LINEA D’OMBRA : La penna e il tamburo
30 agosto 2013 alle ore 20.34
LINEA D’OMBRA : La penna e il tamburo
Giorgio Mariani Lapenna e il tamburo Gli Indiani d'America e la letteratura degli Stati Uniti
il manifesto - 18 Aprile 2003
INDIANI RIBELLI AL CIECO DESTINO
Di
felicità e di uguaglianza ci parla la gloriosaDichiarazione
d'Indipendenza americana, che, però, contemporaneamente annunciala
demonizzazione e lo sterminio degli indiani. L'ultimo libro di
GiorgioMariani, "La penna e il tamburo", pubblicato da Ombre Corte
di ALESSANDRO PORTELLI


C'è
una curiosa e feconda ambiguità nel titolo dell'ultimolibro di Giorgio
Mariani, La penna e il tamburo. Gli Indiani d'America e laletteratura
degli Stati Uniti (Ombre Corte, € 13: in una collana
intitolata"Americane", diretta da Roberto Cagliero e Stefano Rosso -
tral'altro, tutti dell'equipe americanistica della rivista
"Acoma").Dunque: che cos'è il tamburo lo sappiamo, e sappiamo che
c'entra con gliindiani (Tamburi lontani...). Ma la penna? La penna,
ovviamente, è unostrumento di comunicazione che, come il tamburo, serve a
mandare messaggi. Inquesto senso, la penna è un'alternativa al tamburo,
e una sua continuazione conaltri mezzi generati dalla conquista, dalla
modernizzazione,dall'acculturazione. Ma riferita agli indiani d'America,
la penna evoca anchealtre associazioni: per esempio le penne che dalle
mie parti noi bambinistrappavamo alle galline per mettercele in testa e
giocare agli indiani (giàallora nessuno voleva fare il cowboy). In
questo senso, allora, la pennasuggerisce che anche quando si mettono a
scrivere - e con la frequenza einnovativa creatività che Mariani ci fa
vedere - gli indiani non dismettono gliabiti tradizionali e, con i
nostri mezzi, fanno i conti con l'immagine che noiabbiamo di loro. "La
scrittura", dice Simón Ortíz, grande poetaamericano del pueblo di Acoma
in Nuovo Messico, non è "un ponteattraversato, ma una parte del
sentiero, della strada, del viaggio, su cui giàcammini". Il libro di
Giorgio Mariani lo mostra con esemplare chiarezza,accompagnata ma non
offuscata da un rigore critico e da un aggiornato dialogocon la storia
della critica letteraria e le sue tendenze attuali. Ne vienefuori un
libro che è al tempo stesso militante e, nel senso migliore dellaparola,
accademico; un contributo non marginale alla nostra comprensione
dellacomplessità della cultura degli Stati Uniti.
Il libro è
sostanzialmente diviso in due parti. Come spiegaMariani
nell'introduzione, la prima mette in luce il modo in cui l'identitàdegli
Stati Uniti, non solo letteraria, "si è venuta formandocontrapponendosi
a una identità indiana", peraltro "largamenteconcepita dal punto di
vista della cultura dominante euroamericana, e legatadunque alle
immagini più o meno stereotipate che quest'ultima ha proiettatosulle
popolazioni indigene del Nord America". Qui Mariani riprendecriticamente
una decisiva intuizione di Toni Morrison. In Giochi nel buio, lagrande
scrittrice afroamericana ha dimostrato, infatti, che la
"presenzaafricanista" incombe su tutta la letteratura degli Stati Uniti,
non soloin quei testi in cui gli afroamericani sono presenti ma anche,
forsesoprattutto, dove sono cancellati. Lo stesso vale, aggiunge
Mariani, perl'altra fondamentale presenza sul suolo nordamericano, gli
indiani (e il fattoche Morrison non ne faccia cenno fa capire quanto
divisa, settorializzata, sial'identità americana anche nelle sue punte
più alte di coscienza).

