Mille anni , ai tuoi occhi / sono come il giorno di ieri che è passato / come un turno di veglia nella notte.
Tu li sommergi :/ sono come un sogno al mattino / come l’erba che germoglia;/ al mattino fiorisce e germoglia/ alla sera è falciata e secca .( Salmo 89/90 ,12-14)

Proprio sul tempo del morire la filosofia di Qoèlet sembra senza orizzonte perché solo più tardi questo orizzonte con i Giudici e la Sapienza nelle Sacre Scritture si aprirà ad un oltretomba diverso.
Per Qoèlet l’oltretomba e la sua vita è quella dell’ade greco, un ade che per quanto felice voglia essere lo è sempre meno della vita più infelice sulla terra, Achille che sta per compiere il suo ultimo viaggio verso l’oltretomba afferma che avrebbe preferito restare in vita sulla terra anche in condizione di schiavitù piuttosto che andare come re nell’ade.
Certo il filosofo Qoèlet pur senza prospettiva di vita rispetto all’oltretomba esprime però una speranza che si sostanzia nel timore di Dio e nella necessità di osservare la sua legge e i suoi comandamenti. E’ una speranza che Cristo radicherà nel cuore dell’uomo trasformandone il senso e il significato .

Nel brano di oggi si porta l'esempio del lavoro (ma nel libro ce ne sono altri): si lavora, magari bene, si ha successo, si guadagna, e poi? Che cosa si ottiene infine? Quello che abbiamo faticosamente ottenuto di chi sarà? La nostra vita dipende dai beni guadagnati? (Vangelo).
Qoelet paragona la condizione umana a un rincorrere il vento, attività evidentemente tanto inutile quanto faticosa (2,11). Questo intende dire quando afferma, ed è il celebre motto iniziale del suo libro, che anche la liturgia ha posto all'inizio della lettura quasi come un titolo, che tutto è vanità.
L'affermazione non significa affatto che niente è importante, che la vita sarebbe da vivere con distacco, come cosa di poco valore. Questo è assurdo, dal momento che essa è l'unica cosa che abbiamo, tanto più nella prospettiva di Qoelet, che non prevede una vita ultraterrena. No, la vita è importantissima! Però non sembra approdare da nessuna parte, o almeno non riusciamo a cogliere un significato che ne spieghi quelle molte incongruenze che Qoelet è bravissimo a scovare. "Vanità" significa qualcosa di inafferrabile, che non si riesce a padroneggiare, come il vento appunto, che è perfettamente inutile rincorrere.
Qoelet distrugge così le nostre care soluzioni a buon mercato, che ci permettono di vivere come se tutto tornasse perfettamente. Soluzioni umane, da "persone normali"; ma anche soluzioni che ci vengono dalla fede cristiana, troppo rapidamente sciorinate senza un'adeguata assimilazione, che comporta sempre una fatica, una conquista. In tal modo, le grandi risposte cristiane da un lato funzionano come dei tranquillanti, servendo a calmare una certa ansia; dall'altro rimangono concretamente ininfluenti perché, non essendo frutto di cammino personale, non orientano l'esistenza concreta.
No, la fede non è un prontuario di ricette preconfezionate. Lasciamoci mettere in crisi dal Qoelet: Insomma, che cosa ci viene dal nostro affanno? Soltanto così potremo metterci in ascolto autentico del Signore, nell'attesa ardente di una sua parola: "Fa' che ascoltiamo, Signore, la tua voce" (salmo responsoriale).

Speranza si identifica in questo orizzonte ,nell’orizzonte della vita dopo la morte identificandosi con fede che sono , per il cristiano la certezza che Dio ci farà partecipi della sua vita, quella vita che ha come metafora l’amore e che per se stessa è completamente diversa da quella che viviamo sulla terra e che comunque pure possiamo cominciare ad assaporare in quello che è il pegno e il dono che Cristo ci ha lasciato : l’eucarestia.
D’altra parte nel Vangelo del venerdì della settimana precedente a questa XVIIIa Domenica del tempo ordinario , anno C, Cristo ci ha detto che proprio per la nostra incapacità a comprendere, se non per la nostra incredulità egli non è andato oltre nella rivelazione del Padre e che le cose che ci ha rivelato sono sufficienti . Ci basta quello che possiamo apprendere dalle sue parole e non andare a cercare altrove , senza far ricorso a nessun’altra fonte che potrebbe sviarci o essere addirittura ingannevole.
Tornando ancora a Qoèlet , è alla sua luce che possiamo leggere il racconto di Luca (12,13-21) nel quale Cristo non condanna il benessere , l’abbondanza materiale . Mette in guardia contro la cupidigia e la stoltezza. La stoltezza di credere che la vita dipenda da quello che si possiede.

«Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Questo ammonimento di Gesù ci colpisce direttamente! La nostra cultura ci insegna che i più “bravi” sono coloro che riescono a guadagnare. Si parla tanto del denaro come se fosse la cosa più importante! I soldi però spesso ci fanno dimenticare Dio.
Possiamo avere tutte le ricchezze di questo mondo, ma quando la nostra esistenza terrena sarà terminata non serviranno più a nulla!
Gesù è chiaro, ci dice che saremo giudicati sull'amore donato ai nostri fratelli, non su quanto possediamo! Se nella nostra vita saremo capaci di mettere al centro il Signore ed impareremo ad amare Lui e i nostri fratelli, allora anche i beni materiali avranno senso. Infatti se utilizziamo questo metro di misura, ci rendiamo conto che tutto quello che possediamo è dono di Dio e come tale non va sperperato, ma anzi non sarà nemmeno faticoso donare qualcosa di nostro ai fratelli che sono nel bisogno!
C'è un santo che, secondo me, più di tutti è riuscito a mettere in pratica questo insegnamento: Francesco d'Assisi.
D’altra parte , come scrive don Adriano Caricati in "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Anno C, Ave, Roma 2009

