SILLABARI : Disillusione e progressivismo conformista alle radici della tragedia del pensiero moderno
Dopo aver riflettuto in un altro post della rubrica “ Il canzoniere” sul tema del conformismo prendo in prestito dal blog www.mentereale.com un articolo di Francesco Lamendola che riproduco integralmente sperando di fare cosa utile a chi lo vuole leggere
Due sono i grandi mali di cui soffre il pensiero contemporaneo e, più in generale, di cui soffrono la sensibilità e la cultura contemporanee: la disillusione dell'uomo verso se stesso, e un progressivismo tanto meccanico quanto ottuso e irresponsabilmente conformista.
Sono le due bandiere che garriscono al vento sulla nostra megalopoli globale, le due parole d'ordine senza le quali non si fa carriera nelle università, non si pubblicano libri ed articoli, non si viene invitati ai salotti televisivi. In breve, sono i due tumori che stanno distruggendo l'organismo sociale e spirituale della nostra civiltà, e contro i quali non si può non levare la voce, denunciando l'inganno, la mistificazione e il ricatto morale poggianti su di essi.
La disillusione degli uomini nei confronti di se stessi incomincia a serpeggiare, in Europa, all'indomani del Rinascimento; e, da allora, non ha fatto altro che avanzare, come un verme dentro la mela, silenziosa e tenace. Si confronti un quadro del Cinquecento ed uno del Seicento. Nel primo trionfa la figura umana, che occupa il centro della tela: che si tratti di una scena sacra o profana, di una allegoria della natura o di un episodio della storia biblica, di un ritratto vero e proprio o di una sacra conversazione, la figura umana è al centro della scena, vittoriosa, trionfante, in tutta la sua bellezza e in tutto il suo splendore: si pensi alla «Primavera» o alla «Nascita di Venere» di Botticelli. Tuttavia, anche se essa non è al centro, come ne «La tempesta» di Giorgione, nondimeno è lei a scandire lo spazio, con la sua presenza, con la sua attrattiva, con la sua radiosa dignità.
Nella pittura del Seicento la figura umana si fa piccola, piccola; diviene un elemento minuscolo, se pure è presente, in un paesaggio grandioso e solenne, carico di mistero; spesso sono foreste ombrose, montagne incombenti, ruderi e rovine smisurate di templi invasi dalla vegetazione, il tutto pervaso da una intensa malinconia e quasi da un sentimento di oppressione. Persino gli artisti più imbevuti della lezione rinascimentale e classicista, come Nicolas Poussin e Claude Lorrain, non si sottraggono a questa nuova suggestione: la natura è diventata, di colpo, smisurata; l'uomo è diventato improvvisamente piccolo. In questa natura immensa e vagamente minacciosa, l'essere umano, per la prima volta, appare come un ospite, quasi un intruso, e non più in veste di orgoglioso dominatore. Si direbbe che il paradigma copernicano, diffuso vigorosamente da Galilei, abbia relativizzato quasi da un giorno all'altro la posizione dell'uomo nella natura, e abbia sostituito alle fiere certezze un diffuso sentimento di stupore, di modestia, perfino di inadeguatezza. Ed ecco che l'essere umano, per una volta, non è più la misura di tutte le cose, ma una minuscola creatura che a stento riesce a intuire l'incommensurabile grandezza del mondo che la circonda.
Nella letteratura e nella poesia, l'impressione è esattamente la stessa: è tutto un modo di vedere se stesso e il reale che va in crisi, nell'Europa del XVII secolo, parallelamente all'avanzare della Rivoluzione scientifica e all'affermarsi del nuovo paradigma culturale. L'uomo è stato detronizzato; e non si è mai più ripreso da quel trauma, anzi, da allora non ha fatto altro che sentir crescere in se stesso il senso di disillusione, coltivandolo gelosamente. Né l'Illuminismo, né il Positivismo e il Neopositivismo sono valsi a restituirgli lo scettro del mondo: lo hanno affidato alla Ragione, che è cosa completamente diversa: perché tutti gli allori e i trionfi della scienza e della tecnica non sono più stati ascritti a merito dell'uomo, ma della sua ragione, e soltanto di essa. In lui si è creata una spaccatura, che non ha fatto altro che crescere sempre di più, giorno dopo giorno, facendo aumentare, in proporzione, il suo smarrimento, il suo disagio, il suo disincanto. Tutta una serie di profeti del nulla sono saliti in cattedra, per predicare ed inculcare nelle ultime generazioni la convinzione che l'uomo sia nulla, che venga dal nulla e che vada verso il nulla; che al suo fondo si agitino impulsi tenebrosi di parricidio e di morte; che la sua parte oscura domini largamente su quella luminosa, ammesso e non concesso che quest'ultima esista davvero, e non sia, piuttosto, una miserevole maschera che egli indossa per nascondere agli altri ed a se stesso la propria vergogna, la propria viltà e la propria angoscia.
