“La ricordo con affetto perché ha accompagnato per anni la mia formazione a cominciare dal suo originale e pionieristico L'impazienza di Adamo (1964), libro riguardante la dimensione trinitaria della sessualità. Cosciente che «il sesso è una realtà immensa che attende ancora la sua rivelazione», Adriana è partita dal «sonno di Adamo» e dallo «sguardo di Eva» per approdare a una teologia esistenziale profonda e ricca di fascino.
La ricordo come donna di poesia e profezia, mistica e politica, ricca di una spiritualità profonda, verace e pugnace.
Riporto una sua frase attualissima che ho inserito nel dossier di Mosaico di pace di luglio 2010, dedicato a “un moderno tribalismo guerriero”.
«Dio mi sta bene, e anche la patria e la famiglia; ma il trilogismo Dio-Patria-Famiglia non mi sta più bene. Dico no a quel dio usato come cemento nazionale, a quella patria spesso usata per distruggere altre patrie, a quella famiglia chiusa nel proprio egoismo di sangue. Non mi riconosco tra quei cittadini ligi e osservanti che vanno in chiesa senza fede, che esaltano la famiglia senza amore, che osannano alla patria senza senso civico».
Scriveva Adriana Zarri in Servizio della parola n. 186 del marzo 1987 “Forse “
Gli faceva pena e anche un po’ stizza il pietoso eufemismo con cui taluni lo chiamavano «non vedente». Cieco era; e le locuzioni dolciastre non servivano a nulla: cieco era e cieco restava.
Ripeteva a se stesso quella parola cruda che non mascherava la durezza del suo dolore buio. Niente carezze inutili, e neanche parole consolatorie voleva. I suoi dicevano «poveretto»; gli altri non dicevano nulla, ed era meglio. Il silenzio tradiva l’imbarazzo e il timore di dir qualcosa fuori luogo: per indelicatezza o compassione, che è un’indelicatezza anche quella. E di fronte al silenzio imbarazzato e alla goffa pietà dei familiari, lui ricordava un pregiudizio orribile che aveva sentito esprimere: una sorta di rozza teologia che indicava la gente come lui quali «segnati da Dio». Ciechi, sordi, zoppi… tutti i «portatori di handicap», come diceva un altro eufemismo, eran «segnati» con un sigillo orrendo, quasi un marchio infamante e maledetto.
Sì, era vero che era segnato, in quei suoi occhi pieni di buio e nella fantasia impoverita che non sapeva immaginare i colori. Ne conosceva i nomi — rosso, verde, giallo, blu… — ma eran soltanto nomi. Cosa significavano? Porte chiuse.
Era segnato, sì; ma che segno era? Di riprovazione, come suggeriva l’orrendo pregiudizio? O di benevolenza, invece, come l’assicurava il parroco, con parlare mieloso che era una sorta di «poveretto» più raffinato? Un privilegio, come una certa ascetica aveva insegnato? Ma lui non ci credeva a quell’ascetica là: aveva tutta l’aria di un’elaborazione, architettata nell’inconscio, per consolarsi.
E allora? Se non era riprovazione, se non era elezione, cos’era, dunque: un capriccio di Dio? Una «prova», quasi che lui, lassù, avesse bisogno di accecarlo per accertarsi della sua fedeltà? Non lo sapeva, lui che sapeva tutto? E non aveva altri modi, lui che poteva tutto? Aveva bisogno di inventare quel buio degli occhi per dargli modo di esercitare la «rassegnazione»? Oppure, come si afferma nell’episodio del cieco nato, era per manifestare la sua gloria? A spese sue doveva manifestarla? Anche questa era un’orribile teologia; e si tenesse pure la sua gloria e i suoi segni di elezione, che di quei privilegi lui ne faceva a meno.
Da quegli interrogativi non ne veniva fuori; gli facevano buio, più giù ancora degli occhi. Dentro al cervello si sentiva cieco. E allora, se il buio era proprio il suo destino, tanto valeva precipitarvisi del tutto, a testa in giù, come uno che si getta, da un ponte, nell’acqua nera. Ma, da solo, non avrebbe saputo neanche trovarsi un ponte e un’acqua per seppellirlo tra le onde. Per lui era difficile anche morire. Come fa un cieco a trovare una corda e, sopra, una trave o un chiodo per appendervi il cappio? Troppo difficile. E poi l’idea di morire strozzato, livido, con la lingua di fuori… no! E quel penzolare macabro e indecente: una sorta di impudicizia indecorosa. Un po’ di dignità anche nella morte! E pensò allora al gas. Aprire il rubinetto era capace: una piccola faccenda domestica che aveva imparato a fare, anche da solo. L’avrebbero trovato steso, come addormentato sul letto.
