (Giovanni 10, 27-30). Infatti racconta Giovanni “ Gesù disse le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date , è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola.”
Un popolo che appartiene al Padre e che lo ha dato in cura al figlio perché abbia la vita eterna. Un popolo che comprende Giudei e Gentili ovvero pagani che vive sulla terra fino ai suoi estremi confini.
Un polo che conosce il suo Dio , pecore che conoscono il loro pastore e ascoltano la sua voce.
Giovanni nel parlare di conoscenza usa l’espressione greca che sta a significare entrare dentro, compenetrare , conoscenza appunto che secondo la radice della espressione ebraica sta a significare proprio l’atto d’amore più intimo di una coppia.

Conoscere dunque il pastore buono. Buono che , ancora nel vocabolo greco usato nel racconto è calos ovvero anche bello .La bellezza di un Dio e di un popolo in cammino verso una profonda unione con il suo Dio che è sorgente di ogni bene ed il datore di ogni dono.
Il dono della vita eterna in un regno che invochiamo ogni volta nel Padre nostro che hanno inizio però già nell’esperienza umana e terrena di questo popolo perché entrambe non sono altro che la conoscenza della parola di Dio attraverso la testimonianza di ogni giorno alle cose della terra, attraverso suo Figlio , Gesù Cristo che è una cosa sola con lui.


Eremo di Via Vado di sole. L’Aquila . Domenica 25 aprile 2010

sabato 24 aprile 2010

COLORARE I COLORI : AZZURRO

COLORARE I COLORI : AZZURRO

Si dice “ vivere la vita “ , “ una vita vissuta” e “ sognare un sogno” o ancora poeticamente “ amare l’amore”. Ma si può dire “ colorare i colori “?
Alcuni colori sono aggettivi . Così si dice : bandiera rossa o bandiera bianca che a loro volta assumono significati più completi ,esempio bandiera bianca uguale resa. Si dice anche la fata dai capelli turchini,il cinema a luci rosse, la cronaca nera,i romanzi rosa.
Nel parlare corrente alcuni colori diventano sostantivi : i Verdi, riferito ad appartenenti allo schieramento politico che si occupa di problemi ambientali, i Rossi per dire gli appartenenti all’ex Partito Comunista Italiano o i bianchi, i neri, i gialli riferiti alle razze. Come pure ad alcuni colori è associato un certo simbolismo : rosso come il sangue, verde come la speranza.Solo per l’azzurro esiste l’equivalente celeste nel parlare comune dove bianco è bianco e nero è nero.Ed è spesso celeste il cielo,celeste l’acqua del mare , celesti i monti e per il librettista di Giuseppe Verdi anche Aida (celeste Aida). Celeste poi è sostantivo e aggettivo allo stesso modo.

Quello che noi chiamiamo azzurro ha dunque una storia lunga e complessa Spesso poi viene negato. Infatti per i greci , per Omero in particolare il mare non è azzurro: è oinoopòs (colore del vino) oppure glaukòs (verdemare ). Per Virgilio il cielo è liquidus (luminoso ).I monti non sembrano mai azzurri ma sono bianchi come il Soratte di Orazio coperto di neve o scuri per le ombre e le piante.Il latino caeruleus a cui viene “ attribuito “ il significato di “azzurro” è usato per indicare altri colo0ri della barca di Caronte per esempio, del pane rinsecchito, della corteccia della quercia, delle foglie dell’olivo,tutte cose che hanno sicuramente altro colore dall’azzurro.


E il greco kyanos e kyàneos significa sia azzurro sia, frequentemente nero.
Per l’antica leggenda gli occhi di Alessandro Magno erano di colori diversi. Tanto che Giovanni Pascoli in Alexandros dice che il condottiero giunto alla fine del mendo “ “piange dall’occhio nero come moret/ piange dall’occhio azzurro come cielo”.
Qualcuno di fronte a questa confusione avanza l’ipotesi di un certo daltonismo dei greci e dei latini. Nietzsche dice apertamente che essi sembrano ciechi a certi colori dal momento che non distinguono il blu dal verde, l’azzurro dal nero e vedono il mare di tanti colori strani.”Bruna per la distanza” è la montagna del Purgatorio di Dante.

Scrive Roberto Gagliardi esaminando la storia e il mistero di questo colore azzurro difficilmente definibile ( “Azzurro come un cocomero” in Arancia blu n.7-8, luglio 1990 pp. 42-44):
“C’è anche il fatto , chiaramente testimoniato da Plinio quando parla di Apelle, che i greci e i romani usavano una scala cromatica diversa dalla nostra, che è basata ormai sui colori artificiali prodottidall’industria chimica. I colori greci e italici sono il bianco , il nero, il rosso e il giallo: i colori della terra gli stessi che usavano gli anonimi artisti delle grette preistoriche. L’azzurro era per loro solo una sfumatura del bruno o del verde: almeno fino ad un certo tempo , il tempo dei cristiani.

