reportage
La sfida per far
rinascere i paesi abbandonati dell’Abruzzo
Rocca Calascio, luglio 2014. (Bruno Zanzottera,
Parallelozero)
Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale
Un paese ci
vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non
essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di
tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. (La luna e i falò,
Cesare Pavese)
A Valle
Piola non abita più nessuno. Il paese è un agglomerato di case, con una chiesa
e un mulino nel parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga,
si trova a più di mille metri, sul monte Farina. L’ultima famiglia di residenti
ha lasciato il borgo nel 1977 e da allora le case, i fontanili, le strade, il
campanile sono stati lasciati soli in compagnia dell’abbandono.
La
vegetazione si è riappropriata lentamente delle costruzioni e i muretti fatti
di pietre hanno cominciato a cedere. La chiesa è tenuta in piedi da uno
scheletro di tubi Innocenti, gli affreschi sono scrostati. I santi, ritratti
sul soffitto della chiesa, ormai sono sbiaditi e mostrano il loro fondo di
calce.
Il paese di
quindici case si trova in una conca e si nasconde alla vista fino a quando si
arriva molto vicini all’abitato. Si raggiunge attraverso una strada sterrata
che si perde nella montagna e poi diventa una mulattiera. I tetti sono dello
stesso colore degli alberi e le case sembrano lucertole che si mimetizzano con
la natura che le circonda.
“Una volta
c’erano due mulini che macinavano il grano a Valle Piola. Gli abitanti del
posto vivevano di quello che producevano: formaggio, legumi, farro, patate”,
spiega Romina D’Andrea che oggi lavora per la pro loco di Torricella Sicura e
gestisce un piccolo rifugio restaurato da poco nel paese disabitato.
“Gli
abitanti di Valle Piola parlavano un dialetto diverso da quello di ogni altro
paese della zona, quelli dei paesi vicini non li capivano, era un dialetto di
origine longobarda”, racconta. D’inverno il borgo rimaneva isolato, era
difficile con la neve raggiungerlo attraverso l’unica mulattiera. “Abbiamo
conosciuto la maestra di Valle Piola che si era trasferita quassù perché era
impossibile viaggiare ogni giorno. Di mattina insegnava ai bambini e di sera
agli adulti, che erano analfabeti”.
Il paese è
stato un rifugio per i briganti e per i contrabbandieri grazie al suo
isolamento
Nei fine
settimana, da maggio a ottobre, Romina viene a Valle Piola per offrire un pasto
caldo e un punto di sosta a qualche turista che decide di scoprire questo
scorcio di parco.
Nell’unico
edificio del paese, restaurato nel luglio del 2014 con i fondi pubblici, ci
mostra una delle particolarità architettoniche di Valle Piola: un balcone di
legno di epoca longobarda, il gafio, testimonianza del passaggio in queste zone
della popolazione germanica.
Gli edifici
di Valle Piola sono dell’ottocento, ma il primo documento che attesta
l’esistenza del borgo è del 1059. Nei secoli il paese è stato un rifugio per i
briganti e per i contrabbandieri, grazie al suo isolamento. E durante la
seconda guerra mondiale ha nascosto un gruppo di partigiani. Ma poi, dopo la
guerra, è cominciato lo spopolamento, come in migliaia di paesi dell’Appennino
centrale. I giovani si sono spostati verso le città e i centri più grandi
attirati dal lavoro e dalle fabbriche, e hanno abbandonato la pastorizia e le
colture tipiche delle zone di montagna.
“Gli atti
vandalici avevano ridotto questo posto proprio male. C’è voluto del coraggio
per aprirlo di nuovo. Non avevamo soldi per rimettere a posto il rifugio e così
abbiamo chiesto aiuto agli amici. Qui tutto, ogni singola sedia ha una storia,
è il regalo di qualcuno”, racconta Romina mentre sistema la carne sulla brace nell’unico
grande camino.”Noi siamo legati a Valle Piola perché venivamo qui da bambini
con i nostri genitori a fare passeggiate, e quando passeggiavamo da queste
parti sentivamo la presenza dei vecchi abitanti, delle loro storie”, racconta.
“Ci immaginavamo come dovesse essere vivere in queste vecchie case isolate da
tutto”.
Romina nella
vita fa la commessa, è sposata, ha dei figli, anche se è giovane. Per lei
ritornare a Valle Piola, occuparsene, è un modo per fare i conti con la sua
identità, cercare tra le mura diroccate il senso del movimento dei suoi
antenati che hanno deciso di scendere a valle, verso le strade, verso le città,
verso il mare, in cerca di risorse e di ricchezza.
