Dove i me versi me portarìa,
Acarezandoli come voialtri,
No’ so fradeli.
Tocadi i limiti del me valor,
Forse mi stesso me inganarìa,
Crederìa sacra l’arte, e la gloria,
Più che l’onor
.
O forse alora mi capirìa,
Megio d’ancùo, più dentro in mi,
Quelo che i versi no’ pol mai dar.
Pur no’ savendo esser un santo,
A testa bassa de fronte ai santi,
Par la me ànema mi pregarìa,
No’ più ascoltandome nel mio pregar.
Giacomo Noventa
Traduzione. Dove i miei versi mi porterebbero,
/ Se
li accarezzassi come [fate] voialtri,
/ Non so, fratelli.
/
Toccati i limiti del mio valore,
/ Forse io stesso mi
ingannerei,
/ Crederei sacra l’arte, e la gloria,
/ Più
che l’onore. // O forse allora io capirei,
/
Meglio d’oggi, più dentro in me,
/ Quello che i versi non possono mai
dare.
/ Pur
non sapendo essere un santo,
/ A testa bassa di
fronte ai santi,
/ Per la mia anima io pregherei,
/ Non
più ascoltandomi nel mio pregare.
Paolo Mattei scrive in
http://piccolenote.ilgiornale.it
“ Franco Fortini osservò che secondo Giacomo Noventa «la sola poesia degna è
quella che riconosce i suoi limiti».
Nato a Noventa di Piave (Venezia) nel 1898 e morto a Milano nel 1960,
Giacomo Ca’ Zorzi (Noventa è cognome ricavato proprio dal paese d’origine)
scrisse le sue poesie soprattutto negli anni Trenta: le diffondeva oralmente, o
attraverso missive agli amici, o per mezzo di riviste, utilizzando anche un
ulteriore pseudonimo, Piero Sarpi. Fu solo nel 1956 che apparve una prima
antologia e, poi, nel 1975, una raccolta per Mondadori.
In questi versi – «i me versi», scritti, al pari della quasi totalità della
sua produzione lirica, in una “lingua veneta” «in cui», spiegò Giovanni
Giudici, «confluiscono il dialetto veneziano di terraferma […] e gli apporti
“italiani” di un certo tipo di parlanti colti di quell’area» – Noventa si
rivolge ai propri “fratelli” poeti ricordando loro, e a sé stesso, come non di
rado la tentazione di chi fa arte con le parole sia esattamente il non
riconoscimento dei propri limiti, l’autocompiacimento e la sacralizzazione
della propria opera («Crederìa sacra l’arte»).

Al di là della polemica letteraria e ideologica – che vide Noventa
avversare, oltre che l’idealismo, anche la poetica dell’ermetismo, e che lo
condusse a scegliere il dialetto (sebbene in una forma antivernacolare, colta e
raffinata) come ironico contraltare a ogni sopravvalutazione del pensiero umano
operata con l’uso di un linguaggio a suo avviso sempre più disinteressato a
nominare le cose («El saor del pan e la luse del çiel», «Il sapore del pane e
la luce del cielo») –, in questa lirica il poeta veneto si chiede che cosa
proverebbe nell’”accarezzare” i propri versi, nel compiacersene, appunto: essi
gli farebbero constatare, forse, i loro limiti, la loro ultima incapacità
(«Quelo che i versi no’ pol mai dar», «Quello che i versi non possono mai
dare») a esprimere pienamente il mistero suggerito dalla realtà («Ogni ùn che
se esprime se perde», «Chiunque si esprima, si perde», si legge in un’altra
lirica). Mistero che le parole poetiche – le quali, a parere di Noventa, nulla
hanno di eroico o di sublime – possono soltanto intuire e umilmente
interrogare, fino a diventare, nel loro esito più alto, domanda, preghiera
silenziosa («No’ più ascoltandome nel mio pregar»).
Come la preghiera dei santi, i poeti più “esperti” al cospetto dei quali
egli vorrebbe trovarsi: «Nec lingua valet dicere, / nec littera exprimere: /
expertus potest credere / quid sit Iesum diligere», «Non vi è lingua
capace di dirlo, / non vi è scritto capace di descriverlo: / chi ne ha fatto
esperienza può credere / che cosa sia amare Gesù».
Così si legge nell’inno
Iesu dulcis memoria, una antica e
bellissima poesia attribuita a san Bernardo.
