Gli amanti che passano la vita
insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può
certo credere che solo per il
commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a
essere insieme. È allora evidente
che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace
di dire, e perciò la esprime con
vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio
(Platone, Simposio, 192 c-d.)
Indagando le pieghe della “sfera intermedia” tra gli uomini
e gli dèi cui Eros, il daimon, appartiene, Umberto Galimberti in un
libro pubblicato quasi dieci anni fa, Le cose dell’amore (Feltrinelli
2004), descriveva le molteplici manifestazioni dell’amore nell’esperienza
umana, nel tentativo di risolvere l’enigma che, secondo Platone, con l’amore
l’anima pone a se stessa, ma esprimendosi solo “con vaghi presagi, come
divinando da un fondo enigmatico e buio” (Simposio, 192 c-d).
Le “cose dell’amore” sono precisamente quei presagi: i
volti e le figure che Eros assume nella psiche e nella vita dell’essere umano
quando, per un incantesimo della fantasia, i frammenti dispersi che
costituiscono la sfera emotiva profonda e che oggi, nell’era della tecnica, a
volte sembrano quasi impronunciabili e indecenti, si coagulano e si
rappresentano in una persona “speciale”.
Un atteggiamento cosciente votato in modo unilaterale al
culto della cosiddetta ragione, o meglio l’adesione ingenua a una visione
letterale e superficiale del reale, vissuta come unica realtà oggettiva, rende
l’individuo assolutamente inerme di fronte alla propria complessità e lo espone
alla possibilità che l’irragionevolezza, la “follia” cui Eros permette il
transito (nel mito Eros è figlio di Pòros e Penìa: il passaggio e la
mancanza) dilaghi a proprio piacimento: come nel caso dell’amore-passione,
nel quale Eros costringe a patire, a cedere passivamente a un
impulso che “vuole esprimere l’eccesso, l’insolito, lo sconvolgente,
e non può farlo se non infrangendo le regole della ragionevolezza” (Galimberti,
p. 144).
Ma la passione non permette alcuno scambio interpersonale,
perché l’altro non esiste se non nell’immaginario; la passione non induce alla
reciprocità ma solo a un desiderio di fusione con un’idea di perfezione,
immaginata e proiettata nel volto dell’altro; si nutre dunque di irrealtà e
impossibilità, perché l’idealizzazione che accende la passione non accetta il
contatto col reale, non supera la prova di realtà e ha come suo rovescio la
disperazione: quando l’oggetto della passione delude (e prima o poi
inevitabilmente delude) o si sottrae, il soggetto che in esso si rispecchiava
diventa vuoto e insignificante.
Se quello che viene chiamato amore si rivela
soltanto un gioco di specchi sospinto dall’inconsapevole ricerca dell’altra
parte di sé e diventa l’unico rifugio per tutto ciò che non ha dimora in un
mondo dominato dalla cosiddetta razionalità, dall’efficienza, dalle leggi
dell’economia e dell’apparenza, se questo “amore” non cerca e non vede
realmente l’altro, perché il meccanismo della proiezione riduce l’altro
a simulacro di ciò che l’individuo non conosce o non riconosce di se
stesso, l’irruzione di Eros, il daimon di cui “l’Io non dispone, ma
semmai è qualcosa che dispone dell’Io” (Galimberti, p. 153), diventa
possessione e dissolve l’Io nell’indistinto, destituendolo di ogni potere di
giudizio e di controllo. E le varie declinazioni dell’amore con la sessualità,
il desiderio, l’idealizzazione, la seduzione, la passione, la gelosia, il possesso,
il tradimento, l’odio e così via, appaiono come possibili aspetti di ciò che
con l’amore per l’altro non ha nulla a che fare, fino ad approdare a
un’inquietante contiguità con la follia. Non stupisce allora che suicidi o
delitti consumati in nome di questo cosiddetto “amore” riempiano le cronache,
oppure, senza arrivare a conseguenze tanto estreme (sia pure in preoccupante
aumento), che le cosiddette “relazioni passionali” siano caratterizzate da
tante sofferenze emotive, tormenti, assurdità.
Allontanandoci solo formalmente dalla vicenda umana
personale, che il mito comunque raffigura nelle sue componenti fondamentali, la
comparsa di Eros, del mediatore “tra la ragione che l’uomo ha costruito e la
follia che ancora lo abita” (Galimberti, p. 153), potrebbe e forse dovrebbe
essere l’occasione per dare voce a quella parte di sé che non ha ancora trovato
spazio nell’assetto della personalità individuale, potrebbe offrire
l’opportunità di tornare a creare parole nuove, capaci di spezzare gli
automatismi di una coscienza che ripete parole divenute “dure come sassi” –
direbbe Nietzsche – e dunque svuotate di significato.