Come ha
spiegato Vito Teti nel suo libro Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati:
L’abbandono
segna la fine di un paese, ma comporta in genere la nascita di uno o più paesi
nuovi. […] Le rovine, i resti, i ruderi alludono quasi sempre a una
costruzione, a una rinascita altrove. Anche per queste ragioni la rovina si
consegna come segno di vita, come materiale e simbolo necessari per una
costruzione problematica dell’identità dei luoghi”.
Spesso per
ogni paese abbandonato, c’è un paese nuovo più a valle, un paese più facile da
raggiungere o al riparo da intemperie e calamità naturali, dove gli abitanti
dell’antico borgo si sono trasferiti.
Il paese
vecchio e quello nuovo restano legati, non fosse altro che nella testa e nei
discorsi delle persone. Così gli abitanti di Torricella Sicura tornano spesso a
visitare quello che si sono lasciati alle spalle, ripropongono le tradizioni
locali, organizzano feste tra le mura diroccate di Valle Piola in nome di un
folclore non necessariamente filologico, che li aiuta a fare i conti con la
nostalgia. Scrive ancora Teti:
Le porte
aperte incutono rispetto, si fatica a entrare in case dove ancora aleggia la
vita, dove le persone sembrano essersi allontanate solo per un attimo. Senti
come aggirarsi gli spiriti dei defunti. Le porte chiuse con le tavole
inchiodate ti danno la sensazione di un possibile ritorno dei proprietari delle
case. Vedi la natura che lentamente trionfa nella forma di una pianta di fico,
e le costruzioni che lentamente cedono, ma i giochi non sono ancora fatti.
Basterebbe un rinsavimento di qualcuno e quelle case tornerebbero abitabili”. (Il
senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati)
A Romina e
altri ragazzi della pro loco mancano i fondi per far rinascere Valle Piola.
Così l’amministrazione comunale di Torricella Sicura (proprietaria di tre
immobili) e un privato, che possiede la maggior parte degli edifici del borgo,
hanno deciso di mettere in vendita il paese per 550mila euro. Un intero paese
medioevale nella provincia di Teramo in vendita su internet, allo stesso prezzo di un
appartamento di media grandezza in città.
Fabio Pisi
Vitagliano fa parte del gruppo Valle Piola rebirth team, una squadra di quattro
persone che stanno provando a vendere il borgo. “Abbiamo stimato che il
restauro di Valle Piola costerà circa cinque milioni e mezzo di euro. La
difficoltà più grossa è l’isolamento del paese che si trova in cima a una
montagna”, spiega. Tuttavia il gruppo ha ricevuto delle proposte da diversi
investitori, soprattutto stranieri.
“Abbiamo
ricevuto diverse proposte, ognuna con la sua idea di recupero: chi vuole farci
un albergo diffuso sulla falsa riga del paese più vicino, Santo Stefano di
Sessanio, o dei più famosi come Alberobello e Matera. Un altro gruppo ha
proposto di realizzare un centro di riabilitazione per atleti. E c’è chi
vorrebbe recuperare Valle Piola per farne un ecovillaggio. Questa è l’idea di
un potenziale investitore francese”.
La proposta
di un ecovillaggio è quella che convince di più Pisi Vitagliano e gli altri
perché consentirebbe di conservare anche lo spirito del luogo, con le sue
tradizioni e il suo rapporto speciale con la natura. Ma gli abitanti del posto
sono spaventati dall’idea. La costruzione di un ecovillaggio implicherebbe
delle scelte radicali: materiali non inquinanti o di recupero per il restauro,
sobrietà negli allestimenti e negli arredi, il ritorno a una forma di
autosufficienza e la rinuncia alla tecnologia.
Romina
D’Andrea è scettica: “Ho parlato a lungo con l’investitore che ha in mente il
progetto, è venuto a stare al rifugio per lunghi periodi. Ormai è un amico. Il
suo progetto però è un po’ troppo radicale, rinunciare del tutto a certe
comodità non ha senso”.
Uno strano
destino è toccato ad alcuni di questi paesi italiani: abbandonati nel novecento
a causa dell’inurbamento delle masse contadine, da qualche anno sono stati
presi di mira da cittadini nostalgici, gruppi di neohippie che ne vogliono fare
un rifugio, dove stare al riparo dalla modernità.
La tutela del patrimonio storico minore
Secondo una
ricerca condotta nel 2012 dall’urbanista Luca di Figlia dell’università di
Firenze, almeno 186 paesi italiani sono completamente abbandonati. “Lo
spopolamento dell’Appennino centrale è cominciato negli anni venti del
novecento e poi si è intensificato dopo la seconda guerra mondiale”, spiega
Pierluigi Magistri, professore all’università Tor Vergata di Roma.
