Sollecitare ad un uso più accorto della lingua da parte degli amministratori publici. E' questo l'obiettivo dell'iniziativa ''Dillo in italiano'', la petizione lanciata da Annamaria Testa su Internazionale cui hanno aderito i giornalisti Michele Serra (Repubblica) e Massimo Gramellini (La Stampa). Basta con uso smisurato di parole come workshop, meeting, jobs act da parte di politici e istituzioni. Una petizione per invitare il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese a parlare un po’ di più in italiano.
LA PETIZIONE - Di seguito, ecco il testo della petizione:
La lingua italiana è la quarta più studiata al mondo. Oggi parole italiane portano con sé dappertutto la cucina, la musica, il design, la cultura e lo spirito del nostro paese. Invitano ad apprezzarlo, a conoscerlo meglio, a visitarlo.
Le lingue cambiano e vivono anche di scambi con altre lingue. L’inglese ricalca molte parole italiane (manager viene dall’italiano maneggiare, discount da scontare) e ne usa molte così come sono, da studio a mortadella, da soprano a manifesto. La stessa cosa fa l’italiano: molte parole straniere, da computer a tram, da moquette a festival, da kitsch a strudel, non hanno corrispondenti altrettanto semplici, efficaci e diffusi. Privarci di queste parole per un malinteso desiderio di “purezza della lingua” non avrebbe molto senso.
Ha invece senso che ci sforziamo di non sprecare il patrimonio di cultura, di storia, di bellezza, di idee e di parole che, nella nostra lingua, c’è già. Ovviamente, ciascuno è libero di usare tutte le parole di qualsiasi lingua come meglio crede, con l’unico limite del rispetto e della decenza. Tuttavia, e non per obbligo ma per consapevolezza, parlando italiano potremmo tutti cominciare a interrogarci sulle parole che usiamo. A maggior ragione potrebbe farlo chi ha ruoli pubblici e responsabilità più grandi.
Molti (spesso oscuri) termini inglesi che oggi inutilmente ricorrono nei discorsi della politica e nei messaggi dell’amministrazione pubblica, negli articoli e nei servizi giornalistici, nella comunicazione delle imprese, hanno efficaci corrispondenti italiani. Perché non scegliere quelli? Perché, per esempio, dire form quando si può dire modulo, jobs act quando si può dire legge sul lavoro, market share quando si può dire quota di mercato? Perché dire fashion invece di moda, e show invece di spettacolo?
Chiediamo all’Accademia della Crusca di farsi, forte del nostro sostegno, portavoce e autorevole testimone di questa istanza presso il governo, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese. E di farlo ricordando alcune ragioni per le quali scegliere termini italiani che esistono e sono in uso è una scelta virtuosa.
1) Adoperare parole italiane aiuta a farsi capire da tutti. Rende i discorsi più chiari ed efficaci. È un fatto di trasparenza e di democrazia.
2) Per il buon uso della lingua, esempi autorevoli e buone pratiche quotidiane sono più efficaci di qualsiasi prescrizione.
3) La nostra lingua è un valore. Studiata e amata nel mondo, è un potente strumento di promozione del nostro paese.
4) Essere bilingui è un vantaggio. Ma non significa infarcire di termini inglesi un discorso italiano, o viceversa. In un paese che parla poco le lingue straniere questa non è la soluzione, ma è parte del problema.
5) In itanglese è facile usare termini in modo goffo o scorretto, o a sproposito. O sbagliare nel pronunciarli. Chi parla come mangia parla meglio.
6) Da Dante a Galileo, da Leopardi a Fellini: la lingua italiana è la specifica forma in cui si articolano il nostro pensiero e la nostra creatività.
7) Se il nostro tessuto linguistico è robusto, tutelato e condiviso, quando serve può essere arricchito, e non lacerato, anche dall’inserzione di utili o evocativi termini non italiani.
8) L’italiano siamo tutti noi: gli italiani, forti della nostra identità, consapevoli delle nostre radici, aperti verso il mondo.
Nel linguaggio comune, imperversano neologismi e termini stranieri che man mano stanno sopravanznado nella frequenza d'utilizzo i corrispettivi vocaboli italiani. Se alcune parole come “marketing”, “sport”, “rock”, “browser”, “smog” non trovano un corrispondente efficace nella nostra lingua, ci sono altri termini come "workshop", "abstract", "fashion", "light" di cui ptoremmo far benissimo a meno, utilizzando i loro corrispettivi italiani "seminario", "riassunto", "moda", "leggero". I nostri stessi lettori, spesso, ci fanno notare spesso che preferiscono essere definiti "amanti dei libri" piuttosto che "booklovers". In occasione dell'iniziativa "Dillo in italiano'', la petizione lanciata per rivendicare l'uso della lingua italiana da parte delle istituzioni, vi proponiamo una serie di termini stranieri di cui potremmo benissimo fare a meno, in quanto "doppioni" di vocaboli italiani. Non si tratta di una crociata contro le lingue straniere, né contro l’impiego dei molti termini inglesi che non hanno corrispondenti italiani efficaci e accettati, ma semplicemente di un gesto d'orgoglio nei confronti della nostra amata lingua italiana.
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