sabato 1 marzo 2014

CONTRAPPUNTO :  Economia della Felicità





Grazie alla disponibilità di informazioniraccolte da sociologi e psicologi, alcuni economisti si sono interessati astudiare e comparare il benessere e la felicità degli individui sconvolgendoradicalmente il tradizionale assunto che l'aumento della ricchezza, sia dellenazioni che degli individui, attraverso il libero mercato, sia sufficiente agarantire un proporzionale aumento della felicità, o quantomeno a nonprovocarne la diminuzione. Uno dei risultati più interessanti che emerge dallericerche economiche sulla felicità, è che nel lungo periodo mentre il redditopro capite aumenta costantemente, la felicità rimane sostanzialmente invariata.I dati provengono dalle indagini Eurostat-Eurobarometro e coprono il periododal 1975 al 1992. Nonostante le molte oscillazioni, la soddisfazione mediariportata dagli europei era, nel 1992, praticamente allo stesso livello di 20anni prima, a fronte di un considerevole aumento del reddito pro capite nellostesso periodo. Risultati molto simili si ottengono anche per gli Stati Uniti.Questi dati sollevano naturalmente molti dubbi sulla loro qualità e tuttavia,senza entrare nel dettaglio, numerosi studi provenienti da altre disciplinecome la psicologia e la neurologia ne supportano l’attendibilità. Citiamo solola critica che a noi pare più comune e che si potrebbe formulare come segue: inrealtà ognuno si dichiara soddisfatto in relazione a ciò che puòrealisticamente ottenere, di conseguenza oggi siamo effettivamente più felicidi 20 anni fa ma non ci riteniamo tali perché le nostre aspettative sonocambiate, migliorate, e desideriamo sempre di più. Esistono diverse risposte aquesta critica. In primo luogo, se così fosse, almeno persone nate negli stessianni dovrebbero mostrare una crescita nel tempo della felicità riportatasoggettivamente. I dati mostrano invece che, anche suddividendo il campione percoorti di nascita, la felicità riportata non cresce significativamente neltempo. Inoltre, misure meno soggettive del benessere, come la percentuale dipersone affette da depressione o il numero di suicidi, seguono andamenti moltosimili alle risposte soggettive sulla felicità e sulla soddisfazione. Ma alloracosa ci rende felici? Studi che confrontano felicità e soddisfazione di personesimili indicano, con tutte le riserve del caso, che sono molte le fonti difelicità e infelicità: gli occupati sono molto più felici dei disoccupati, lasicurezza del posto di lavoro rende meno stressati e più felici, chi ha unafamiglia stabile è più felice dei separati/divorziati, ma anche vivere in unacittà con poca povertà e poche disuguaglianze sembra rendere più felici.
La definizione marcusiano-francofortese di"società dei consumi" è ormai antica, così antica da lasciarciintendere che il sistema è più che maturo, e probabilmente invecchiato al puntodi mostrare le prime, pesanti crepe. Ampiamente accertato, dalle analisisociologiche come dalla vox populi, che la povertà rende infelici, esposti albisogno, meno liberi e meno energici, e dunque lasciato alle retroguardiemoraliste il dubbio piacere di tuonare contro il benessere materiale, ildibattito sulla ricchezza, e sul suo incerto rapporto con la felicità, non èpiù così elitario o "di opposizione". Questa è la novità. Non sonopiù i vecchi hippies o i giovani new global a puntare il dito contro lagiustapposizione acritica tra benessere materiale e felicità. È lo sguardorazionale degli economisti, adesso, che cerca faticosamente i nessi, e lesconnessioni, tra il Pil e la soddisfazione sociale, tra il trend quantitativodei consumi e la qualità della vita individuale. E si espande il nucleo critico(ormai una minoranza di massa) di singole persone e gruppi sociali cheinseguono prassi di vita meno febbrili e meno assoggettate alla bulimia dellemerci. Convegni accademici e confessioni private, libri e indagini, teoriescientifiche e osservazione empirica, tutto conduce in una sola direzione, overso una stessa risposta: felicità è partecipazione, in tutte le gradazioni,dalla mobilitazione politica alle minute attività di quartiere. Se unadisciplina ormai trentennale come l'"economia della felicità" conosceuna ragguardevole impennata di pubblicazioni e di dibattito, è anche perchécresce la consapevolezza diffusa che non c'è, o non c'è più, felicitàattraverso gli ormai consunti parametri privatistici e quantitativi.