Le ho viste
tutte, le mie belle addormentate. Le ho viste spegnersi lentamente, oppure già
rassegnate, o anche orgogliose e vive dibattersi come pesci nella rete.
L’Italia abbandonata è il rovescio della medaglia, una cartina turistica letta
al contrario. Non è solo montagna, dissanguata dalla natalità zero e
dall’emigrazione. È anche pianura, o persino isole. È l’Italia perduta, messa
ai margini della storia, punita dalle istituzioni, occultata dai navigatori
satellitari, non coperta dalla rete dei cellulari, ignorata dal wifi. Città e contrade
senza più abitanti, di colpo svestite da chi le ha vissute spesso per secoli.
Perché a valle c’era più lavoro, o perché i vecchi non lasciavano eredi, ma
soprattutto perché tutto frana in questo povero stivale. Terremoti,
smottamenti, alluvioni, ma anche soltanto un po’ di pioggia. È di questo
Belpaese estinto che voglio tornare a parlare, perché le città-fantasma sono
tante cose: un soggetto antropologico, una bizzarra guida turistica, un cahiers
de doléances, un atto d’amore. (Le belle addormentate, Antonio Mocciola).
“Dalle aree
interne dell’Abruzzo migliaia di persone si sono spostate verso la costa e
verso le città come Roma, ma anche verso i paesi del Nordamerica e del
Nordeuropa”. Secondo alcune stime, circa un milione e duecentomila abruzzesi
hanno lasciato la regione dal 1861 a oggi. Da qualche anno però in molti si
sono messi in testa di rilanciare il patrimonio storico minore italiano, perché
nel fondo dell’abbandono hanno visto un’idea di sviluppo per il paese.
In Italia
abbiamo sempre tutelato le glorie dei papi, le glorie dei Cesari e non abbiamo
tutelato queste glorie minori
L’ideologo
del recupero dei borghi abbandonati e di quello che è definito “tutela del
patrimonio storico minore” è l’imprenditore milanese di origine svedese Daniele
Kihlgren. A Santo Stefano di Sessanio, un paese adagiato su una collina,
circondato da campi di lenticchie, arrivano oggi più di diecimila visitatori
all’anno, per metà stranieri, mentre prima del 2005, quando è partito il
progetto di recupero di Kilhgren, vivevano nel borgo circa venti persone.
“Sono
arrivato a Santo Stefano di Sessanio per caso, nell’anno del signore 1998.
Anche se era un luogo che stavo cercando da tanto tempo, perché l’Italia è
piena di questi borghi storici, spesso rimasti in piedi proprio grazie
all’abbandono”, racconta Daniele Kihlgren. L’imprenditore ha dedicato la sua
vita al recupero dei borghi e della cultura contadina e pastorale che li ha
creati.
Kihlgren è
sicuro che oggi questi paesi “possano essere un grande motore dell’economia
locale, oltre che essere meta di turismo”. Per questo ha investito nella
creazione di uno dei primi alberghi diffusi in Italia a Santo Stefano di Sessanio.
“Questi luoghi storici della marginalità e dell’abbandono possono proporsi per
un turismo che ha sempre più fame dell’Italia autentica”, afferma.
Kihlgren ha
scelto di recuperare Santo Stefano perché nel paese, a differenza che altrove
in Italia, si è conservato un rapporto integro tra il borgo e il paesaggio
circostante, non sono stati costruiti nuovi palazzi ed edifici intorno al
vecchio abitato, non c’è traccia del ventesimo secolo.
L’imprenditore
milanese è convinto che proprio l’isolamento abbia preservato queste località
dalla cementificazione e dalla speculazione edilizia. Per questo oggi può
essere lanciato un messaggio di riscoperta, ma anche di tutela.
Una sfida
difficile
“Il
paesaggio è praticamente identico a quello di trecento anni fa, questo è il
valore aggiunto di Santo Stefano di Sessanio. La sua capacità di seduzione. È
il portato della povertà, dell’emigrazione, delle storie tragiche delle
popolazioni di queste terre che ci hanno restituito un paesaggio intatto. Oggi,
e da dieci anni a questa parte, la sfida è quella di far entrare la tutela del
paesaggio nei programmi della politica”. In Italia, continua Kihlgren, “abbiamo
sempre tutelato le glorie dei papi, le glorie dei Cesari e a mio avviso non
abbiamo tutelato queste glorie minori, il patrimonio storico minore,
estremamente suggestivo”.