Nel programma etico di Luca la componente socio-economica ha un posto preponderante: il corretto uso dei beni è visibilmente per Luca un problema centrale, e non è difficile percepire in questa sua insistenza, la preoccupazione di rivolgersi a una comunità cristiana ricca, o piuttosto di interpellare i ricchi presenti tra i lettori cristiani a cui si rivolge la sua opera.
In questo contesto comprendiamo l'importanza del brano che oggi leggiamo per i discepoli in cammino con Gesù, per noi che oggi ci troviamo in un contesto di ricchezza e in un contesto di economia in radicale trasformazione: che cosa significa "ascoltare la Parola di Dio" per noi, oggi? Che cosa ci insegna Luca nel contesto della radicale novità culturale in cui la Parola di Dio ci raggiunge, oggi, e la grazia del Vangelo vuol fare di noi uomini nuovi?ci accompagnano nella vita eterna: la fede, l'amore, i sacrifici, l'aiuto al prossimo, l'impegno per il vero bene della famiglia, della Chiesa, della società, i valori di Dio e del vangelo a fondamento della propria vita e della propria famiglia, il lavoro come mezzo vero di sussistenza per sè, per la famiglia e per l'amore al prossimo e non solo per accumulare o sprecare denaro. E' questo il significato della espressione di Paolo: "Cercate le cose di lassù, non quelle della terra"; in un altro testo dice: "le cose materiali, visibili sono di un momento, le cose invisibili sono eterne".
"Anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni". Cos'è che conta, che ha durata nella nostra vita? Gesù ci insegna che i soldi, il lavoro, i beni materiali devono essere un mezzo per vivere, non il fine per il quale si vive.
E allora ci viene avanti una domanda :Quello che hai preparato, di chi sarà?


Questa voce fuori campo sembra irrompere nel racconto, come a squarciare il velo di illusione in cui è avvolto, forse anche senza rendersene conto appieno, il ricco latifondista. È una voce che riconduce a un sano realismo. È una voce che rimette nel giusto ordine ciò che conta rispetto a ciò che è inesorabilmente votato a passare. Ma oggi sembra essere una voce molto poco ascoltata. Gesù, con la parabola, non sta mettendo in discussione la legittimità del possedere. Egli, piuttosto, contesta radicalmente la pretesa di far dipendere il senso del vivere e l'origine della felicità da ciò che si possiede. Il proprietario, ripiegato su di sé, sembra ripetere a mo' di monotona litania, l'aggettivo possessivo mio (vv. 17-18: il mio raccolto, i miei magazzini, i miei beni), senza riuscire mai a levare lo sguardo dalle sue tasche e dal suo ventre. È talmente impegolato in ciò che possiede da aver smarrito ogni contatto con ciò che gli sta intorno. Non è più capace nemmeno di godere di ciò che possiede in compagnia di altri. Progetta soltanto di chiudere i suoi beni in forzieri più capienti, per poterne usare e abusare da solo, dandosi ad ogni piacere per gli anni a venire (che ha autonomamente deciso debbano essere tanti). È un uomo che ha smarrito il senso del limite e della misura. Per questo è necessario farlo confrontare con il limite radicale e insuperabile dinnanzi a cui tutto ciò che possiede non è in grado di opporre nulla di convincente: la morte. La sfida di questo limite estremo è l'unica "misura" capace di ri-dimensionare la pretesa di onnipotenza di quest'uomo.

2. La parabola si conclude con una domanda ironica e amara: "Quello che hai preparato di chi sarà?" (v. 20). È una domanda che dovrebbe squarciare anche i veli delle nostre illusioni. È un interrogativo che ci invita a operare un serio discernimento sul nostro modo di usare le ricchezze, distinguendo tra ciò che compiamo per "arricchire dinnanzi a Dio" (v. 21) e ciò che accumuliamo per noi stessi. Alla base c'è sempre una questione di orientamento di fondo. Utilizzare dei beni di questo mondo è un dato di fatto, una condizione dalla quale non possiamo né dobbiamo sottrarci. Sapremo farlo secondo Dio solo non smarrendo l'orientamento, la direzione, la meta verso cui siamo incamminati. L'indicazione paolina a vivere in prospettiva dell'incontro definitivo con il Signore implica che: "quelli che comprano, - vivano - come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!" (1Cor 7,30-31).
Ma se è chiaro il fine verso il quale siamo incamminati, è altrettanto importante non dimenticare che la strada da percorrere siamo chiamati a farla insieme. Ed è per questo che la lezione di Gesù diviene esigente: siamo chiamati a saper usare delle ricchezze di questo mondo condividendole con coloro che non ne hanno. La lezione del Concilio ci ricorda che: "Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene, all'uso di tutti gli uomini e popoli, così che i beni creati devono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, avendo come guida la giustizia e compagna la carità. Pertanto, quali che siano le forme della proprietà, adatte alle legittime istituzioni dei popoli, in vista delle diverse e mutevoli circostanze, si deve sempre ottemperare a questa destinazione universale dei beni" (GS 69).
La celebrazione eucaristica ci ricorda in modo chiaro ed eloquente la prospettiva escatologica della vita cristiana quando, immediatamente dopo le parole dell'istituzione dell'Eucaristia, l'assemblea prorompe in una acclamazione: "Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta". Il cuore del mistero pasquale, di cui l'Eucaristia è memoria viva e attuale, ci apre al futuro di Dio orientando i nostri passi nell'oggi della storia.”

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