AUTODAFE’ : Croce e le radici abruzzesi
Di fronte alla multiforme e complessa eredità culturale lasciataci da Benedetto Croce, possiamo ben dire, a mò di premessa giustificativa, che la ricerca delle sue radici sia una questioncina secondaria, se si vuole, ma non di poco conto. Noi crediamo che, in questo come in altri casi analoghi, anche i più piccoli tasselli, se messi al posto giusto, contribuiscano a ricomporre il complicato mosaico di una personalità, la cui grandezza si misura dall'insieme della figura, senza dubbio, ma può trasparire anche da singoli particolari. Lo stesso Croce, in fondo, pur immerso nelle intricate problematiche dello spirito, non ha disdegnato di cimentarsi su tematiche di minore rilevanza, dimostrando COSI che anche le piccole cose sono degne di estrema considerazione. Si pensi ad esempio, alle monografie che egli ha voluto dedicare ai "due paeselli d'Abruzzo" che si portava nel cuore, Montenerodomo e Pescasseroli, pubblicate in opuscolo e poi aggiunte in appendice ad una delle sue opere maggiori, la Storia del regno di Napoli (1925). Le due monografie, piccole cose - ripetiamo - rispetto alla sua produzione complessiva, davvero monumentale per vastita e profondità, ven¬gono solitamente citate non solo come modelli di ricerca storica del genere municipale o provinciale, ma anche, e diremmo soprattutto, perche sono di
per se una indiscutibile testimonianza d'amore per la propria terra d'origine e contengono, pertanto, le motivazioni interiori che ci consentono di risalire alle sue radici abruzzesi.
La monografia su Montenerodomo s'intitola esattamente Storia di un comune e di due famiglie. Dedicandola al cugino Vincenzo Croce, l'autore dichiara di voler COSI assolvere ad "un vecchio debi¬to", assunto in cuor suo da gran tempo, fin da quando venne
"ripensando ai comuni ricordi, alle immagini dei nostri maggiori e alla terra da cui prendiamo origine". Ricostruita meticolosamente la storia, avviandosi alla conclusione lascia intendere chiaramente di aver soddisfatto un suo antico desiderio col risalire, lungo tutto l'albero genealogico, ai suoi antenati e, ancor più, d'essersi impegnato a " ritrovare nel fondo del suo essere qualcosa che lo ricongiungesse a loro, una regola, un istinto, una passione, un palpito",
ma riusciva ad ottenere soltanto "una consapevolezza debole, intermittente e sfuggevole, laddove ritrovava prontamente quando lo congiunge, con tanta molteplicità di legami e con tanta prepotenza, al vivo presente". Di qui, nel profondo dell'anima sua, un senso di smarrito stupore, che sarà bene cogliere dalle sue stesse parole: "E pensavo non senza malinconia (COSI mi pareva a volte di essere straniero e diverso), che forse l'uomo, piuttosto che figlio della sua gente, è figlio della vita universale, che si attua di volta in volta in modo nuovo; piuttosto che filius loci, è filius temporis". Non voleva essere questo, ovviamente, un negare o rinnegare i rapporti con la propria terra e con la propria gente, ma piuttosto un riconoscere come preponderante il fattore temporale o epocale nella formazione dell'uomo. Una verità, questa, divenuta quasi assiomatica nella credenza comu¬ne, in considerazione della peculiarità
esistenziale che la diversità delle ere storiche ha comportato e comporta nel cammino della civiltà.
Più varia e più ricca di argomentazioni appare la seconda mono¬grafia su Pescasseroli, dedicata ad un altro cugino, Erminio Sipari, del ramo materno. Ricostruita dapprima la storia del comune dal medioevo all' 800 (l'età feudale, le signorie degli Avalos e i De Sangro, la fine della feudalità e l'avvento della nuova borghesia), il Croce poi si sofferma, in un lungo capitolo, su quelle che chiama le "memorie domestiche" e si abbandona a questa confessione:" ... leggendo nei libri parrocchiali e nei registri dello Status animarum i nomi e le date (che riporta integralmente) ... sento i documenti toccarmi ora come cose vive, vedo risorgere immagini e ricordi della mia fanciullezza". A quel punto, con particolare tenerezza rievoca la figura della nonna e della madre, con i loro racconti "di cacce avventurose, d'incontri con briganti, di terrori, di pericoli scampati". Le descrizioni dal sapore favolistico trovavano un terreno fertile nel suo animo, per via delle avide letture di "romanzi storici di costume medioevale e feudale e di imprese guerresche", fornitigli dalla madre, che in abbondanza ne leggeva per suo conto, "nelle sere di inverno accanto al fuoco". La perdita della nonna "in età ancor giovane" gettò la famiglia in una cupa desolazione: delle quattro figlie, due presero il velo monacale, un'altra si ritirò in convento senza prendere i voti; solo l'ultima nata, Luisa, si sposò e sarà madre di Benedetto.