Daniele
Kihlgren ha affidato al museo delle genti d’Abruzzo di Pescara e in
particolare all’antropologa Nunzia Taraschi una ricerca etnografica
approfondita sugli usi e costumi del paese abruzzese. “Siamo partiti dalle foto
degli interni delle case abruzzesi degli anni trenta, e poi abbiamo condotto
una ricerca anche sulle culture materiali come il cibo e l’artigianato
domestico intervistando agli anziani”.
Secondo
Kihlgren, in molti paesi recuperati dell’Italia rurale e montana si costruisce
una cultura mistificata del posto: “Vanno di moda il finto medioevo o il
fantasy: streghe, gnomi, fatine. Una mistificazione dell’immaginario collettivo
che si estende a questi luoghi abbandonati”. Per Kihlgren, invece, è necessario
un lavoro approfondito e storiografico di riscoperta dei luoghi.
Un progetto
culturale, articolato e portato alle sue estreme conseguenze, ha permesso il
recupero del borgo, ma anche lo sviluppo economico del territorio. Dal 2005 a
oggi a Santo Stefano di Sessanio sono sorti, sulla scia dell’albergo diffuso di
Kihlgren, circa venti alberghi.
L’antropologa
Nunzia Taraschi racconta che il progetto di Santo Stefano è del tutto
sperimentale: “Per la prima volta una ricerca etnografica non porta solo alla
pubblicazione di un articolo o alla realizzazione di un museo, ma serve
d’ispirazione per un progetto di restauro di un intero borgo”. È stata,
continua Taraschi, “una sfida difficile, ma molto bella, perché abbiamo visto
rinascere il borgo e l’economia locale. Gli abitanti hanno avuto la possibilità
di poter investire qui e di non essere costretti a immaginarsi un futuro
altrove”, afferma Nunzia.
Il lavoro di
restauro è stato ovviamente anche un lavoro di salvaguardia, così quando il
paese è stato colpito dal terremoto nel 2009, gli edifici restaurati hanno in
gran parte retto alla scossa che, invece, ha distrutto centinaia di abitazioni
nella stessa zona.
Una bellezza a cui non ci si abitua
A pochi
chilometri da Santo Stefano di Sessanio c’è Rocca Calascio. Un tempo era una specie di
capitale della pastorizia abruzzese: passavano da questo crinale le greggi di
pecore e i loro pastori che sul finire dell’estate intraprendevano i tratturi,
strade larghe undici metri, che collegavano Campo Imperatore con il Tavoliere
delle Puglie, in cerca di pascoli per gli armenti e di un inverno più mite. Per
poi fare il percorso inverso in primavera.
Di settembre
allor verso la fine / lassù nel nostro Campo Imperatore / sull’alte vette, e
pur sulle colline / vi scende della neve il bel candore / bianche le valli ed
il piano di brine / ti punge il freddo le greggi e il pastore / non vi ponno
più stare senza ripari / a partire convien che si prepari”. (Francesco
Giuliani, pastore e poeta di Castel del Monte)
La torre
fortificata domina l’altopiano di Navelli: distese morbide di lenticchie,
zafferano e patate. È una fortificazione sobria e altera di pietre bianche, che
si staglia su uno sperone di roccia a 1.460 metri d’altezza. Nelle giornate
senza foschia dalla rocca si arriva a vedere l’Adriatico, a ovest il monte
Sirente e il Velino, a nord il Gran Sasso e Campo Imperatore, a sud la piana di
Navelli.
Un tempo gli
abitanti del posto vivevano della vendita della lana e dei formaggi, ma con la
crisi della pastorizia anche a Rocca Calascio è toccata la sorte
dell’abbandono. Centinaia di persone sono partite da questo borgo, tra i più
belli d’Italia, per cercare lavoro in Nordamerica, nelle miniere del Belgio e
nelle fabbriche svizzere e tedesche.
La torre
fortificata di Rocca Calascio è rimasta una cartolina per gli amanti dei
paesaggi spogli e ocra dell’Appennino. Negli anni ottanta è stata riprodotta
anche in una serie di francobolli da cinquanta lire dedicata ai castelli
d’Italia ed è stata usata come scenografia per alcuni film come Francesco,
Il nome della rosa, Lady Hawke e The american. Malgrado la
sua rara e raffinata bellezza, fino alla fine degli anni novanta del novecento
il borgo è stato lasciato nell’incuria.
A Campo
Imperatore i pastori sono rimasti in pochi e la transumanza passa ormai
dall’autostrada. I pastori non sono italiani, la maggior parte di loro ha
origini macedoni, alcuni non parlano italiano e chi lo parla ha acquisito un
fortissimo accento foggiano.
