
Immagini nitide che se stropicci il naso contro il cuscino rimangono comunque lì, a sussurare con insistenza la loro verità, la loro evidente realtà?
Che fare, allora? Se vi chiamaste Chuang-tzu, dopo una densa notte in cui eravate farfalla-danzante-del-colore-dei-sogni-e-dell’arcobaleno, al risveglio non sapreste più se siete uomini che hanno sognato di essere farfalla o farfalle che si sognano uomo.
La favola del filosofo d’Oriente che si pensò farfalla viene evocata durante un memorabile ciclo di lezioni sulla natura della parola poetica (sono gli anni ’60 del secolo scorso, ci troviamo ad Harvard) dall’argentino Jorge Luis Borges (1, pag. 32).
Per tutta la sua vita di uomo e di scrittore Borges non fece altro che domandarsi se fosse uomo o farfalla; ma fu l’interrogarsi di un poeta, non di un filosofo. Vediamo perché.

Gli otto racconti che compongono la prima sezione di Finzioni (intitolata Il giardino dei sentieri che si biforcano) sono l’esplicitazione poetica dei dubbi “metafisici” dello scrittore riguardo al reale; si tratta dell’aspirazione “menardiana” a pensare vivendo e a vivere il pensiero nella scrittura.

Se ascoltiamo alle parole di un critico letterario che lo conobbe in vita, Domenico Porzio, scopriamo che per Borges non si dà altra letteratura che non sia fantastica: lo stesso tentativo naturalistico di afferrare una realtà che non esiste (che non esiste in quanto non può essere oggetto di una conoscenza certa da parte dell’uomo), per trasferirla nell’inesistente realtà della pagina mediante l’uso di una scrittura soggettiva, è un’operazione “fantastica” (3, pag. xc).

“Finzione” è il linguaggio, è l’universo di teorizzazioni sull’Universo che da esso scaturisce: È arrischiato pensare che una coordinazione di parole (altra cosa non sono le filosofie) possa somigliare all’universo scrive il poeta, in un saggio appartenente alla raccolta Altre Inquisizioni, dall’originale titolo Metamorfosi della tartaruga (5, pag. 114). O, con formula più sintetica, in altro luogo fa balenare il dubbio che la metafisica sia un ramo della letteratura fantastica (6, pag.16).
Ma se ogni sforzo conoscitivo, ogni tentativo di costruzione sistematica di una teoria sul reale, e infine ogni creazione letteraria non può dar vita che ad un moltiplicarsi di finzioni; se per quanti sforzi noi facciamo rimaniamo comunque intrappolati nell’immanenza (nel nostro essere-al-mondo, nel nostro essere per natura finiti) di uno scetticismo che nega la possibilità di uscire dalla parvenza (il “velo di Maya” che per Schopenauer ci impedisce di conoscere la realtà) perché dovremmo continuare a domandarci se siamo uomini o farfalle?
Perché Jorge Luis Borges ha continuato a scrivere?

“Il più grande incantatore (scrive memorabilmente Novalis) sarebbe quello che s’incantasse al punto di prendere le sue stesse fantasmagorie per apparizioni autonome. Non è questo il nostro caso?” Io credo che sia così. Noi (l’insidiosa divinità che opera in noi) abbiamo sognato il mondo; l’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, onnipresente nello spazio e fisso nel tempo; ma abbiamo consentito alla sua architettura interstizi tenui ed eterni di assurdo per sapere che è falso"

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