Se la semplice sopravvivenza e il riparo dallesofferenze, e non certo la felicità, sono stati per gran parte della storia loscopo principale della vita umana (Zygmunt Bauman), è solo con la Dichiarazioned'indipendenza della Virginia nel 1776 che la felicità è divenuta, da bene dilusso elitario quale era, un diritto universale. Il desiderio, la spinta versola felicità sono negli Stati Uniti un diritto costituzionale, ma anche undovere che sta al cuore dell'American Dream (diceva Samuel Johnson: "Lavita è un progresso da desiderio a desiderio, non da piacere a piacere"):ed è sempre lì che sta avvenendo una rivoluzione profonda. Al differimentocostante della felicità (sia le utopie sia il mai concluso progressoscientifico rimandano a un mondo ideale sempre futuro), l'età contemporanea,massimamente nel suo prototipo americano, ha risposto con il consumismo: ilgodimento (individuale) del piacere effimero e ripetibile del consumo hasoppiantato la costruzione (collettiva) di una vita felice. Ma in attesa di unmondo migliore, abbiamo distrutto questo per ipertrofia consumistica. Così, siè sviluppato negli ultimi anni un filone ipercritico di "etnografiadell'eccesso": qualche titolo ("The Overspent American" diJuliet Schor, "Luxury Fever" di Robert Frank, ma anche "FastFood Nation" di Eric Schosser e “The Influentials: One American in TenTells the Other Nine How to Vote, Where to Eat, and What to Buy") e unsolo dato (gli Stati Uniti spendono in soli sacchetti per l'immondizia più diquanto in 90 altri paesi si spende per tutte le merci), bastano a riassumere laquestione. Che ora si sta spostando rapidamente sul piano dei comportamenti edei valori, fino a ridefinire i principi stessi dell'American Dream, a partireda quella fascia di "trendsetter" che già da qualche decennio è statadefinita come gli "Influentials". Ovvero quella fetta dellapopolazione - 21 milioni di persone, un americano su dieci - che guida le idee,i comportamenti e lo stile di vita degli altri nove decimi del paese.
L'economia moderna nasce proprio con la felicità.Infatti, la tradizione italiana dell'economia, milanese e napoletana in modoparticolare, nella seconda metà del settecento scelsero la felicità comeconcetto centrale della nascente scienza economica. La felicità era peròpubblica (quindi da non confondere con il piacere o la contentezza momentanea),non solo perché il compito di creare le condizioni per la felicità era affidatoanche ai governanti, ma perché, come dicevano, posso essere ricco anche dasolo, ma per essere felici occorre essere almeno in due, perché si è felicigrazie e con gli altri. La tradizione napoletana - pensiamo a Vico o a Genovesi- era profondamente radicata nel messaggio cristiano. Ma possiamo ritrovare ilcollegamento tra economia e felicità nell'Umanesimo Civile, nella ScuolaFrancescana, e anche in molta parte della riflessione del monachesimo, e,andando più indietro nel tempo, anche la prima riflessione dei Padri avevaattribuito molta importanza al rapporto tra beni e ben-essere, alle condizioniche fanno sì che i beni, la ricchezza, siano mezzi per una vita buona. Dopol'Illuminismo forse l'attenzione al rapporto tra economia e felicità è rimastasullo sfondo anche della riflessione degli economisti cristiani, ma ultimamentel'interesse sta tornando con forza. La scienza economica ufficiale non hacontinuato la tradizione italiana, più antica, e si è concentrata sullaricchezza della nazione, e in particolare su come aumentarla (divisione dellavoro, commercio internazionale) e come distribuirla tra le