La maggior
parte dell’anno, infatti, vivono in Puglia, poi a maggio fanno la transumanza
con i camion, caricano pecore, cavalli e mucche sui loro mezzi e li portano a
Campo Imperatore dove li tengono fino a ottobre. La vita del pastore non è
cambiata molto rispetto al passato: si dorme in stazzi di cemento in alta
quota, ci si sveglia presto, prima che sorga il sole, si accudiscono le bestie,
ci si difende da lupi e predatori. Ma non si fa più il pellegrinaggio a Santa
Maria della Pietà, una chiesetta ottagonale edificata vicino alla Rocca di
Calascio, sul sentiero che porta a Santo Stefano di Sessanio.
La domenica
però nella casa di cemento del pastore, vicino al lago Racollo, uno specchio
d’acqua in cui si abbeverano le bestie sulla piana di Campo Imperatore,
arrivano coppie in motocicletta, famigliole in macchina, turisti incuriositi
dal cartello che sulla strada indica “Vendesi formaggi”.
Gli
avventori chiedono al pastore di vedere l’esposizione di caciocavalli e di
pecorini. Allora il pastore macedone, con la pelle scottata dal sole, apre la
porta della stanza in cui sono messi a stagionare i formaggi, come in una
solenne liturgia. E lì svela i suoi tesori: tutti ordinati, in fila. Sopra i
formaggi più freschi, sotto gli stagionati. Chi è fortunato trova il pastore
mentre impasta il formaggio, ne taglia dei pezzi che poi modella con le mani
come fossero vasi di ceramica su un tornio. Tutti se ne vanno con un bottino
tra le mani. Qualcuno ritorna. Qualcuno decide di restare.
Susanna
Salvati e la sua famiglia hanno scoperto Rocca Calascio per caso, passeggiando
per l’Appennino e si sono innamorati della bellezza del posto, “una bellezza a
cui non ci si abitua”.
“Abbiamo
scoperto Rocca Calascio tornando da una gita invernale, un gennaio, di
pomeriggio, con il brutto tempo, in un momento in cui la Rocca non era nemmeno
particolarmente accogliente”, racconta Salvati. “La Rocca era in una condizione
terribile. Bisognava scavalcare le macerie per camminare, le imposte cigolavano
nel vento, era un po’ spettrale”.
Per il
desiderio di vivere sulla Rocca, Susanna Salvati e Paolo Baldi hanno lasciato
il loro lavoro e la loro città, Roma. Una ventina di anni fa hanno deciso di
investire sulle rovine e sui vecchi sassi del paese. “Avevo un lavoro stabile a
Roma, lavoravo per l’Ibm”, racconta Salvati. La famiglia Baldi, con tanto di figli
al seguito, si è trasferita sulla Rocca e ha aperto un piccolo rifugio per i
turisti. “C’era una grossa richiesta di ospitalità da queste parti e non
c’erano le strutture, i primi tempi chi passava a visitare la Rocca ci chiedeva
di usare il bagno o un po’ d’acqua. Per questo abbiamo capito che potevamo
aprire un rifugio e un ristorante”.
L’attività
della famiglia si è allargata negli ultimi vent’anni e il rifugio è diventato
un albergo diffuso. Per offrire ospitalità ai turisti, è stato necessario
restaurare una a una le vecchie case del borgo, ormai senza tetti e ridotte a
mucchi di macerie.
“Ci siamo
imbarcati in un lento lavoro di restauro. Abbiamo cercato di riusare i
materiali e di non modificare nulla dell’assetto originario. Abbiamo restaurato
otto edifici in tutto. Una delle case che abbiamo restaurato l’abbiamo
destinata a sala della musica. Abbiamo una collaborazione con il maestro Orazio
Tuccella del conservatorio dell’Aquila e organizziamo concerti di altissimo
livello nella piccola sala della musica”, racconta Salvati.
“Per gli
abitanti di Calascio la Rocca era un luogo da cui scappare perché rappresentava
la sofferenza, la miseria da cui erano fuggiti anni prima. Quando abbiamo
proposto di comprare le vecchie case ci guardavano come fossimo pazzi, ci
proponevano altre case più comode”, racconta.
Susanna è
ancora incredula di fronte all’impresa che ha realizzato insieme alla sua
famiglia: “Ancora oggi, dopo vent’anni, quando mi affaccio alla finestra della
mia casa in alcuni momenti mi sorprendo di questo paesaggio, di questo sguardo
che si spinge a perdita d’occhio e mi meraviglio di fronte a tanta bellezza”.
Eremo Rocca Santo Stefano martedì 12 gennaio 2016
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