Giacomo Noventa e Adriano Olivetti sono
probabilmente gli uomini che hanno contato di più nella mia formazione e in
definitiva nella mia vita. Avevano assai poco in comune, se non di dover morire
nello stesso anno (il 1960), e di essere stato l’uno (Olivetti) il primo
editore delle poesie dell’altro. Ma avevano in comune un’altra cosa, e
decisiva: Noventa, poeta, non amava «coloro che in Italia sono detti poeti», e
Olivetti intendeva fare politica prescindendo dagli uomini politici del suo
tempo. La loro vocazione profonda era di profeti inascoltati ma al tempo stesso
erano fiduciosi, attivi, tutt’altro che solitari, dediti all’ordine positivo
del fare; e se i loro provvisori successi si rispecchiavano puntualmente in una
inevitabile sconfitta generale, in quella sconfitta, per estrema
contraddizione, entrambi riconoscevano il loro segreto di verità, la parte alta
e vincente del loro destino.

Geno Pampaloni scrive in Poesia ,politica e fiori «La poesia di
Giacomo Noventa non è contemporanea alla poesia italiana contemporanea»; così
cominciava la mia prefazione alle poesie di Noventa, edite nel 1956 dalle
Edizioni di Comunità. La stessa formula, sostituendo “poesia” con “politica”,
si sarebbe potuta usare per Olivetti. Ciò ha aperto una seria, salutare
incrinatura, o breccia, nel mio storicismo di fondo; e ha segnato il punto di
coagulo delle mie inquietudini religiose. Quella non contemporaneità tra
contemporanei rimandava, infatti, a una sorgente e a una misura dei valori
diverse e più complesse di quelle indicate dalle apparenti necessità della
ragione storica. Come logico riscontro politico, nessuno dei due era, in senso
stretto, “antifascista”, e neppure “democratico”. Noventa era un giobertiano,
un cattolico liberale, un pre-democratico. In gioventù si era iscritto al
partito liberale, ma ne uscì subito, non avendo trovato tra gli iscritti
(disse) Camillo Cavour. Olivetti era un socialista ereticale, non marxista,
cittadino a pieno titolo della società industriale, che univa all’ispirazione
religiosa un fortissimo gusto dell’ingegneria delle istituzioni; un
post-democratico. Di recente a Firenze, durante un convegno di critici, Noventa
è stato ricordato come “fascista”, soprattutto perché sulla sua rivista, «La
Riforma letteraria», aveva affermato, citando Mussolini, che «colla guerra
d’Etiopia e dopo la guerra d’Etiopia un periodo della nostra storia si è
chiuso», e il nuovo periodo è «come un immenso varco aperto su tutte le
possibilità del futuro».
Si era nella primavera del 1937; ed è chiaro che Noventa non aveva previsto
l’asse Roma-Berlino, le leggi razziali, la guerra di Hitler, così come il
critico che amava di più, Giacomo Debenedetti, in quello stesso giro di anni
lodava la prosa di Mussolini con questa splendida formula-citazione: «
Jamais
les Bourbons sauraient parler comme ça». Ma il senso della frase
noventiana, nella sua prosa poeticamente metaforica, era quasi il contrario del
suo significato letterale. La guerra d’Etiopia era per lui pressappoco quello
che per Dante era stato Arrigo VII: un appuntamento con la grandezza di una
storia sognata. Con la guerra d’Etiopia, scriveva infatti, «la nostra
giovinezza è finita»; il che equivaleva al dire che anche il fascismo era
finito, e con esso «l’idealismo, la filosofia di quel mondo di cui il fascismo
è stato, fino alla guerra d’Etiopia, la politica e la religione». Nello stesso
modo, più tardi, egli doveva rivendicare il valore della Resistenza come evento
profondamente popolare, risorgimentale e aperto al futuro, contro
l’antifascismo, figlio invece della stessa cultura da cui era nato il fascismo.
Del resto la polizia fascista si dimostrò più intelligente dei critici di oggi,
arrestando Noventa e rilasciandolo solo dopo avergli imposto la proibizione di
abitare in città sedi di università, ove avrebbe potuto svolgere la sua opera
di corruttore dei giovani.
Quando lo conobbi io, alla fine del 1937, ero un giovane arrivato a Firenze
dalla provincia, fascista illuso e vagamente scontento; altri amici, Spini,
Lattes (Fortini), D’Alema, Nomellini, erano molto più avanti di me nella
consapevolezza politica; ma Noventa era rispettoso della mia ingenuità come
della loro contestazione. Passeggiava a lungo con noi, profondendo citazioni,
aforismi, stoccate, sentenze in una conversazione di impareggiabile, generosa
amabilità, da antico patrizio veneto qual era. A notte alta lo riaccompagnavamo
a casa, verso piazza d’Azeglio, ove scriveva poche righe al giorno di quella
sua prosa concentrata come il denso caffè che di continuo si preparava in una
mastodontica caffettiera di vetro simile a un alambicco.