Con il cristianesimo l’Occidente greco-romano entra in contatto intimo con culture che usano l’azzurro : da intendersi non come colore astratto , ma come la tinta del lapislazuli (il khesebedh degli egiziani). E per gli ebrei quel colore simboleggiava la purezza. Attraverso il mondo bizantino l’azurro, colore del cielo/Paradiso , ha progressivamente scalzato i colori della terra. Gli Arabi che hanno ereditato le associazioni culturali delle civiltà mediorientali , hanno rinforzato nel Medioevo questa acquisizione cristiana : e sia caeruleus che kyanos sono scomparsi dalle linue romanze , sostituiti dalla parola araba (lapis lazuli , “ la pietra il cui nome è lazurd”).
Così l’Occidente medievale è divenuto grande consumatore di azzurro. Si importava il lapislazuli dalle terre islamiche.. I pittori riducevano in polvere la pietra preziosa e quando dovevano fare una pittura di grande effetto, sposavano l’azzurro alla polvere d’oro. Un quadro del genere era per il committente un investimento e una ostentazione di ricchezza: lo stemma dei sovrani di Francia presentava tre gigli d’oro in campo azzurro.

C’è poi l’avvento del blu. Originariamente è un colore germanico: la parola viene da una radice blaw, che ha dato il francese bleu ,il tedesco blau, l’inglese blue. Ed è probabilmente il colore strano di cui si dipingevano il corpo i Pitti e i Germani , descritti da Tacito con meraviglia: un colore di origine vegetale ,tratto dalle foglie del guado, scuro e opaco , non luminoso come la tinta del lapislazuli o dello zaffiro. L’italiano antico lo conosce , nella forma “biavo” o “ biado” ( da cui deriva sbiadire, “lo stingersi del blu”). L’egemonia di Francia, Inghilterra e Germania nell’epoca moderna estende l’influenza della parola (blu militare, blu di Prussica), e porta ad una sovrapposizione delle aree semantiche di “blu” e di “azzurro”.

Le foto sono di Romeo Fraioli

Dall'eremo di Via Vado di sole sabato 24 aprile 2010

venerdì 23 aprile 2010

DIARIO DI UN TERREMOTO .Diario per certi versi prosa e per certi versi poesia. 1 - 2 e 3 luglio 2009

Diario di un terremoto. Diario per certi versi prosa e per certi versi poesia.1-2 e 3 luglio 2009

L’Aquila, 1 Luglio 2009

Noi vivevamo tutti assieme
nella grande casa di carta
tra gli alberi dal respiro pacato
dolce di essenze della terra
e i nostri giorni erano sazi
di beni :
Avevamo ancora paura del terremoto
E non sapevamo come fare a rientrare
in casa
che per la paura chi ormai senza casa.
Era l’estate gettata giorno dopo giorno
come un giornale antico
la prima estate senza le imposte socchiuse
al caldo delle sedie di plastica
che ti bagnano i pantaloni sulle chiappe.

Era l’estate della tinca addormentata
nelle buche di fango
e della carpa che perlustra il bordo
dei fossi
astuta quanto mai che non abbocca
appunto mai
e ci domandavamo : i pescatori
avranno fortuna stamattina ?
Massi e Cristian tornavano con le foto
sul telefonino
dove dentro ci avevano messo bestie da
mezzo metro e cinque chili.
Avranno fortuna i pescatori che sognano
L’Aquila dalle azzurre vallate
e dai torrenti e laghi verdi
di prato in prato
per l’agguato alla trota nei fossi ?

Era l’estate triste dopo il terremoto
E contavamo tra le gazzarre degli uccelli
al tramonto e il monotono sussurro
dei colombi
al mattino, i giorni tra odori di pioggia
e afe di sole.
Noi aspettavamo lo sbollire delle passioni
e la pietà delle cose per ritrovare
lo sguardo delle nostre stanze, il profumo
delle ombre quando al tramonto la luce
si fa avara
e si sente solo lo scrosciare del silenzio
per l’umiltà
del nostro quotidiano vivere.

L’Aquila 2 Luglio 2009


Ora non si può più dormire nelle tende
ora che avevamo fatto l’abitudine
a sogni dolci
e appassionati
diversi dai primi sogni nella tenda
quando vedevamo apparire all’ingresso
teste di cani
in formato diciotto pollici
ed eravamo sovrastati da un crepuscolo
di nubi blu dove Dio
s’annidava come un colombo gutturale
e una mosca caduta sul pavimento
a zampe all’aria sembrava più grande
del normale.

Ora che quei sogni avevano lasciato
il posto a sogni dolci e appassionati
ora non si può più dormire nelle tende .

L’Aquila, 3 Luglio 2009

Il terremoto ha sorpreso tutto chiuso
nella stanza.
Hanno ciecamente lottato per uscire
nella notte d’aprile
l’originale di una stampa napoletana del Decamerone,
una copia dei Canti Orfici,
una Divina Commedia e Moby Dick in testa
e poi qualche tubo di colore, una tela
bianca
un pigiama, un pennello da barba
che non so dove è finito
le musiche d’orchestra e di esecutori
solisti di tutti i ciddì.

Hanno sofferto tanto prima
di perdere la loro identità
nella fuga precipitosa per le scale
tra le porte e negli antri
come noi d’altra parte che ci siamo persi
il certificato di nascita;
il mio coraggio davanti a loro
fu dubbio fin dall’inizio,
mi ha assediato poi il turbamento
di una realtà incredibile
una città crollata le cui pietre ancora
non riesco a rivedere
e non mi fa dormire il pensiero di
scampato
anche se forse gli scampati e i dispersi
che siamo noi
hanno ancora molto da raccontare.

Non ho altro da dire in questa lettera.
Anche perché Ulisse lo scampato
ora che ci penso
non ricostruisce niente
racconta solo una storia.
Che sia così il destino e la nostra storia ora
solo quella di raccontare ?



Le foto sono di Romeo Fraioli

Dalla tenda n. 2 del Complesso "L. Ferrari" Via Acquasanta L'Aquila