Rapidamente si decise, girò la manopola, si distese, aspettò. Cucina, corridoio, camera da letto: era uno spazio vasto da saturare; sarebbe stato lungo, ma dolce, forse indolore. Già l’attesa lo poneva in una situazione mite e remissiva; e i pensieri prendevano una piega più docile: come un declivio dolce che naufragava non nell’acqua, ma in una piana d’erba. Non sapeva, non capiva il perché di quella sua esistenza amara. Ma l’accettare di non capire, di non sapere, di non avere qui risposte gli parve una sorta di resa dolce, senza pretese, senza risentimenti: la sconfitta di un intellettualismo che voleva capire tutto (e quante cose, invece, non capisce! Quanti segreti ancora serba la terra, il cielo, il meccanismo del mondo!). E Dio l’abbiamo immaginato come un maestro in cattedra, per rispondere alle nostre domande… E gli abbiamo messo in bocca tante risposte e lui nemmeno ci pensava di risolver certe questioni, così come noi abbiamo fatto, in suo nome. Forse anche la sua pretesa di capire quel «segno» faceva parte di questa presuntuosa teologia. Accettare di non sapere, attendere il tempo in cui sapremo… non è una scorciatoia: è l’accettazione del nostro essere uomini, limitati. Non era una risposta — lo capiva bene — era la rinuncia ad aver sempre risposte. Non era una soluzione. Quell’eterno problema dolore era lì, come uno scandalo, da sempre; e Giobbe interrogava Dio, in tutti gli uomini infelici. Non l’avrebbe certo risolta lui quella questione sospesa sulla coscienza del mondo. Poteva però dire delle parole dubitose, fiduciose, remissive, di fronte ad un mistero non ancora svelato. Poteva dire «forse», poteva dire «aspetto, spero, ho fiducia». Fiducia che una ragione c’è perché Dio c’è e Dio ama. E se una ragione c’è, basta: non occorre conoscerla, si può accettarla anche nel buio: una sorta di buio luminoso, come i suoi occhi che non vedevano colori e forme, ma un barlume di luce sì; e quando dicevano «bianco, rosso, nero» non capiva, ma quando dicevano «luce» ne aveva, se non proprio la visione, il presentimento, il lucore lontano.
Così quel problema non risolto: non aveva le risposte, i colori precisi, definiti, ma aveva coscienza che la risposta c’era. Poteva bastare? Non osava nemmeno dire «sì»; si accontentava di un «forse», come un baluginio di luce lontana ma possibile. Forse bastava per aprire la finestra, prima che lo piegasse il torpore mortale. E fuori c’era l’aria, il profumo dell’erba, forse il sole.
Tra le sue opere:
- Giorni feriali, IPL, Milano 1953;
- L'ora di notte, SEI, Torino 1960;
- La chiesa, nostra figlia, La Locusta, Vicenza 1962;
- Impazienza di Adamo. Ontologia della sessualità, Borla, Torino 1964;
- Teologia del probabile, Borla, Torino 1967;
- Tu, Gribaudi, Torino 1973;
- È più facile che un cammello..., Gribaudi, Torino 1975;
- Nostro Signore del deserto. Teoligia ed antropologia della preghiera, Cittadella, Assisi 1978;
- Erba della mia erba, Cittadella, Assisi 1981;
- Dodici lune, Camunia, Milano 1989;
- Il figlio perduto. La parola che viene dal silenzio, La Piccola, Celleno 1991;
- Quaestio 98. Nudi senza vergogna, Camunia, Milano 1994;
- Dedicato a, Frontiera Edizioni, 1998;
- Il Dio che viene. Il Natale e i nostri natali, La Piccola, Celleno 2007;
- Vita e morte senza miracoli di Celestino VI, Diabasis, Reggio Emilia 2008;
- Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, Torino (prossima pubblicazione).
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