CONTRAPPUNTO : Economia della Felicità
Grazie
alla disponibilità di informazioniraccolte da sociologi e psicologi,
alcuni economisti si sono interessati astudiare e comparare il benessere
e la felicità degli individui sconvolgendoradicalmente il tradizionale
assunto che l'aumento della ricchezza, sia dellenazioni che degli
individui, attraverso il libero mercato, sia sufficiente agarantire un
proporzionale aumento della felicità, o quantomeno a nonprovocarne la
diminuzione. Uno dei risultati più interessanti che emerge dallericerche
economiche sulla felicità, è che nel lungo periodo mentre il redditopro
capite aumenta costantemente, la felicità rimane sostanzialmente
invariata.I dati provengono dalle indagini Eurostat-Eurobarometro e
coprono il periododal 1975 al 1992. Nonostante le molte oscillazioni, la
soddisfazione mediariportata dagli europei era, nel 1992, praticamente
allo stesso livello di 20anni prima, a fronte di un considerevole
aumento del reddito pro capite nellostesso periodo. Risultati molto
simili si ottengono anche per gli Stati Uniti.Questi dati sollevano
naturalmente molti dubbi sulla loro qualità e tuttavia,senza entrare nel
dettaglio, numerosi studi provenienti da altre disciplinecome la
psicologia e la neurologia ne supportano l’attendibilità. Citiamo solola
critica che a noi pare più comune e che si potrebbe formulare come
segue: inrealtà ognuno si dichiara soddisfatto in relazione a ciò che
puòrealisticamente ottenere, di conseguenza oggi siamo effettivamente
più felicidi 20 anni fa ma non ci riteniamo tali perché le nostre
aspettative sonocambiate, migliorate, e desideriamo sempre di più.
Esistono diverse risposte aquesta critica. In primo luogo, se così
fosse, almeno persone nate negli stessianni dovrebbero mostrare una
crescita nel tempo della felicità riportatasoggettivamente. I
dati mostrano invece che, anche suddividendo il campione percoorti di
nascita, la felicità riportata non cresce significativamente neltempo.
Inoltre, misure meno soggettive del benessere, come la percentuale
dipersone affette da depressione o il numero di suicidi, seguono
andamenti moltosimili alle risposte soggettive sulla felicità e sulla
soddisfazione. Ma alloracosa ci rende felici? Studi che confrontano
felicità e soddisfazione di personesimili indicano, con tutte le riserve
del caso, che sono molte le fonti difelicità e infelicità: gli occupati
sono molto più felici dei disoccupati, lasicurezza del posto di lavoro
rende meno stressati e più felici, chi ha unafamiglia stabile è più
felice dei separati/divorziati, ma anche vivere in unacittà con poca
povertà e poche disuguaglianze sembra rendere più felici.

La
definizione marcusiano-francofortese di"società dei consumi" è ormai
antica, così antica da lasciarciintendere che il sistema è più che
maturo, e probabilmente invecchiato al puntodi mostrare le prime,
pesanti crepe. Ampiamente accertato, dalle analisisociologiche come
dalla vox populi, che la povertà rende infelici, esposti albisogno, meno
liberi e meno energici, e dunque lasciato alle retroguardiemoraliste il
dubbio piacere di tuonare contro il benessere materiale, ildibattito
sulla ricchezza, e sul suo incerto rapporto con la felicità, non èpiù
così elitario o "di opposizione". Questa è la novità. Non sonopiù i
vecchi hippies o i giovani new global a puntare il dito contro
lagiustapposizione acritica tra benessere materiale e felicità. È lo
sguardorazionale degli economisti, adesso, che cerca faticosamente i
nessi, e lesconnessioni, tra il Pil e la soddisfazione sociale, tra il
trend quantitativodei consumi e la qualità della vita individuale. E si
espande il nucleo critico(ormai una minoranza di massa) di singole
persone e gruppi sociali cheinseguono prassi di vita meno febbrili e
meno assoggettate alla bulimia dellemerci. Convegni accademici e
confessioni private, libri e indagini, teoriescientifiche e osservazione
empirica, tutto conduce in una sola direzione, overso una stessa
risposta: felicità è partecipazione, in tutte le gradazioni,dalla
mobilitazione politica alle minute attività di quartiere. Se
unadisciplina ormai trentennale come l'"economia della felicità"
conosceuna ragguardevole impennata di pubblicazioni e di dibattito, è
anche perchécresce la consapevolezza diffusa che non c'è, o non c'è più,
felicitàattraverso gli ormai consunti parametri privatistici e
quantitativi.