Dei due figli maschi, Francesco e Carmelo, il primo, sui venti anni, mentre studiava giurisprudenza a Napoli, pubblicò un volumetto di poesie, de intonazione tardo-romantica, in cui "ricordava il suo paese, la casa, la madre, le sorelle, la libera vita per i campi e sulle montagne". Rileggendo questi versi a distanza di molti anni, il Croce, divenuto ormai critico esigentissimo e dai più temuto, li ascrive ai "luoghi comuni della letteratura del tempo", ma attribuisce al "romantico adolescente" la capacità di riecheggiarli "con tanta fede e con tanta candidezza, che fanno bensi sorridere, ma non dispiacciono, e quasi quasi piacciono". Il giovane poeta, fatto-
si adulto, sarà sindaco di Pescasseroli e, nell'intento di illustrarne l'impegno amministrativo, il Croce ripassa dalla "memoria di famiglia alla storia civile", indugiando sulle condizioni dei contadini, sul fenomeno del brigantaggio, sulla prima emigrazione dell'Italia post-unitaria, sulla conversione al protestantesimo degli emigrati di Pescasseroli in America e sull'eco che se ne ebbe in una ode di un poeta popolare, ispirata al "contrasto di due comari, l'una delle quali ha il marito cattolico e l'altra evangelico, nell'occasione che il sindaco aveva ordinato di adibire la vecchia chiesa si Sant'Antonio a uso di scuola".
Il poeta popolare si chiamava Cesidio Gentile e il Croce gli dedica un intero capitolo della monografia, intitolato Un pastore poeta. Dal profilo che ne traccia con particolare interesse, si comprende che il grande critico ne seguì le vicende con sincera simpatia, dandone alcuni dettagli che gli parvero degni di attenzione, come questi: avviato al mestiere fin da ragazzo, apprese da se a leggere e a scrivere, fino a comporre per tutta la vita versi "in tutti i metri, di tutti i generi e su tutti gli argomenti, politici, morali, religiosi, satirici, burleschi, narrativi, epici, autobiografici. Uomo "onestissimo", lo chiamavano "jurico", ossia "cerusico, perché suo nonno era stato un pastore molto noto come medico di uomini e di animali"; sempre "travagliato dalla sfortuna", fu ben voluto da tutti che i suoi scritti passavano di famiglia in famiglia e perfino "per gli stazzi dei pastori" (l'autore di queste copie note ha potuto leggerne qualche copia degli originali, custodita ancora dai nipoti). Gli argomenti trattati da [urico erano i più disparati, ma concernevano in particolare modo le "vicende municipali, morali e sociali" del paese e, soprattutto, la vita pastorale, descritta con stretta aderenza alla realtà, fatta spesso "di bufere e di geli e di disastri e d'incontri con lupi e orsi".
Può sorprenderei il fatto che un critico di COSI alta levatura come Benedetto Croce, che era stato severo perfino con Dante e Leopardi e con Pascoli e d'Annunzio, si sia degnato di prestare ascolto ad un poeta pastore, che gli sembrava avesse "Ietto moltissimo" (addirittura Omero e Dante, Tasso e Ariosto), pur senza padroneggiare la lingua, tanto che scriveva "con fantastica ortografia, di pronuncia dialettale". A liberarci dalla sorpresa valga la confessione conclusiva dello stesso Croce: "E a me è piaciuto dare notizia particolare di questo poeta pastore - che richiama alla memoria un altro dello stesso mestiere, nato tre secoli fa poco lungi da Pescasseroli, Benedetto di Virgilio di Villetta Barrea, pastore e bifolco dei padri gesuiti, e compositore di poemi sui loro santi, - perche i suoi versi serbano una forte impronta paesana, e anche perché offrono un esempio del come si formano le storie, le leggende, i contrasti diffusi tra il popolo, per opera di semiletterati, che fan quasi da mediatori tra la letteratura colta e i sentimenti e concetti popolari". Il capitolo finale della monografia riguarda il "presente" di Pescasseroli, cioè i primi anni del '900, nel corso dei quali le condizioni del paese sono divenute "prospere per noti benefici arrecati dall'emigrazione, e poi anche per l'elevamento dei lavoratori agricoli" come pure dei pastori, la cui attività è rimasta la principale della popolazione. L'autore finisce con l'auspicare che, con l'istituzione del parco nazionale come ente autonomo a spese dell'associazione Pro montibus (di cui si era fatto promotore il cugino ing. Erminio Sipari), Pescasseroli potrà aspirare a diventare una "stazione climatica" e affrontare i problemi della nuova vita che si sta già profilando: "problemi di accresciuto benessere, di progredita civiltà, e ben più alti di quelli nei quali si trascinò per secoli la sua vita di piccolo paese feudale, sperduto tra le montagne e quasi inaccessibile".
