Riporto qui l'articolo di Franco Arminio apparso oggi 6 aprile su Il Manifesto e ci aggiungo le foto che ho fatto andando in giro per L'Aquila nei giorni scorsi .

Da Cassino procedo verso Sora e poi Avezzano. La strada è tracciata in basso, intorno il solito paesaggio dell’Italia di oggi: case sparse, insegne, qualche capannone, pompe di benzina. Sulle cime dei monti c’è ancora un poco di neve.

La piazza del Duomo è quella vista tante volte in televisione, ai tempi dell’occupazione mediatica della città da parte del cavaliere e delle sue truppe: una sorta di sbarco in Normandia, per convincere gli italiani di essere governati da un uomo onnipotente e buono.
In quelle settimane ogni volta che si parlava del terremoto cambiavo canale. Venni qui molti mesi dopo, nei giorni in cui ad Onna si aprivano le case con la letterina del cavaliere e lo spumante nel frigo.
Anche allora fu un giro breve. L’uso politico delle rovine era nel suo fulgore. Bertolaso non immaginava di finire in disgrazia, il governo non sapeva che sarebbe caduto. Onna mi apparve un set televisivo, l’epicentro non di un terremoto, ma del delirio di mettere la rappresentazione al posto della realtà.

Ho scritto su Facebook che sarei venuto a L’Aquila e subito lo hanno saputo le persone che mi hanno invitato a presentare un mio libro. L’appuntamento è per il tredici aprile all’università, intanto loro ci tengono ad accompagnarmi. Lo conosco bene il ruolo dell’accompagnatore nelle zone terremotate. È una cosa che ho fatto per anni nelle mie zone. Si ha voglia di mostrare, di far vedere, nella speranza che ci sia un racconto vero. Io ci rimanevo sempre male quando leggevo l’articolo il giorno dopo o vedevo il servizio televisivo. Mi pareva che del mio racconto erano andate perdute tante sfumature. Per questo a un certo punto mi sono deciso a raccontare in prima persona quello che accadeva nell’Irpinia terremotata.

Dopo Marta che vuole fare la geografa, arriva Manuela, una fotografa romana che viene qui in continuazione. È lei la guida nel giro della città puntellata, tumefatta, fasciata.
Entriamo nella zona rossa, che a rigore non si può percorrere. Vorrei entrare in un casa, vedere un bicchiere sul tavolo, un calendario al muro. Non è possibile, si rischia l’arresto. E infatti poco dopo imbuchiamo una strada in cui ci sono dei militari. Ci dicono che non possiamo stare in questa zona.
In piazza Sallustio ci ha raggiunto Lina. Lavora all’università, ha fatto una ricerca su come è cambiata la vita degli aquilani, l’elemento su cui insiste è l’aumento degli spostamenti in macchina. Si sviluppa un piccolo parlamento, con la fotografa che fa esempi di quello che è stato fatto in America, parla di un museo del sisma. Io sono insolitamente silenzioso. Mi sono scordato gli occhiali da sole, mi fa male un occhio. Mi offende la luce che c’è oggi, sequestra la mia attenzione.

L’animazione è dovuta anche al fatto che è venuto qualcuno, come me, per l’anniversario. E poi oggi è il giorno in cui sono uscite le liste e si è saputo che saranno otto i candidati a sindaco e ventidue le liste.
Ci raggiunge Barbara, è lei che ha messo assieme tutto il gruppo. È ora di andare a mangiare qualcosa. Il centro storico della città è senza abitanti, ma ci sono i locali. E sono essenzialmente posti per bere: la movida delle macerie.