classi sociali.Forse per questo motivo, attorno alla metà del 1800, si è meritatal'appellativo di scienza triste (dismal science), coniato dallo scrittoreinglese T. Carlyle. Se però guardiamo più in profondità ci accorgiamo chequesto appellativo è in parte ingiusto: in molti del primi economisti inglesi(certamente Smith e Malthus) era molto chiaro che la ricchezza è solo un mezzoper vivere meglio: e in un mondo che cercava ancora di uscire dall'estremapovertà questa tesi è probabilmente vera. Nel mio libro ho cercato così dimostrare che non solo a Napoli e in Italia, ma anche in Inghilterra c'è unatradizione dell'economia (che arriva fino al Novecento) che distingueva moltobene i mezzi (ricchezza) dai fini (felicità), e che si interessava anchedell'analisi di cosa accade quando ci concentriamo troppo sui mezzi e lifacciamo diventare fini, e quindi ci inganniamo. Ciò che emerge dalle ricerchesu reddito e felicità mostra un quadro più complesso del proverbio, e dei suoicritici. Innanzitutto tutte le culture sanno che il denaro, da solo, non puòdare felicità: se c'è un icona della non-felicità questa è probabilmentel'avaro. Ma perché l'avaro non è felice? Perché, anche senza accorgersene,trasforma il mezzo (denaro) in fine, e fa dell'accumulazione del denaro loscopo principale della sua vita; una vita che poi non fiorisce, e si chiude suse stessa. Al di fuori dell'avarizia, il denaro può portare a più felicità: nonoccorrono molti studi per capire che quando si è nell'estrema povertà unmaggior reddito porta ad una vita migliore e più felice. Ciò non è sempre vero(dipende da come quel reddito aumenta), ma i dati mostrano che in media è così.C'è però una soglia, un punto critico superato il quale il rapporto virtuosoreddito-felicità si inverte e può diventare vizioso. Perché? Non è facileaccorgersi quando stiamo per oltrepassare quel punto critico (ad esempio sestiamo lavorando troppo), perché siamo sottoposti a diverse forme di ingannodella nostra razionalità.
L'interesse per l’economia della felicità èdovuto, credo, a due ordini di ragioni. Innanzitutto il processo non è partitoall'interno della scienza economica: gli economisti sono stati contaminatidagli psicologi e in parte dai sociologi, che nei primi anni settantacominciarono a riportare dati sperimentali che mostravano il paradosso dellafelicità, e cioè che il reddito sembrava essere molto poco correlato allafelicità, almeno nelle società più ricche (Usa e Europa). Da qui la sfida diquei primi psicologi: perché preoccuparsi troppo dell'aumento del reddito, delPil (prodotto interno lordo), se questo non ci fa star meglio, ma addiritturapeggio? Da queste indagini sono nate due correnti di studi tra gli economisti:da una parte coloro che hanno sviluppato nuove teorie economiche per spiegarequel paradosso (e questo è il filone principale), dall'altra chi invece, forseper un richiamo ancestrale ai primordi della scienza economica, sente di doverche lo studio per aumentare la ricchezza o il benessere materiale è ancora oggiimportante, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Questo secondo filone hacome leader l'economista indiano Amartyia Sen, che sostiene che il sentirsisoggettivamente felice è meno importante della felicità oggettiva, cioè allaqualità della vita che la gente di fatto sperimenta (salute, educazione,libertà, diritti, etc.).
FONTE  :  http://www.utopie.it/economia_sostenibile/economia_della_felcit%C3%A0.htm

Eremo Rocca S.Stefano giovedì 27  febbraio 2014







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