L'ultimo di tali profeti della disillusione e del nichilismo è stato Freud, il grande maestro del sospetto, che è stato innalzato alle glorie degli altari di una strana religione alla rovescia, basata sulla celebrazione di quanto vi è di più abietto e riprovevole nella natura umana, dietro le apparenze di un volonteroso clero mercenario, autonominatosi esperto in psicanalisi, che, in teoria, è impegnato a combattere una strenua battaglia per salvare quanto rimane della «civiltà» dalle tendenze distruttive presenti nell'uomo medesimo. Ora, la disillusione non nasce dal niente: nasce come reazione ad una sopravvalutazione che vi era stata in precedenza. Nel Rinascimento, l'uomo si era sopravvalutato: la Riforma protestante e la Rivoluzione scientifica sono state le energiche reazioni a tale sopravvalutazione, che lo hanno portato ad un eccesso di perplessità e di scoraggiamento. Per Lutero e per Calvino, l'umanità non è altro che una massa dannata; così come per Galilei e, poi, per Newton, il mondo non è che un grande disegno geometrico. L'uomo ha perduto ogni fiducia in se stesso, così come il mondo ha perduto ogni fascino arcano ai suoi occhi, riducendosi ad una mera equazione matematica. La nevrosi attivistica del calvinismo e l'ossessione scientista della manipolazione e del dominio sulle cose sono le due reazioni patologiche a questo trauma insanabile.
In altre parole, abbiamo delegato al capitalismo e alla matematica l'impossibile compito di redimerci e di salvarci dalle forze avanzanti del Nulla. D'altra parte, la disillusione dell'uomo moderno nei confronti di se stesso è controbilanciata, almeno in apparenza, dalla nascita di una nuova religione destinata a soppiantare quella dei padri: la religione del Progresso. Si afferma una visione progressiva della storia e del sapere, basata sull'idea che l'accumulo delle conoscenze porterà le «magnifiche sorti all'intera società» (occidentale): idea meramente quantitativa, fondata sul dubbio pregiudizio che sapere più cose equivalga a saper vivere meglio.
È da questo pregiudizio che nasce la fiducia sempre più illimitata nella tecnica, la quale prende avvio con l'«Encylopédie» e culmina nella scoperta e nell'impiego dell'energia nucleare, nello sviluppo impetuoso dell'elettronica, nelle imprese spaziali e nella manipolazione genetica dell'ultimo sessantennio. È come se l'uomo, perduta la fiducia in se stesso, avesse trasferito tutte le precedenti, smodate aspettative, in un surrogato della propria umanità: la tecnocscienza, figlia inaspettatamente gigantesca di due genitori alquanto perplessi e disorientati. È ben questa religione del Progresso, che ci incoraggia a coltivare la folle idea secondo la quale non è importante ritrovare l'armonia con noi stessi e con il mondo, ma che, per salvarci, sarà sufficiente mettere a punto una tecnologia interplanetaria, che ci consenta di colonizzare altri corpi celesti; restando sordi e ciechi davanti all'evidenza che, così facendo, l'umanità non farà altro che esportare sempre più lontano la propria angoscia e la propria disperazione, e che ovunque finirà per reiterare gli effetti devastanti di un rapporto violento e puramente utilitaristico fra sé e la natura. Così, paradossalmente, l'uomo contemporaneo è scisso in due parti opposte e tuttavia complementari: una che scaturisce dalla disillusione, dal nichilismo, dall'ansia di autodistruzione; l'altra, esprimente una acritica e conformistica fiducia incondizionata nel progresso della storia e del sapere, nonché una sconsiderata adorazione del presente, considerato in se stesso superiore al passato, indipendentemente dai suoi contenuti. Ha scritto Arthur O. Lovejoy nella sua raccolta di saggi: «L’albero della conoscenza. Saggi di storia delle idee» (titolo originale: «Essays in the History of Ideas», Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1948, e New York, Capricorn Books 1960; traduzione italiana di Dolores de Vera Pardini, Bologna, Società Editrice Il Mulino, 1982, pp. 99-101 ; 216-19; 230):