Il candidato di Sel appoggia il sindaco uscente, invece l’architetto ex sessantottino è assai deluso dalla sua ricandidatura. A questo punto chiedo notizie dei vari movimenti e associazioni di cui si è parlato. Se ne contano diciassette, faccio fatica a fissarmi i nomi, le azioni svolte. Mi pare che la confusione regni sovrana e che alla fine alcune di queste esperienze sono poco significative, bolle mediatiche, barlumi di buona volontà o schiuma affaristica di una società che nel suo fondo è ferma, chiusa nel cerchio dei suoi monti.
Tutte queste esperienze sono disperse nelle liste che si presentano. Ho la sensazione che in molti casi ci si mette in moto solo per farsi notare e poi acquisire qualche fetta di potere. C’è anche chi ha ripulito una fontana o ha riparato una lapide alla base di una torre, c’è di tutto, la passione per il bene comune e quella per la propria immagine. Di certo spesso si tratta di storie che poco hanno inciso. Il partito più grande, quello più pericoloso in questi casi è sempre uno solo, è il partito dei tecnici. Lo abbiamo visto in Irpinia e lo vedranno anche a L’Aquila se i vari livelli governativi non decideranno di affidare a queste persone un ruolo meramente esecutivo. Ricostruire una città non può essere solo faccenda di matite e compasso.

Sono le due e mezza. Ripassiamo vicino al box donato da Google dove un architetto inglese, Barnaby, sposato con un’aquilana, in mattinata aveva spiegato a mio figlio il progetto di fotografare e far vedere tutta la città com’è adesso in 3D su Google Earth. Non sono sicuro di aver capito bene, ha parlato a mio figlio, mentre io fingevo un interesse che non avevo, non perché l’azione non sia interessante, solo perché oggi la mia curiosità non è vorace, e si concentra sempre più sulle cose.

Ho guardato la bellezza delle chiese. Quella di Collemaggio ha davanti un campo di calcio senza porte e senza linee, sembra un campo per le partite degli angeli. Un’altra chiesa molto meno famosa ha una facciata fatta di sassi messi alla rinfusa, magari non hanno avuto il tempo di finirla, e ora è una piccola meraviglia.
Dopo il sisma sono stati rilevati in tutto l’Abruzzo 1842 beni artistici, di cui oltre mille chiese, che per un terzo risultano inagibili. Sono stati spesi, giustamente, molti soldi per la messa in sicurezza di queste opere.

A giudicare da quel che ho visto e sentito la confusione in città è molto grande. Il modello Berlusconi ha lasciato sul campo un cuore ingabbiato e tante membra sparse: le 19 new town si aggiungono ai cinquantanove tra quartieri e frazioni in cui vivono solo settantamila abitanti, sparsi su una superficie di467 chilometriquadrati. Insomma, Berlusconi ha incentivato un delirio centrifugo in atto da molti decenni. E qui il valzer delle betoniere non ha ucciso solo il paesaggio, ma anche 309 persone. Le inchieste sono in corso, sembra difficile condannare l’oblio che ha permesso di costruire come se non ci fossero mai stati terremoti.
Penso a queste cose mentre attraverso la sterminata periferia della città in cerca dei paesi. È un’Italia appenninica che non è più sud e non è ancora centro. Sannio, Molise, Alta Campania, Abruzzo, Basso Lazio: qui ci sono fregi e sfregi come ovunque, in questi paesaggi è più difficile sentire la forza che avverto più sotto, tra la Lucania e il Cilento, per esempio.

La prima tappa è Onna. Il villaggio di casette impiantato per mostrare agli italiani l’efficienza del governo, è affiancato al paese ancora ingombro di macerie. Squarci buoni per fare delle belle fotografie, squarci che però illustrano impietosamente che la macchina della ricostruzione è inceppata. Se a L’Aquila si cammina tra palazzi di grande pregio, nei paesi gli effetti del sisma si sommano a quelli di antiche incurie: qui non vedo belle piazze, belle fontane, belle chiese. Questi paesi, queste frazioni sembrano perle di un rosario, il rosario dello sconforto: Onna, Monticchio, Ocre, San Gregorio, Fossa, Casentino, Tussillo, Villa Sant’Angelo, San Demetrio, Picenze, Pescomaggiore, Paganica, Bazzano.


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