INTERSTIZI : Il futuro è già cominciato
Per rilanciare l’Italia e l’Europa occorre creare nuovi posti di lavoro. E fin qui è facile essere tutti d’accordo. Su come e dove crearli le opinioni però divergono, e di molto. Ciò che è certo è che nei prossimi anni i due principali settori dell’economia, quello pubblico e quello privato-capitalistico (o, con una espressione fondamentalmente fuorviante, l’economia "for profit"), potranno assorbire poco più della metà della quota di lavoro che occupavano prima della crisi. E la ragione è semplice, sebbene un po’ articolata.
In primo luogo, c’è l’emergere di nuovi colossi economici – come Brasile e India – che nella divisione internazionale del lavoro svolgono oggi, a costi più bassi, buona parte delle attività manifatturiere su cui l’Italia ha costruito, a partire soprattutto dal dopoguerra, il suo miracolo industriale. In questi anni abbiamo già visto un forte cambiamento dell’industria manifatturiera italiana, destinato ad accentuarsi. In secondo luogo, si lavorerà più a lungo, e la quota di occupazione femminile crescerà, essendo ancora molto, troppo, bassa in Italia. Infine, la ragione forse più decisiva è l’inesorabile (e salutare) decrescita dell’occupazione nella Pubblica amministrazione cui assisteremo nei prossimi anni: tra dieci anni i dipendenti pubblici saranno circa 1/3 meno di quelli del pre-crisi, e tra venti anni meno della metà.
Il debito pubblico è cresciuto anche come risposta sbagliata a un settore privato in crisi, che ha determinato una crescita dopata del settore pubblico, evidentemente insostenibile (in Grecia, ma anche in Italia, Francia e altri Paesi latini). E qui c’è anche una responsabilità della teoria economica di origine keynesiana, che ha centrato sulla domanda da parte del settore pubblico il fulcro della leva economica di un Paese, muovendosi così in direzione opposta a quella indicata da Friedrich Von Hayek. Questo economista austriaco aveva invece capito che se i posti di lavoro non nascono "dal basso", dai cittadini-imprenditori che hanno le informazioni e le conoscenze dei bisogni propri e di quelli degli altri, questi posti di lavoro funzionano, a volte e in parte, per rilanciare l’economia nel breve periodo, ma sono posti di lavoro normalmente insostenibili nel tempo. Quando il lavoro nasce dal Settore pubblico, questa occupazione è, in larga misura, 'sfasata' di un ciclo temporale rispetto ai cambiamenti dei gusti e dei bisogni della gente; e in un mondo veloce e globalizzato come il nostro, questa sfasatura significa produrre beni e servizi inadeguati o inutili.
Di Hayek, purtroppo, è stato spesso fatto un uso ideologico a difesa del libero mercato come l’unico meccanismo che assicura sempre e in ogni caso il massimo di efficienza e di libertà, una strumentalizzazione che ha allontanato dal suo pensiero molta gente, impedendo così che arrivasse al grande pubblico la perla nascosta all’interno del suo sistema teorico, vale a dire il ruolo cruciale svolto nelle società moderne dalla divisione della conoscenza. Questa divisione della conoscenza (diversa dalla "smithiana" e classica divisione del lavoro ), fa sì che solo chi è vicino ai problemi abbia gli elementi rilevanti per fare le scelte giuste e sostenibili, anche e soprattutto in faccende economiche e di impresa. Che cosa serve ai coltivatori delle viti delle Langhe lo conosce la comunità dei mestieri che ruota attorno a quella produzione, fatta di conoscenza tacita e specifica accumulata nelle scelte quotidiane compiute attraverso i secoli. È questa conoscenza quella veramente utile e indispensabile per fare le scelte produttive giuste. Se, quindi, i nuovi lavori non nascono dal basso, dai cittadini e dalla società civile, dell’emergere cioè di questo intreccio di cultura e conoscenza contestualizzata, i posti di lavoro saranno quasi sempre insostenibili. Se vogliamo, allora, rilanciare davvero l’occupazione in Italia e in Europa, occorre operare una rivoluzione pacifica, ma di enorme portata culturale. Occorre liberare le forze civili che sono state occupate in questi ultimi decenni dalla burocrazia (e da partiti senza partecipazione di base), e far sì che i cittadini si ri-occupino della cosa pubblica.
Nella storia dopo gravi crisi se ne è usciti con un nuovo protagonismo della società civile, che ha dato vita a cooperative, banche, imprese, mutue, formazioni partiti, sindacati: oggi ci attende qualcosa del genere, e subito.
Non per metterci nelle mani del mercato "for profit" o degli speculatori, ma per riattivare l’economia civile, la tradizione che ha fatto grande l’Italia, dal Quattrocento ai distretti del made in Italy. È da qui che rinasceranno anche oggi quei nuovi posti di lavoro, e quindi proprio dai punti di forza del modello italiano-comunitario, che già oggi continua a creare nuovi posti di lavoro nel cosiddetto Terzo Settore. Che merita tutta la giusta considerazione da parte di chi sta traghettando l’Italia fuori dalla tempesta, e che va fatto crescere. C’è infatti bisogno di un nuovo e più ampio Terzo Settore, capace di entrare stabilmente in nuovi ambiti – quali cibo, arte, artigianato, il mondo della creatività, ma anche dell’energia e dei beni comuni – perché esistono, e proprio in questi tempi di crisi, enormi potenzialità ancora non sfruttate. Ogni crisi è «distruzione creatrice», ma è necessario saperla leggere, interpretare, muoversi insieme, e senza aspettare ancora a lungo.