Le condanne dell’orgoglio nel diciottesimo secolo, in fondo erano quindi espressione di una certa disillusione dell’uomo nei confronti di se stesso; una fase lunga e sempre più profonda disillusione che costituisce la tragedia di gran parte del pensiero moderno. È vero che la concezione della Catena dell’Essere doveva la sua popolarità in larga parte al suo uso nella disputa per l’ottimismo, ed è effettivamente vero che aveva i suoi aspetti gradevoli; ma implicava chiaramente la deposizione dell’uomo dal suo trono di comando. Questa disillusione aveva già toccato il fondo, seppure per ragioni diverse, nell’amaro spirito di Swift; lo Yahoo non viene soltanto avvicinato agli altri animali, ma è posto al di sotto di essi. Pur essendo il più detestabile e irrazionale degli esseri, egli corona la sua fatuità identificando in se stesso lo scopo e l’acme dell’intera creazione. […]
Secondo Herder, il progresso delle arti pratiche e delle scienze tanto deprecato da Rousseau, in complesso deve promuovere anche il progresso del costume morale e delle belle arti. Le invenzioni tecnologiche possono essere usate impropriamente per un certo periodo, possono divenire lo strumento di un lusso che corrompe, ma alla fine”non possiamo dubitare che ogni giusto uso dello scibile umano sarà volto al progresso dell’umanità.. Ogni conquista nel campo delle arti utili rende la proprietà dell’uomo più solida, allevia la sua fatica, ingrandisce il suo raggio d’azione, insomma mette le basi per una cultura più vasta e per una maggiore umanità” . Questo progressivismo era associato a una specie di relativismo storico che, secondo Herder, era chiaramente un corollario del principio di globalità. […] Nelle “Ideen” (il brano esprime perfettamente ciò che ho chiamato la versione diacronica del principio di globalità) egli scrive: “LO storico del genere umano, come il Creatore della nostra specie o come il genio sulla terra, deve avere occhi imparziali e deve giudicare spassionatamente… La Natura ha affidata tutta quanta la terra ai suoi figli e ha permesso di germogliare a tutto ciò che in virtù dello spazio, del tempo e della potenza poteva germogliare. Tutto quello che può esistere esiste; tutto quello che potrà esistere esistere esisterà; se non è oggi sarà domani.
Avendoci la natura [nel pensiero di Herder], attraverso il processo apparentemente necessario e benevolo dello sviluppo storico, posto in una particolare situazione, quella situazione è la migliore per noi; come individui, siamo determinati da quel processo e se noi cercassimo di essere qualcosa di diverso, saremmo fuori dal nostro elemento naturale. Un uomo moderno deve essere moderno, un tedesco realmente tedesco, un inglese veramente inglese. Ma c’era un’incoerenza potenziale tra il predicare la saggezza e il dovere di essere contenti delle caratteristiche della propria epoca e della propria cultura nazionale, e l’idea di progresso. [… Infatti] non dobbiamo tornare indietro, ma andare avanti; eppure questo presuppone una scontentezza per la situazione in cui ci ha posto il processo storico, una sensazione che il momento è sfavorevole e che si deve ritrovare un equilibrio.»
Ma non sarà possibile recuperare la fiducia dell'uomo in se stesso, retrocedendo, puramente e semplicemente, alla pre-modernità: nessuna salvezza può venire da un semplice ritorno al passato, ma solo da un ripensamento della situazione contemporanea. Nel caso specifico, si tratta di ritrovare la fiducia nell'uomo, evitando di cadere in quelle forme di smodata autocelebrazione, che, creando aspettative illimitate, condurrebbero poi alla inevitabile delusione ed alle sue conseguenze più deleterie, lo scetticismo e il nichilismo.
Allo stesso modo, non si può semplicemente gettare nel cestino la fiducia nel progresso, ma bisogna ritrovare un'idea più umana e comprensiva del progresso medesimo: un progresso che sia spirituale non meno che materiale, qualitativo non meno che quantitativo; e che non si misuri solo sul metro dei successi tecnici e scientifici, ma anche e soprattutto su quello della capacità degli esseri umani di vivere in pace e in buona armonia con se stessi, con i propri simili e con la natura tutta. Questa è la vera scommessa per il terzo millennio, che dovremo affrontare con la consapevolezza della sua decisiva importanza per il nostro destino: non quella di creare nuove macchine, di colonizzare nuovi pianeti o di prolungare di qualche anno la durata media della vita umana.
Tratto dal blog : www.mentereale.com
Nessun commento:
Posta un commento