Le monografie di cui si è fatto cenno, sarà bene ricordarlo, recano rispettivamente le date dell'agosto 1919 e del novembre 1921. Benedetto Croce stava raggiungendo il culmine della sua notorietà di filosofo e critico letterario, avendo già pubblicato alcune delle sue opere maggiori: Estetica, 1902; Logica e Filosofia della pratica, 1908; Problemi di estetica, 1910; Saf!j!,i sulla letteratura italiana del Seicento, voI. I, 1911; La letteratura della nuova Italia, 6 volumi a partire dal 1914; Teoria e storia della storiografia, 1917; Nuovi saf!j!,i d'estetica, 1920; La poesia di Dante, 1920; e altro ancora. Con una produzione COSI intensa e prestigiosa al suo attivo, non è da credere che egli intendesse, con i due piccoli lavori, rendere un omaggio puramente formale alla memoria dei suoi avi, paterni e materni. Nelle sue parole, infatti, si avverte spesso un "palpito" che è tipico di colui che ricerca e scopre le proprie lontane radici e se ne sente ben fiero, nel suo intimo, anche se le vicende della vita lo hanno portato altrove fin dall'adolescenza (prima a Roma, com'è noto, per gli studi; poi a Napoli, dove si stabilisce con la famiglia e resterà fino alla morte). Per rimuovere ogni dubbio in proposito, ci sovviene un documento di straordinaria rilevanza, dello stesso anno 1921: il discorso che il Croce pronunciò agli "amici di Pescasseroli" in occasione di una sua visita al paese natio, programmata e rinviata più volte nel timore che il paese reale non corrispondesse a quello sognato con i racconti della mamma. Stranamente, anche da adulto, egli aveva continuato a immaginare Pescasseroli come "un paese di fiabe", in cui appariva dominante la figura di sua madre. Ma poi, ricostruendone la storia, aveva superato il divario tra sogno e realtà, convincendosi che il paese non poteva essere "un semplice oggetto di fantasticherie". Vissuto per decenni a Napoli, "il figliuolo dei monti" si era fatto "napoletano", assimilando modi e comportamenti di quella popolazione. Eppure, nel profondo del suo essere qualcosa richiamava le antichi radici. Illuminanti, a tale proposito, le ultime parole del discorso, che vogliamo riportare integralmente: "A Napoli ho svolto la mia attività di uomo di studio, tra compagni carissimi e giovani che mi si son fatti spontanei discepoli. Eppure io ho tenuto sempre viva la coscienza di qualcosa che nel mio temperamento non è napoletano. Quando l'acuta chiaroveggenza di quella popolazione si cangia in scetticismo e in gaia indifferenza, quando c'e bisogno non solo d'intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà ferma e di persistenza e resistenza, io mi son detto spesso a bassa voce, tra me e me, e qualche volta l'ho detto anche a voce alta: - Tu non sei napoletano, sei abruzzese! - e in questo ricordo ho trovato un po' d'orgoglio e molta forza."
A supporto di quel discorso, citato un po' da tutti, che si potrebbe sospettare come dettato dalla circostanza della visita e dall'accoglienza festosa avuta dai compaesani, c'e un documento finora sconosciuto ai più perche pubblicato da qualche anno in un giornale di provincia ("Vasto Domani", dicembre 1993), cìoe lontano dai circuiti della grande diffusione. Si tratta di una lettera personale, scritta a Sorrento il 4 agosto 1944 e indirizzata ad un amico vastese, il dott. Tommaso Bile, tornato dal Venezuela in Italia. Leggiamo un paio di brevi passi attinenti al tema che qui ci sta a cuore: "Carissimo sig. Bile, Ella torna negli Abruzzi e io vorrei che portasse il mio saluto non solo agli amici che ho cola, ma agli Abruzzesi tutti. Abruzzese io sono, ma non solo per padre e per madre, ma per essere nato sopra una delle vostre montagne, a Pescasseroli, e per avuto i miei antenati, e ancora oggi i miei parenti, in un altro paesello, anche esso su una altura, Montenerodomo, che, rimasto sempre intatto da guerre nei secoli, ora la rabbia tedesca ha raso al suolo, facendo saltare con le mine la nostra antica casa, che era la più bella in quel luogo." Ricordato, poi, di aver avuto "vaghezza di rintracciare la storia" della sua famiglia con le monografie sopra citate, continua in questi termini:
