BIBLIOFOLLIA : Detective bibliofili
«A chi era utile, ormai, Gian dei Brughi? Se ne stava nascosto coi lucciconi agli occhi a leggere romanzi, colpi non ne faceva più, roba non ne procurava». Un brigante che diventa divoratore di libri e smette di delinquere, come il personaggio del Barone rampante di Italo Calvino, questa sì che è una storia edificante. Ma per disgrazia si dà anche il caso contrario, quello di Johann Georg Tinius, pastore protestante vissuto nella seconda metà del Settecento che per soddisfare la sua brama di libri giunse a uccidere a colpi di martello. I libri possono salvare un’anima o dannarla, secondo i casi. E la loro prossimità con il sangue è attestata da un ricchissimo filone della letteratura poliziesca dove sono di scena detective bibliofili, assassini collezionisti di antichi codici, volumi che uccidono o istigano al delitto. Le grandi guide alla letteratura gialla, come il ponderoso Who done it? Di Ordean A. Hagen, contemplano sempre la sezione «Libraries». E chi si appassioni al filone potrà imbattersi in titoli bizzarri come The Title is Murder, The Body on Page One, The Gutenberg Murders, The Mystery of the Human Bookcase.
Ora tra questi macabri scaffali si aggira Mario Baudino, scrittore e giornalista della Stampa, che in Ne uccide più la penna (Rizzoli) ripercorre vita e imprese degli investigatori bibliomani. Il punto d’avvio, a sorpresa, è Philip Marlowe, che nel Grande sonno comincia la sua avventura con una visita in una libreria antiquaria; a sorpresa, perché il burbero detective di Raymond Chandler ha uno stile ben diverso dai gentiluomini compassati del giallo all’inglese, cui meglio si addice la bibliofilia, e anche perché la biblioteca è uno scenario troppo simile a quel «giardino di rose del vicario» da cui Chandler voleva strappare il giallo per riportarlo nei vicoli, tra le gang criminali e le donne perdute. Le passeggiate di Baudino ci accompagnano da un capo all’altro della storia del giallo – e non solo del giallo: il primo «libro che uccide» è quello del saggio Duban nelle Mille e una notte, e il codice avvelenato del Nome della rosa non è certo l’ultimo della serie. Sfilano sotto i nostri occhi, evocati dai gloriosi anni Trenta e Quaranta, il pedantissimo Lord Wimsey di Dorothy L. Sayers e lo Henry Gamadge di Elizabeth Daly, detective esperto di codici antichi che l’autrice chiama appunto «il bibliofilo». Ma le pagine più felici sono senz’altro quelle dedicate a Nero Wolfe, l’investigatore obeso e floricoltore di Rex Stout, che «è sublime e immoto come una trinità bizantina nel suo cielo di mosaico, e nello stesso tempo è materia allo stato selvaggio». Wolfe non è un bibliofilo ma legge moltissimo, possiede sei edizioni della Bibbia in sei lingue diverse, annovera tra i suoi autori Camus e Montaigne, Casanova e Solzenycin. Quando non indaga e non cura le sue orchidee, sprofonda nella lettura.
La rassegna culmina, a metà del libro, in un quesito quasi filosofico: si può davvero uccidere per un libro? Baudino indaga sul losco affare e porta alla luce, oltre al caso di Tinius, quello di un libraio di Barcellona ed ex monaco, Giacomo, di cui parla Flaubert nel breve racconto giovanile Bibliomania. Ma c’è poi tanto di misterioso? A ben vedere, per noi abitanti del Mediterraneo, culla delle religioni del Libro e sede millenaria di guerre e mattanze in nome di un testo sacro, che si possa uccidere per un libro è una triste evidenza. Il mistero che più ci preme, semmai, è un altro. E cioè – per inelegante che sia ricercare, in un libro peraltro bello e ricco, quel che non c’è e ha tutto il diritto di non esserci – dove sono i giganti del giallo classico? Che fine hanno fatto il narratore assassino di Agatha Christie o il suo Cadavere in biblioteca, i mille divertimenti metaletterari di Ellery Queen sulla figura del detective romanziere, la prodigiosa erudizione di Philo Vance, creatura del bibliomane di S.S. Van Dine? Che si siano tutti rintanati in un capitolo perduto o rubato del libro di Baudino? Se così fosse, saremmo pronti a uccidere per metterci sopra le mani.
Articolo uscito sul Riformista il 30 aprile 2011
Mario Baudino è nato il 26 febbraio 1952 a Chiusa di Pesio (in provincia di Cuneo) e vive a Torino.
Scrittore, poeta, saggista e giornalista, ha esordito nella poesia giovanissimo prendendo parte al volume antologico curato da Enzo Di Mauro e Giancarlo Pontiggia La parola innamorata. I poeti nuovi 1976 - 1978 (Feltrinelli, 1978), e nel 1980 ha pubblicato con Guanda la silloge d'esordio Una regina tenera e stupenda.
Otto anni più tardi si è aggiudicato il Premio Montale con Grazie (Guanda, 1988) e nel 1994 ha fatto il suo ingresso nella narrativa con In volo per affari, dato alle stampe per Rizzoli.
Vincitore, nel 1998, del Premio Scalea con Il sorriso della druida, (Sperling & Kupfer, 1998) e nel 2000 del Premio Brancati con la raccolta poetica Colloqui con un vecchio nemico (Guanda, 1999), Baudino è anche autore di numerosi saggi, tra cui Il gran rifiuto. Storie di autori e di libri rifiutati dagli editori (Longanesi, 1991), Voci di guerra. 1940-1945. Sette storie d'amore e di coraggio, (Ponte alle Grazie, 2001), microstorie vere del secondo conflitto mondiale narrate dai protagonisti, e Il mito che uccide (Longanesi, 2004).
Nel 2006 ha pubblicato per Guanda Aeropoema, poemetto in cui i temi del volo, del viaggio e del destino si incrociano con quelli della modernità riecheggiando l'atmosfera futurista, e con la stessa casa editrice è uscito nel 2008 il suo ultimo romanzo Per amore o per ridere, una sorta di romanzo "sul rapporto tra amore e delinquenza nell'era delle nuove tecnologie".
E' giornalista culturale de La Stampa.
Ha scritto anche un interessante volume dal titolo Il gran rifiuto che costituisce una sorta di 'summa' dei più grandi errori editoriali, ripercorsi attraverso le vicende di libri e scrittori da una parte, editori e loro consulenti dall'altra. Non si pensi però a una semplice carrellata di rifiuti che dovevano poi diventare famosi non meno dei libri che ne erano stati l'oggetto, dalla Recherche di Proust, al Gattopardo di Tommasi di Lampedusa, e perfino a bestseller come Harry Potter o i romanzi di Tolkien. Queste storie possono infatti essere lette anche come strumento per capire le ragioni, o almeno il contesto, di rifiuti così clamorosi e persino imbarazzanti. Il mestiere dell'editore, del resto, è fatto innanzitutto di scelte, e le scelte sono fatte di esclusioni, non sempre così palesemente ingiuste come possono apparire agli occhi dei lettori. In ogni caso, sarà l'arrivo del successo di un'opera a fare tabula rasa di tutte le possibili ragioni di un rifiuto, insieme ai mea culpa dell'editore che se lo è visto sfuggire. Al di là dei suoi aspetti più curiosi e divertenti, questo libro, frutto di una ricerca tenace, appassionata e documentata, rappresenta così un'attenta analisi dei vizi e dei costumi dell'editoria, offrendo nel contempo un quadro inusuale, ma non per questo meno interessante, della nostra società culturale.
Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 3 luglio 2012
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