La crisi dell’Europa sarà ancora lunga, perché lunga è stata la sua preparazione, e il periodo di incubazione del virus della malattia. La fretta può essere molto pericolosa. La situazione greca, nonostante l’importante sviluppo garantito ieri dall’ampia adesione dei creditori privati all’accordo sul debito, è tutt’altro che risolta. Mentre quella portoghese, può esplodere da un momento all’altro, e la Spagna è in una situazione molto grave: chi può seriamente pensare che un Paese con un tasso di disoccupazione del 25% può dare priorità alla riduzione del debito e non alla crescita? E se qualcuno in Eurolandia oltre a pensarlo lo dice e lo raccomanda, tutto ciò è grave, economicamente ed eticamente.
L’Italia sta vivendo – sul piano internazionale, un po’ meno su quello politico interno – giorni di calma apparente e anche lo spread tra i nostri titoli del debito e quelli tedeschi è tornato finalmente sotto «quota 300». Tuttavia recenti preoccupazioni espresse dal presidente Monti e dai ministri economici sono molto serie, e un po’ sottovalutate. C’è, poi, l’annosa – e ormai davvero lancinante – questione delle imposte indirette. E, nonostante la presenza del governo di eminenti economisti, su questo punto sembra si stia commettendo un errore di stima.
Si fanno i calcoli sulle entrate che l’aumento dell’Iva (di 2 punti percentuali) dovrebbe generare, tenendo fermo, o quasi, l’ammontare dei consumi, e si sbaglia. Perché? Il popolo italiano, o la cosiddetta “classe media” (una “media” in caduta libera...), sta vivendo da anni una grave situazione di sofferenza economica e sociale. Per capirlo non servono i Centri studi: basterebbe che di tanto in tanto la nostra classe dirigente si recasse, in incognita, nei sempre più popolati mercati di piazza, in un’impresa industriale, in una cooperativa sociale, nei dispensari e nelle mense parrocchiali o leggesse bene i dati sull’aumento di furti alimentari nei supermercati.
Il Paese è sotto stress da tempo, e sta con dignità ma con enorme fatica assorbendo la diminuzione del potere di acquisto reale degli stipendi, e l’insostenibilmente alto (anche a causa di imposte indirette) costo della benzina. A ciò si aggiungono i tagli agli enti locali, che continuano a impoverire le persone per un peggioramento dei servizi pubblici accompagnato dall’aumento dei costi (a Milano il prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici è aumentato del 50%!).
Non finiremo mai di ricordare che i cittadini impoveriscono non solo quando diminuisce il reddito pro-capite, ma anche quando peggiora e si riduce la quantità e la qualità di beni pubblici e di beni comuni. In un tale scenario, l’aumento dell’Iva, e magari di altre imposte indirette può allora produrre effetti molto gravi – sarebbe utile che ci si spiegasse con un po’ di calma e di argomenti perché una imposizione indiretta, che di certo è meno equa, è almeno più efficiente o efficace di un’imposizione diretta.
Innanzitutto, la gente consumerà di meno, e quindi se oggi aumento del 2% l’Iva sui consumi, non debbo stimare le entrate prendendo come base imponibile quella attuale, diciamo 1.000, ma una base ridotta, e di molto, forse in alcuni settori 700. Questo significa che la vera entrata attesa non è 20, ma 14. È ovvio che i bravi economisti che oggi sono al Governo sanno tutto ciò, ma lo dicono poco, e, soprattutto, appunto, paiono sottostimare l’effetto di riduzione dei consumi, in particolare la riduzione indiretta o di medio termine. Perché quel - 6 (20 - 14) non ha solo un effetto diretto e immediato nel reddito di chi oggi vende i prodotti (commercio). Tra breve, quell’aumento dell’Iva avrà effetti recessivi, maggiori di quelli stimati, sull’intera economia: maggiore disoccupazione, minor consumo, e così via in quella 'trappola di povertà' di cui ogni tanto la storia, anche recente, ci narra.
Probabilmente tutto ciò è la conferma che nessuna manovra economica può davvero funzionare con la logica dei due tempi: prima i tagli e la contrazione dei consumi e dei redditi; poi le misure per la crescita.
Occorre far subito tutto assieme, durante e non dopo, perché la seconda fase arriva sempre troppo tardi, e con costi troppo elevati. La tradizione economica italiana, con note culturali proprie e ben diverse da quella anglosassone, poggiava su un muro maestro: la rinuncia alle cosiddette «approssimazioni successive» ai problemi. Maffeo Pantaleoni, il “principe degli economisti italiani”, ma anche Luigi Einaudi o Giorgio Fuà, denunciarono ripetutamente il grave errore di rimandare dimensioni essenziali dei problemi a una seconda fase, poiché – dicevano – ciò che si perde nella prima fase non lo si recupera più, o quando arriva è troppo tardi e ha ormai perso molto della sua efficacia. Non si può, in un anno, rientrare da una situazione prodotta in decenni.
All’Italia serve più tempo, un tempo che va anche contrattato nelle opportune sedi, un tempo che non può essere solo quello delle banche e della finanza, ma deve tornare a essere soprattutto quello della vita della gente. Ma se oggi la politica economica non abbina, mentre chiede i sacrifici, politiche serie di sostegno alle famiglie (a quando è rimandato il “fattore famiglia”?), al mondo dell’economia sociale (era proprio indispensabile chiudere l’Agenzia del Terzo Settore e si può non farsi carico delle difficoltà crescenti di questa straordinaria risorsa?), alle imprese piccole e artigiane in grande sofferenza, la cura risulterà con ogni probabilità insopportabile. E, quindi, inutile se non addirittura dannosa.
Fonte Luigino Bruni L’Avvenire Attenti alla trappola 9.03.2012 e Il lavoro è da rifare 12.02.2012
Eremo Via vado di sole, L'Aquila, giovedì 22 marzo 2012
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