Se
la semplice sopravvivenza e il riparo dallesofferenze, e non certo la
felicità, sono stati per gran parte della storia loscopo principale
della vita umana (Zygmunt Bauman), è solo con la
Dichiarazioned'indipendenza della Virginia nel 1776 che la felicità è
divenuta, da bene dilusso elitario quale era, un diritto universale. Il
desiderio, la spinta versola felicità sono negli Stati Uniti un diritto
costituzionale, ma anche undovere che sta al cuore dell'American Dream
(diceva Samuel Johnson: "Lavita è un progresso da desiderio a desiderio,
non da piacere a piacere"):ed è sempre lì che sta avvenendo una
rivoluzione profonda. Al differimentocostante della felicità (sia le
utopie sia il mai concluso progressoscientifico rimandano a un mondo
ideale sempre futuro), l'età contemporanea,massimamente nel suo
prototipo americano, ha risposto con il consumismo: ilgodimento
(individuale) del piacere effimero e ripetibile del consumo
hasoppiantato la costruzione (collettiva) di una vita felice. Ma in
attesa di unmondo migliore, abbiamo distrutto questo per ipertrofia
consumistica. Così, siè sviluppato negli ultimi anni un filone
ipercritico di "etnografiadell'eccesso": qualche titolo ("The Overspent
American" diJuliet Schor, "Luxury Fever" di Robert Frank, ma anche
"FastFood Nation" di Eric Schosser e “The Influentials: One American
in TenTells the Other Nine How to Vote, Where to Eat, and What to Buy")
e unsolo dato (gli Stati Uniti spendono in soli sacchetti per
l'immondizia più diquanto in 90 altri paesi si spende per tutte le
merci), bastano a riassumere laquestione. Che ora si sta spostando
rapidamente sul piano dei comportamenti edei valori, fino a ridefinire i
principi stessi dell'American Dream, a partireda quella fascia di
"trendsetter" che già da qualche decennio è statadefinita come gli
"Influentials". Ovvero quella fetta dellapopolazione - 21 milioni di
persone, un americano su dieci - che guida le idee,i comportamenti e lo
stile di vita degli altri nove decimi del paese.
L'economia
moderna nasce proprio con la felicità.Infatti, la tradizione italiana
dell'economia, milanese e napoletana in modoparticolare, nella seconda
metà del settecento scelsero la felicità comeconcetto centrale della
nascente scienza economica. La felicità era peròpubblica (quindi da non
confondere con il piacere o la contentezza momentanea),non solo perché
il compito di creare le condizioni per la felicità era affidatoanche ai
governanti, ma perché, come dicevano, posso essere ricco anche dasolo,
ma per essere felici occorre essere almeno in due, perché si è
felicigrazie e con gli altri. La tradizione napoletana - pensiamo a Vico
o a Genovesi- era profondamente radicata nel messaggio cristiano. Ma
possiamo ritrovare ilcollegamento tra economia e felicità nell'Umanesimo
Civile, nella ScuolaFrancescana, e anche in molta parte della
riflessione del monachesimo, e,andando più indietro nel tempo, anche la
prima riflessione dei Padri avevaattribuito molta importanza al rapporto
tra beni e ben-essere, alle condizioniche fanno sì che i beni, la
ricchezza, siano mezzi per una vita buona. Dopol'Illuminismo forse
l'attenzione al rapporto tra economia e felicità è rimastasullo sfondo
anche della riflessione degli economisti cristiani, ma
ultimamentel'interesse sta tornando