"Come vede, mi son lasciato andare con Lei a ricordi a me cari, e forse anche troppo divagato; ma volevo dirle che, di sopra tutti questi ricordi, e in me grande la stima per la gente di Abruzzo, per la robustezza e insieme l'equilibrio del suo intelletto, per la rettitudine del suo animo, per la semplicità del suo costume, e vedo in essa una forma benefica nel presente e nell'avvenire." E siccome si era nell'agosto del 1944 (da un paio di mesi era caduto il fronte di guerra Cassino - Ortona e l'Abruzzo, insieme al Lazio e Roma, si era appena liberato dall'occupazione tedesca), il Croce esorta il popolo abruzzese a battersi per un radicale rinnovamento dell'Italia e dell'Europa:" E per quest'alta idea che io ho degli Abruzzesi, auguro di tutto cuore che essi apportino il loro energico contributo nella presente gravissima e dolorosa condizione della nostra Italia, che dobbiamo salvare, e salveremo, per la nuova età che ora si apre della nuova vita europea e mondiale. Bisogna dunque che essi accolgano in se la passione politica, per aspro che sia il travaglio, e accettino i doveri che ne derivano." La lettera, come si e detto, e del 1944: Benedetto Croce ha 78 anni ed ha deciso di impegnarsi nella politica tra la file del ricostituito Partito Liberale (di cui sarà presidente), "perche - scrive - altrimenti la mia coscienza mi rimproverebbe". Ebbene, richiamarsi alle radici abruzzesi, in un momento COSI doloroso per la storia d'Italia, non può non avere qualche significato. Ma c'e di più,a sostegno del nostro assunto. E infatti, nel 1948, quattro anni prima della morte, il Croce torna sull'argomento un pò di sfuggita, ma in termini più perentori: in una breve monografia su Petronilla Paolini Massimi, nota in Arcadia col nome pastorale di Fidalma Partenide, contesta la sua denominazione ufficiale di "poetessa romana" e ne rivendica l'origine marsicana. Sarà opportuno riferirne le parole testuali, a scanso - come si suoi dire - di ogni possibile equivoco: "Di recente ( ... ) la Petronilla Paolini Massimi e stata notata e distinta per certa sua sincerità e virilità tra le altre rimatrici arcaiche, con le quali andava alla rinfusa. Il Filicaia l'aveva denominata la poetessa romana, e così si ripeteva generalmente, ma era veramente abruzzese, anzi mia compaesana, della Marsica, della famiglia Paolini di Magliano, feudataria di Ortona e di Carrito, ed era nata nel 1663 a Tagliacozzo capoluogo di un feudo dei Colonna." Crediamo, a questo punto, che vi siano ragioni più che sufficienti per correggere o almeno integrare la qualifica corrente del Croce "napoletano" con quella di "abruzzese-napoletano": abruzzese di nascita (e non solo, come si e visto), napoletano di adozione.
E qui ci sia consentito di insistere: richiamandoci alla nostra premessa, ripetiamo che si tratta di una questioncina apparentemente marginale, rispetto ai grandi temi e problemi che l'eredità crociana solleva: si pensi, fra tutti, al rapporto arte-società nel segno della controversa "intuizione pura"; alla filosofia come "scienza dello spirito", in opposizione al predominio delle "scienze positive"; si pensi ancora alla storia come in eludibile e inarrestabile processo della libertà; alla estrema confluenza degli ideali e degli eventi umani nella visione di quello che lo stesso Croce chiamo "storicismo assoluto"; si pensi, infine, alla sua fede sicura in una democrazia pluralista e alla prospettiva di un assetto europeo in senso federalista; all' ammissione in tarda età, e perciò suscitatrice di commenti non sempre benevoli, del "perche non possiamo non dirci cristiani".
Queste, senza dubbio, e molte altre ancora, sono le vere questioni inerenti al pensiero di Benedetto Croce. E tuttavia noi riteniamo nè inopportuna nè insignificante la ricerca delle sue radici abruzzesi, se e vero, come crediamo di aver dimostrato, che esse vanno ben oltre il dato puramente anagrafico in quanto e lo stesso Croce che a distanza di molti anni, le riscopre e le ribadisce con "orgoglio" esaltando, della gente abruzzese, alcune doti che certamente ritrovava in se stesso e cìoe: la "volontà ferma", la "persistenza" e la "resistenza" di fronte alle difficoltà della vita; inoltre, la "robustezza e insieme l'equilibrio" dell'intelletto; infine, la "rettitudine" d'animo e la "semplicità" del costume.
Non sono queste, a ben riflettere, doti di poco conto, che si possano esibire solo in momenti occasionali della vita; sono, al contrario, doti che suggellano in modo in modo permanente degli uomini nel fluire ordinario del tempo, e tali - in ogni caso - da contraddistinguere il cammino della civiltà di tutto un popolo.
Vittorio Esposito Croce e le sue radici abruzzesi Regione Abruzzo luglio agosto 2003
Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 31 marzo 2012