In un saggio rimasto famoso, Mario Pomilio si chiedeva di quanti Abruzzi dannunziani occorresse parlare, e di quale di essi meglio fidarsi per restituire almeno una unità di rapporto sentimentale; e ribadiva: «Il suo Abruzzo ci si disegna davanti agli occhi come uno stato d'animo discontinuo, incerto tra i due estremi dell'amore e del rifiuto, e più ancora come una storia che corre indecisa e piena di alternative».
Ma se è vero che l'Abruzzo come realtà di terra e di paesaggi, come paese dell'anima e segno distintivo di una razza si precisa col tempo, esso giunge però a fissarsi presto in termini che saranno conseguentemente svolti sino ad un punto di arrivo e definizione.
Nell'antologia personale delle Prose scelte del 1906, c'è un testo dedicato a Francesco Paolo Michetti, il pittore francavillese «maestro di noi tutti che comunicammo con la sua anima prodigiosa», e alla grande tela della «Figlia di Iorio»; in esso è palmare ed esplicita una concezione a lungo maturata e non più modificata: «Qui è tutta la nostra razza, così gagliarda, così pensosa, così canora intorno alla sua montagna materna donde scendono in perenni fiumi all'Adriatico la poesia delle leggende e l'acqua delle nevi. Qui sono le immagini eterne della gioia e del dolore di nostra gente sotto il cielo pregato con selvaggia fede, su la terra lavorata con pazienza secolare.
Qui passano sotto il mare pacifico nell'alba le vaste greggi condotte da pastori solenni e grandiosi come patriarchi, a simiglianza delle migrazioni primordiali».
Ora si vede bene che si tratta di un disegno finale seppur composito, connotato dalla tavolozza di Michetti e affabulato dagli Usi e costumi abruzzesi di Antonio De Nino.
Il convegno tenutosi nel 1997 in Pescara, a cura del Centro nazionale di studi dannunziani presieduto da Edoardo Tiboni, ha raccolto sotto il tema «Terre, città, paesi nella vita e nell'arte di Gabriele d'Annunzio» le indagini di qualificati studiosi, mirate appunto a dare sistemazione al rapporto del poeta pescarese con la sua regione. Ne è emerso un quadro compiuto che permette ora di ripercorrere tutta la parabola creativa del Vate nazionale nell'ottica di una fedeltà alla piccola patria da cui la sua arte non ha potuto quasi mai disancorarsi.
Dalle iniziali prove in versi di Primo vere o Canto novo, e quelle in prosa di Terra vergine e di San Pantaleone (poi Novelle della Pescara), è possibile ora ricavare una progressiva marcia di avvicinamento alla scoperta della terra natale, verificata volta volta in escursioni e soggiorni di studio prima di farsi pagina letteraria, proposizione a volte nostalgica e più spesso epica di paesaggi, luoghi , costumanze e ritualità che avrebbero infine alimentato, nella fase di stanca dell'edonismo mondano, romanzi di altissima valenza espressiva quali L’innocente, Trionfo della Morte, Le vergini delle Rocce.
Persino nel momento esasperato della fase romistica ed estetizzante, il d'Annunzio che parte alla scoperta della Grecia accompagnato dal pittore-antropologo Guido Boggiani e dal suo traduttore francese Georges Hérelle, ma soprattutto dagli abruzzesi Edoardo Scarfoglio direttore del "Mattino" di Napoli e Pasquale Masciantonio futuro deputato al Parlamento per molte legislature, non riesce mai a disgiungere il paesaggio ellenico da quello del paese natio: e la nuova filosofia della civiltà del lavoro e del sociale, la perdita dell'universale conflittualità dell'esistere tramite i grandi tragici greci sarebbero approdati all'esaltazione della Laus Vitae ma anche alla ritrovata mitologia abruzzese della Figlia di Iorio e della Fiaccola sotto il moggio.
E ancora nella fase tarda delle prose di memoria e della cosiddetta «esplorazione d'ombra», l’Abruzzo sarebbe stato il referente ineludibile di una maniera di essere e di sentire che si rappresentava sempre fedele a se stessa.
Il fatto è che, pur nella gigantografia del personaggio dato in pasto al pubblico e che per il pubblico era stato sapientemente autocostruito, l’unico valore fermo restava quello, intatto e inattaccabile : delle origini.
E ne è esemplare testimone una lettera degli anni più convulsi sotto il profilo mondano, in cui d'Annunzio confessava: «Non mi sento ora nel pieno possesso di forze fisiche e intellettuali. Sono indebolito dall'amore e dai piaceri dell'amore e dalla consuetudine della vita orizzontale.
Non ho più quella bella sanità gioconda d'una v olta. Gli occhi mi danno spesso fastidio, e il fastidio m'impedisce d'occuparmi e mi mette nei nervi l'irrequietezza irosa dei piccoli mali.
Sai che vorrei? Vorrei qui della gran neve e del gran freddo che mi sforzasse all'esercizio e alle lunghe passeggiate e alle larghe respirazioni dell'aria salutare. Oh, se venisse dalla Maiella o da Montecorno ! Verrà; la invocherò con l tanta passione di amante, che verrà.”
Giuseppe Papponetti D’Annunzio e l’Abruzzo Rivista del Consiglio regionale “Regione Abruzzo” Gennaio 1997
Eremo Via vado di sole , L'Aquila, martedì 12 luglio 2011
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