con forza. La scienza economica
ufficiale non hacontinuato la tradizione italiana, più antica, e si è
concentrata sullaricchezza della nazione, e in particolare su come
aumentarla (divisione dellavoro, commercio internazionale) e come
distribuirla tra le classi sociali.Forse per questo motivo, attorno alla
metà del 1800, si è meritatal'appellativo di scienza triste (dismal
science), coniato dallo scrittoreinglese T. Carlyle. Se però guardiamo
più in profondità ci accorgiamo chequesto appellativo è in parte
ingiusto: in molti del primi economisti inglesi(certamente Smith e
Malthus) era molto chiaro che la ricchezza è solo un mezzoper vivere
meglio: e in un mondo che cercava ancora di uscire dall'estremapovertà
questa tesi è probabilmente vera. Nel mio libro ho cercato così
dimostrare che non solo a Napoli e in Italia, ma anche in Inghilterra
c'è unatradizione dell'economia (che arriva fino al Novecento) che
distingueva moltobene i mezzi (ricchezza) dai fini (felicità), e che si
interessava anchedell'analisi di cosa accade quando ci concentriamo
troppo sui mezzi e lifacciamo diventare fini, e quindi ci inganniamo.
Ciò che emerge dalle ricerchesu reddito e felicità mostra un quadro più
complesso del proverbio, e dei suoicritici. Innanzitutto tutte le
culture sanno che il denaro, da solo, non puòdare felicità: se c'è un
icona della non-felicità questa è probabilmentel'avaro. Ma perché
l'avaro non è felice? Perché, anche senza accorgersene,trasforma il
mezzo (denaro) in fine, e fa dell'accumulazione del denaro loscopo
principale della sua vita; una vita che poi non fiorisce, e si chiude
suse stessa. Al di fuori dell'avarizia, il denaro può portare a più
felicità: nonoccorrono molti studi per capire che quando si è
nell'estrema povertà unmaggior reddito porta ad una vita migliore e più
felice. Ciò non è sempre vero(dipende da come quel reddito aumenta), ma i
dati mostrano che in media è così.C'è però una soglia, un punto critico
superato il quale il rapporto virtuosoreddito-felicità si inverte e può
diventare vizioso. Perché? Non è facileaccorgersi quando stiamo per
oltrepassare quel punto critico (ad esempio sestiamo lavorando troppo),
perché siamo sottoposti a diverse forme di ingannodella nostra
razionalità.

L'interesse
per l’economia della felicità èdovuto, credo, a due ordini di ragioni.
Innanzitutto il processo non è partitoall'interno della scienza
economica: gli economisti sono stati contaminatidagli psicologi e in
parte dai sociologi, che nei primi anni settantacominciarono a riportare
dati sperimentali che mostravano il paradosso dellafelicità, e cioè che
il reddito sembrava essere molto poco correlato allafelicità, almeno
nelle società più ricche (Usa e Europa). Da qui la sfida diquei primi
psicologi: perché preoccuparsi troppo dell'aumento del reddito, delPil
(prodotto interno lordo), se questo non ci fa star meglio, ma
addiritturapeggio? Da queste indagini sono nate due correnti di studi
tra gli economisti:da una parte coloro che hanno sviluppato nuove teorie
economiche per spiegarequel paradosso (e questo è il filone
principale), dall'altra chi invece, forseper un richiamo ancestrale ai
primordi della scienza economica, sente di doverche lo studio per
aumentare la ricchezza o il benessere materiale è ancora oggiimportante,
soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Questo secondo filone hacome
leader l'economista indiano Amartyia Sen, che sostiene che il
sentirsisoggettivamente felice è meno importante della felicità
oggettiva, cioè allaqualità della vita che la gente di fatto sperimenta
(salute, educazione,libertà, diritti, etc.).
FONTE :
http://www.utopie.it/economia_sostenibile/economia_della_felcit%C3%A0.htm

Eremo Rocca S.Stefano giovedì 27 febbraio 2014
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