Il
margine, dunque, diventa centro: gli indiani, i neri, nonsono
un'alterità occasionale, un esotismo coloristico o una minaccia
incombente,ma una condizione istitutiva del discorso dominante stesso.
Un testo americanoin cui non esistono indiani o neri è un testo
americano che ha preliminarmentecompiuto il lavoro invisibile di
cancellarli. "Non a caso", scriveMariani, la Dichiarazione
d'Indipendenza, testo fondante della libertàamericana, "menziona i
nativi esclusivamente come quegli `spietatiselvaggi indiani', scatenati
dalla corona inglese contro le colonie"; eaggiungerei che la sacra
Costituzione degli Stati Uniti d'America menziona indianie neri solo
come "all other persons", "tutte le altrepersone", conteggiate per tre
quinti nella rappresentanza elettorale deibianchi ma privi essi stessi
di voto e cittadinanza. In un discorso recente, invista della guerra
all'Iraq, citando per intero il brano della dichiarazioned'Indipendenza
(che continua: "gli spietati selvaggi la cui ben notaregola di guerra è
un'indiscriminata distruzione di tutte le età, sessi econdizioni"), lo
scrittore indiano americano Sherman Alexie diceva:"dunque gli Stati
Uniti sono stati fondati, in parte, sulla demonizzazionedei Nativi
Americani, ed è dannatamente facile giustificare lo sterminio didemoni,
no?" Io aggiungerei: non è curioso che quella gloriosaDichiarazione sia
per noi "occidentali" la affermazionedell'uguaglianza e del diritto alla
felicità, e sia per gli indiani l'annunciodella loro demonizzazione e
sterminio? Della uguaglianza e felicità di chiandiamo parlando.

D'altra
parte, un testo americano in cui gli indianicompaiono è un testo
americano che ha fatto o sta facendo il lavoro dirappresentarli come una
proiezione di sé. Nel rapido ma convincente excursussulla storia della
critica americana sulle rappresentazioni letterarie degliindiani, da Roy
Harvey Pearce a Richard Slotkin, da D. H. Lawrence a LeslieFiedler,
emerge come anche la critica al genocidio mantenga una
decisivaambivalenza: da un lato, riconosce la presenza degli indiani e
la violenzaesercitata su di loro dal progresso della civiltà
euroamericana; ma,dall'altro, li legge solo come oggetto della
soggettività dei loro distruttori,come problema per la coscienza di
questi ultimi. Il senso di colpa è alimentatodalla proiezione
dell'indiano in un passato dal quale è destinato a nonemergere perché la
sua estinzione si è già consumata o è inevitabile.
In realtà,
come Mariani eloquentemente ci ricorda, gliindiani non erano e non sono
estinti, e hanno continuato in tutto il corsodella conquista a parlare
ai loro conquistatori, anche a costo di doverlo farenella loro lingua,
nei loro termini, con i loro strumenti. Tra le grandi figurea noi
sconosciute della storia e della cultura americana, per esempio,
dobbiamoannoverare quel William Apess che sta alla storia degli indiani
un po'comeFrederick Douglass sta alla storia dei neri. Indiano Pequot (è
la tribù che dàil nome alla nave di Moby Dick) convertito al
protestantesimo, in tutta laprima metà dell'800 Apess continua a
ribadire ai bianchi la loro comune umanitàcon gli indiani, e a ricordare
all'America le sue stesse leggi, le sue stessenorme morali e religiose,
che viola brutalmente nel modo come tratta gliindiani.
Mariani
insiste giustamente sul fatto che Apess (comeFrederick Douglass) e tutte
le voci degli indiani d'America nell'800 nonrovesciano meccanicamente
il discorso della cultura dominante: se per i bianchigli indiani sono
"l'Altro", Apess, Black Hawk, George Copway, SaraWinnemucca rifiutano di
riconoscere un'alterità essenziale nei bianchi mainsistono a rivolgersi
ad essi come esseri umani simili a sé. Anche per questo,gran parte
delle autobiografie indiane che ci sono arrivate - da Black Hawk aBlack
Elk (Alce Nero) - sono in realtà dialoghi, fra un narratore indiano e
unascoltatore, copista, interprete, traduttore, scrittore bianco. Come
ha scrittoArnold Krupat e come sviluppa Mariani, questi testi non ci
danno l'autenticitàincontaminata di una cultura ma l'incontro fra due
culture, il dialogo, ilconfronto, lo sforzo di spiegarsi e di capirsi.