Dal punto di vista psichico la cacciata dal “paradiso”
esprime metaforicamente la rottura dell’Uno, quella lacerazione inaugurale tra
coscienza e inconscio che ci rende umani, ma che nel tempo si è trasformata
sempre più in una guerra tra fratelli nemici, tra ragione e sragione, dove il
“nemico” inconscio, banalizzato e respinto, è costretto alla clandestinità,
talora nelle pieghe di misticismi popolari inculturati, orientalismi di massa o
pratiche di posture imbalsamate; mentre d’altro canto celebra la sua fantasia
di vittoria la tracotanza (hybris) della ragione umana che
“nell’illusione di possedere una conoscenza senza limiti […] rivendica a se
stessa il potere di trascendere ogni limite” (M. Recalcati, L’uomo senza
inconscio, Cortina 2010, p. 61). Senza neanche accorgersi che, perduto il
limite che la definisce, la coscienza perde definitivamente anche se stessa e
si disperde nella ricerca spasmodica di cose nel mondo esterno
che rispondano al suo ineliminabile bisogno di integrazione. Ma si tratta di un
bisogno interiore reso incontenibile e mai soddisfatto proprio perché esaurisce
nel rincorrere e nell’appropriarsi di qualcosa di esterno il tentativo vano di
colmare una mancanza a essere strutturalmente costitutiva. E così si
scambia per “amore” (passione) l’intensità stessa del bisogno di riparare la
propria personale frattura attraverso il possesso della persona “amata”, che
diventa “qualcosa” di cui disporre, nel bene e nel male, perché a livello
inconscio rappresenta una parte irrinunciabile di sé.
Quella frattura, tuttavia, non è mai sanabile, né
inseguendo il miraggio di un ritorno al paradiso delle origini, abbandonandosi
dunque alla seduzione di un’impossibile totalità e dissolvendosi in una
pseudo-relazione caratterizzata esclusivamente da possesso e dipendenza; né
quando ci si impegni a rafforzare proprio ciò che quella frattura ha
radicalizzato, riaffermando con forza il primato dell’istanza egoica che solo
con ciò che chiama “ragione” si identifica e che dunque si sottrae
difensivamente a una reale partecipazione emotiva alla vita di relazione.
Il “disordine” e lo “stupore” che si producono “al
passaggio di Amore” potrebbero diventare, invece, possibilità di incontro e
confronto con “gli abitanti di quel mondo che sta prima dell’umana ragione e
che offre alla ragione i contenuti da ordinare” (Galimberti, p. 152,
corsivo mio), ma solo se l’Io, mantenendo i propri confini e la funzione che
gli è propria di fare ordine e gettare luce, riuscisse a riconoscere l’alterità
dell’emozione che lo attraversa quale possibile interlocutore di un dialogo
interiore che inevitabilmente lo relativizza e proprio per questo potrebbe
contribuire a un arricchimento della personalità: sottraendo il soggetto
all’identificazione con quella maschera con un’unica espressione (Nietzsche) in
cui ha creduto di riconoscere se stesso. E ciò permetterebbe anche il
riconoscimento dell’altro della relazione come individuo separato e distinto, a
sua volta alle prese con il proprio personale incontro con le profondità
segrete della sua dimensione psichica.
Che ne è allora in questo quadro dell’amore tra due
persone?
La crisi del matrimonio che percorre la cultura occidentale
si fonda, come sostiene Galimberti, da un lato proprio su una concezione
dell’amore che lo consegna esclusivamente alla passione e alla sregolatezza, e
dunque all’imprevisto e all’impossibilità della durata; dall’altro
sull’inefficacia degli strumenti tradizionali di “regolazione” su cui insistono
tutte le morali: “la moderazione, il contenimento, la proibizione”. Ma l’altro
polo della dialettica esistenziale non è la moderazione, ci avverte, bensì l’azione
che non si accontenta di una felicità passiva:
Non si dà un amore che,
invece di patire, agisce, che invece di declinarsi sul solo
versante della passione […] decide in modo irrevocabile e, a partire da questa
decisione, non subisce l’amore, ma lo crea? (Galimberti, p. 138).