Il suo ideale di un mondo «assolutamente classico e assolutamente cattolico»
era un ideale di grandezza morale, civile, religiosa, che con il fascismo non
aveva niente a che vedere, ma ancor meno con l’antifascismo, colpevole anzi, ai
suoi occhi, di disperdere la sua superiorità intellettuale nella sterile
razionalità dello storicismo. Il suo era un cattolicesimo dantesco, o alla
Péguy, anticlericale quanto antimodernista, popolare quanto antipopulista
(«Cristo sull’asino e non l’asino su Cristo»). La sua compagnia, come la sua
poesia, furono per me una risolutiva lezione di libertà, di cui sentii per la
prima volta chiaramente la responsabilità primaria, personale, intima,
coscienziale: «un uomo libero», soleva ripetere citando forse uno scrittore che
ignoro «si riconosce anche da come chiede un bicchiere d’acqua».
Olivetti era invece totalmente di “cultura” moderna, di segno più
protestantico che cattolico, anche se l’esercizio rigoroso, coerente, della
ragione egli lo applicava entro un personalissimo scenario magico-religioso, di
tipo junghiano. In un discorso elettorale, una volta, affermò che il nuovo
Salvatore, annunciato dal Vangelo, è lo spirito della scienza.
Nessuno meglio di lui ha capito che il problema del nostro tempo,
disumanizzato dalla tecnologia, non si risolve con qualsiasi forma di
regressione o rallentamento, ma con la umanizzazione della scienza: il che
implica anche il dovere della giustizia. La giustizia sociale (nella accezione
più ampia, comprendente anche la possibilità per tutti di fruire della bellezza;
per cui l’arte applicata, dall’urbanistica al design, era per lui più vicina
alla giustizia che non la poesia) è l’unica forma di progresso ammissibile per
chi non crede, come gli spiriti religiosi, al progresso. Olivetti era uno
strano progressista (antistoricista), uno strano illuminista (magico). Alla
verità della storia credeva di poter arrivare con l’ascolto dei “segni”. Credo
di averlo conosciuto una volta per sempre, nella vertigine del suo solitario
dialogo con la storia, pochi mesi dopo il mio arrivo a Ivrea. Aveva chiuso
l’edizione torinese di «Comunità», affidata a due professori, Cairola e Rovero.
Accadde che, in un breve periodo, entrambi morirono. «Come vede», fu il suo
commento, «era una strada sbagliata».

Questa vena sapienziale, biblica, era fondamentale nella sua persona, e la
sua esperienza di fabbrica la alimentava più di quanto non la contraddicesse. È
vero che talora si aiutava, nelle assunzioni, con la grafologia e l’astrologia.
Più vero che raccomandava: «Non esistono persone già fatte per un ruolo; per
sapere se sono adatte a quel ruolo occorre immaginare come saranno diventate
tra un anno». Portò la psicologia scientifica nell’ufficio del personale; ma
facilitava con tutta la sua autorità l’ingresso in fabbrica dei figli dei dipendenti,
«perché è così, diceva, che si forma una tradizione». Sulla persecuzione contro
gli ebrei aveva una teoria molto bella. Sono odiati, mi disse, perché sono
ricchi di «qualità invisibili», la tenacia, la fedeltà, il rispetto della
parola data, il pudore, che gli altri non sanno prevedere e controllare. Così,
al di là delle intuizioni geniali di imprenditore intellettuale, di editore e
anche di teorico della politica, e al di là delle proverbiali bizzarrie, io mi
ritrovo, invecchiando, a riconoscere in lui ciò che non avrebbe mai ammesso di
avere ereditato da suo padre, il fondo ebraico, quasi rabbinico, di un’antica
saggezza.
Perché si risolvesse a pubblicare le poesie di Noventa, e perché Noventa,
dopo avere resistito per oltre vent’anni nell’orgoglio di rimanere inedito,
accordasse a lui il privilegio di pubblicarle, non so (forse lo sa Soavi). Ciò
che so è questo. Grazia Olivetti, la seconda moglie, aveva avuto da poco la
loro unica figlia. Quando Noventa venne a cena a casa Olivetti, a Ivrea, con il
libro dalla memorabile copertina di carta verde (tra l’alloro e l’ulivo), si
prodigò in tutte le invenzioni della sua squisita galanteria; portò in quel
salotto da studio di architettura, felpato di anonime moquette bianche, Goldoni
e Petrarca, Ronsard e Cocteau, recitò come un doge di grande sangue travestito
da gondoliere. «La poesia è anche un mazzo di fiori», disse a un certo punto,
mostrando di aver capito, e di non rifiutare, di essere stato offerto come dono
a una giovane sposa. Adriano Olivetti era felice: con mano inesperta accese
l’unica sigaretta che in dodici anni gli ho visto fumare (aprile 1980).
(1)
Pp.145-150 Edizioni di Comunità ,Roma Ivrea 2016

Eremo Rocca Santo Stefano
mercoledì
16 marzo 2016