ET TERRA MOTA EST : La ferita che resta e quelli che non se ne vanno

C’era una volta una città che non era una città, ma un ventoso altopiano a 800 metri d’altezza, con un declivio sulla sponda sinistra dell’Aterno, che sgorga non lontano da esso, e poco dopo la sorgente è già impetuoso e pronto ad attraversare l’Abruzzo.
È così dalla creazione, quella piana col declivio, e tale resta fino alla metà del XIII secolo. Per la verità è così bella, col fiume in mezzo, che già vari secoli prima di Cristo sorge qui una capitale dei Sabini, Amiternum, patria di Sallustio, della quale restano imponenti rovine. Conquistata da Roma al tempo delle guerre sannitiche, l’area comincia a gravitare intorno all’Urbe, cui è vicina. Nel 211 a. C. ci passa Annibale e 22 secoli dopo, da uno sbanco di terra, riemerge intatto lo scheletro di uno dei suoi elefanti, ricostruito e ospitato nel museo nazionale, che la città–non–città si è data. Solo che i suoi abitanti non si contentano di un elefante di Annibale, lo vogliono molto più antico, di migliaia d’anni, quando l’altopiano era una savana quasi africana, in modo da potersi chiedere, come Hemingway per il leopardo tra le nevi del Kilimangiaro, cosa ci facciano le ossa di un mammut tra le nevi dell’Appennino.

Ma l’altopiano sorge tra due direttrici di moto della terra che i sismologici chiameranno, secoli dopo, faglie. Nel 1703 le faglie si muovono, molto, e tutta la meraviglia gotica se ne viene giù, sbriciolandosi. L’Aquila stringe le ali. È ferita. Si fa curare dall’azzurro e dal vento. E in 50 anni risorge splendida, barocca. Ridiventa florida. È capoluogo d’Abruzzo.



L’Aquila non è perduta. È solo transitoriamente retratta e sottratta, come fa sempre, per un po’, dopo i terremoti. I giovani lo sentono. Soprattutto gli studenti non aquilani, divenuti cittadini di una città–non– città mondiale, simbolo della fragilità e precarietà proprie della bellezza.
Perché non se vanno, aquilani e non–aquilani, giovani e vecchi, dall’Aquila? È facile rispondere: perché una città sana e integra, com’era una volta, la si vive, semplicemente, ma la si dà anche un po’ per scontata. Mentre una città che si è rischiato di perdere la si tesaurizza, la si cura, la si protegge e ci si stringe ad essa, dicendosi fortunati di averla conservata. E levando un ringraziamento a quella Alterità da cui unicamente può venire la forza per fronteggiare il presente. Perché l’Aquila ferita la si ama molto di più.
Fonte Giovanni D’Alessandro, da Avvenire, 19 mar.2012

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