Compare qui, sia pure in forma interrogativa, la figura
ambigua dell’amore-azione, che non evade dal mondo, come fa invece l’amore-passione
votato a una dimensione illusoria, ma “assume il proprio impegno in questo
mondo” (Galimberti, p. 139). Ciò sembra implicare intanto l’invito a concepire
l’amore non più come uno stato (la condizione di innamoramento, per
esempio), ma come un atto che
invece di divinizzare il
desiderio e la sua incontenibile brama che consuma la vita, invece di rendergli
un culto segreto e di aspettarsi un misterioso accrescimento di gioia, sta alla
parola data e, a partire dalla fedeltà al patto, prende a costruire scenari
d’amore (Galimberti, p. 139).
La proposta è molto suggestiva, pur lasciando aperti alcuni
interrogativi. In che modo, per esempio, questa “fedeltà al patto” non
significa voltare le spalle alla passione e negarne il ruolo nella vitalità
della relazione? In che cosa l’amore-azione si differenzia veramente da
quel conformismo moralistico che, prima dell’avvento del divorzio, ma spesso
anche dopo, ha tenuto in piedi relazioni senza amore, contribuendo a tutta la
mitologia negativa nata intorno all’amore coniugale e all’idea di fedeltà?
Io credo che l’amore-azione di Galimberti, che
rinvia nella mia percezione alla figura di Socrate musicista proposta a
suo tempo da Nietzsche come superamento di un razionalismo unilaterale e
borioso, contenga in sé, e non possa non contenere, il gioco dei contrari:
ragione e irragionevolezza, impulso e riflessione, passione e volontà,
intensità e durata, l’uno e l’altro impegnati in una tensione che arricchisce e
alimenta entrambi i poli, perché fondamentalmente li sottrae
all’obbligatorietà di un agito unilaterale e li spinge continuamente alla creazione
di altri modi di manifestarsi, li costringe, in definitiva,
all’assunzione di responsabilità, perché, come diceva Musil, solo
“l’uomo responsabile può sempre agire anche diversamente, ma l’irresponsabile,
mai!” (R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi 1957, p. 256).
Se l’atto che “crea” amore è responsabilità, e dunque
possibilità di agire diversamente, non si possono prefigurare gli “scenari
d’amore” che la “fedeltà al patto” dovrà costruire, perché quella
responsabilità condivide la natura creativa della nuova figura: l’amore-azione,
se non è un rigurgito di razionalità presieduto dal Super-io, come potrebbe
sembrare a una lettura frettolosa, dovrà trovare espressione e realizzazione
negli esiti sempre nuovi e imprevedibili del confronto con ciò che per la sua
estraneità, dentro ciascuno di noi come individuo e fuori di noi nella
relazione con l’altro, continuerà a spiazzarci, sorprenderci, interrogarci.
Amore, dunque, come apertura di un’area di
incontro/confronto tra due soggetti che condividano lo stesso impegno
individuale, forse la stessa passione, ad attraversare e accettare in modo
radicale la reale condizione umana: strutturalmente plurale e irriducibilmente
contraddittoria.
Forse di questa versione dell’amore non esiste ancora una
fenomenologia da raccontare, e forse per questo Galimberti non ce l’ha
raccontata, lasciandoci la libertà e la responsabilità di sperimentare in prima
persona le nostre possibilità di amare diversamente.
L'autore: Luciana Riommi
Luciana
Riommi (a Roma dal 1945) da oltre trent’anni ascolta esistenze altrui, che
accompagna per un certo tratto; da sempre è impegnata ad affermare la dignità
della persona, contro la banalizzazione e la volgarità imperanti, contro ogni
forma di violenza culturale, psicologica e fisica. Ama l’arte in tutte le sue
declinazioni.
Ha pubblicato con la Fermenti Editrice la raccolta di aforismi, poesie e racconti 3 d’union insieme a Giovanni Baldaccini e Antòn Pasterius. Suoi testi sono presenti in rete sulla rivista “l'EstroVerso” e sui blog: “Il giardino dei poeti”, “Neobar”, “Il blog di Miglieruolo”.
Cura il blog personale “leggere riflettere scrivere”.
Ha pubblicato con la Fermenti Editrice la raccolta di aforismi, poesie e racconti 3 d’union insieme a Giovanni Baldaccini e Antòn Pasterius. Suoi testi sono presenti in rete sulla rivista “l'EstroVerso” e sui blog: “Il giardino dei poeti”, “Neobar”, “Il blog di Miglieruolo”.
Cura il blog personale “leggere riflettere scrivere”.
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