Questo
diventa ancora più vero in tempi più vicini a noi,quando - soprattutto a
partire dalla fine degli anni `60 - esplode una speciedi "rinascimento
letterario" degli indiani d'America, che producetesti ormai canonici per
qualunque storia della letteratura americana, da HouseMade of Dawn di
N. S. Momaday a Ceremony di Leslie Marmon Silko, da Winter inthe Blood
di James Welch a Indian Killer di Sherman Alexie. Proprio a
questoromanzo - un horror urbano intriso di rabbia politica e memoria
storica -Mariani dedica un'analisi ravvicinata,mostrando l'intreccio
complesso dellecategorie temporali tradizionali e occidentali, "tra
universo mitico eframmentazione postmoderna", come recita il titolo del
capitolo (e anchequi, un'ambiguità feconda: Indian Killer vuol dire sia
killer indiano, siakiller di indiani. E il romanzo si muove in questo
spazio, fra dolore per laviolenza subita e furore di violenta vendetta).
Alla
fine, il mistero dell'identità del killer restairrisolto. Ma il mistero
vero, come scrive Mariani, è un altro: "unaresistenza indigena alla
colonizzazione euroamericana che scompagina lestrutture temporali delle
'grandi narrazioni' nazionali degli StatiUniti". E continua a farlo: "In
quanto Nativo Americano, conoscointimamente la storia delle menzogne
americane in tempo di guerra e di pace. Inparole povere, gli organi
esecutivi e legislativi degli Stati Uniti hannoviolato tutti i trattati
firmati con tutte le tribù Native, e solo l'interventooccasionale e
imprevedibile del ramo giudiziario ha restituito e
protettooccasionalmente la sovranità tribale. Perciò, come Nativo
Americano, trovoparadossale che gli Stati Uniti vogliano fare la guerra
all'Iraq perché viola itrattati... Trovo gravissimo che l'Iraq violi da
dieci anni le risoluzionidelle Nazioni Unite, ma sono altrettanto
scandalizzato dal fatto che gli StatiUniti hanno il coraggio di prendere
una posizione di superiorità morale aproposito di trattati violati".
"E'
tutto nel passato, direte voi", canta lamusicista Nativa Americana
Buffy Sainte Marie, a proposito di altri trattativiolati, "ma succede
ancora, qui ed oggi". Insomma, possiamo dire -con le parole di un
personaggio di Indian Killer che sono anche le parole concui Mariani
sceglie di chiudere il suo libro: "Non è finita affatto".
Diario, 4 luglio 2003
Racconto degli indiani. La difficoltà di essere nativi
di Francesco Dragosei

Nel
suo noto saggio del 1992, Giochi al buio: il bianco e ilnero nella
letteratura americana, la scrittrice Toni Morrison rileva
comel’ossessiva e oscura presenza dei neri nella letteratura americana
abbiacostituito la pietra fondamentale su cui i bianchi hanno edificato
ladefinizione di se stessi, oltre che dei propri schiavi neri. Per
esempio, lasensibilità americana per la libertà e per i diritti umani
sarebbe stataparadossalmente stimolata dallo stato di schiavitù in cui
erano tenuti gliafro-american. Partendo da quel libro della Morrison,
Giorgio Mariani sipropone con questo suo bel saggio di dimostrare come,
assieme a quella delnero, sia stata la figura dell’indiano a essere
costantemente al centroprofondo della letteratura e dell’io americano.
Presenza fondamentale, ma alcontempo così spesso deformata da potersi
quasi parlare di un’invisibilità delNative American agli occhi
dell’America bianca. I gradi di invisibilitàvarieranno nel corso della
Storia. In una prima fase – al momento dellaconquista del continente –
il Native American si vedrà negare l’appartenenza algenere umano,
trasformato in creatura demoniaca e abietta, utile a
giustificarel’intervento «civilizzatore» dei conquistatori. In una
seconda l’indiano avràun riconoscimento di umanità, ma non quello della
propria soggettività:continuando a essere considerato un oggetto
dell’osservazione dei bianchi.Frutto di tale visione sarà, per esempio,
The Indian in American Literature: unclassico scritto da Albert Keiser
nel 1933, e che comincerà a gettare unaqualche luce di verità sulla
figura del Native American. Altre difficoltà sullavia del riconoscimento
dell’indiano sorgeranno dal doversi la sua culturaprettamente orale
inserire nella gabbia di scrittura (e altro) della tradizioneletteraria
europea. Difficoltà che saranno aggravate – per quanto riguarda iprimi
scrittori indiani – dal doversi essi esprimere in una lingua non
propria,e, in un secondo momento, dal non ricordare nemmeno più l’idioma
originario.Serie di ambiguità che si riassumono nel dilemma di uno
scrittore indianodiviso tra «la penna» della cultura di arrivo e «il
tamburo» della cultura dipartenza.

Per
fortuna, a riequilibrare un po’ la situazione, ci sarà aun dato momento
la presenza di un certo numero di nuovi scrittori indiani(dalla Leslie
Marmon Silko a Gerald Vizenor, a Sherman Alexie) che cercherannodi
restituirci una visione realistica dell’indiano e della sua cultura.
Dellaquale però – avverte Mariani – saranno parte talmente importante
eimprescindibile i vari gradi di allontanamento da sé (e di
assimilazione allacultura statunitense) che sarebbe un nuovo, grave
errore non riconoscerli, nonprendere atto di quello che è ormai un
complicato, stratificato (taloraambiguo) ibrido culturale. Un errore
che, a questo punto, rappresenterebbel’ennesimo atto di disconoscimento
dell’indiano. Di accettazione della suainvisibilità.
Recensione di Matteo Sanfilippo sulla rivista telematicaIPERSTORIA

Eremo Rocca S.Stefano venerdì 30 agosto 2013