«C’è un momento dell’infanzia in cui la testa è più veloce, va avanti. Esce rapidamente, e il corpo invece rimane quello del marmocchio: non si sposta, sta sempre fermo lì. In questa storia, poi, il corpo viene sentito come una zavorra, una gabbia dalla quale bisogna uscire, che va forzata, perché se no non riesce a muoversi». Erri De Luca risponde ponderato, dosando la brezza sollevata da ogni pur minima parola calata a voce. Gli chiedo notizie del nuovo libro, I pesci non chiudono gli occhi (Feltrinelli, pagine 128, euro 12,00), da oggi in libreria. Infaticabile allevatore di memoria, stavolta lo scrittore lancia le sue reti nell’estate 1960, trascorsa a Ischia insieme alla madre. Lo scontro fisico con alcuni coetanei, l’amicizia per una ragazzina scesa dal Nord, il padre lontano, oltreoceano, la manovalanza tra i marinai del luogo, i pensieri degli altri trovati allineati nei libri, qui sono soltanto ulteriori tasselli di un processo formativo ormai irreversibile, che mette l’individuo dinnanzi alle sue prime, certificate responsabilità.
Oltre a un pugno di persone, il racconto fa riaffiorare alla superficie l’isola delle tue vacanze, ma in un tempo anteriore rispetto a «Tu, mio». Perché ti sei spinto ancora laggiù? Che cosa ti ha mosso?
«Il giubileo. Il fatto che adesso, a sessant’anni, posso ricordarmi di averne avuti anche dieci. E il me di cinquant’anni fa era un ragazzino che respirava, viveva solamente tre mesi l’anno sopra a un’isola. Il resto, quei nove mesi, era la clausura di una città non fatta per l’adolescenza e per i bambini. All’epoca, Napoli aveva la più alta mortalità infantile e i bambini, quando scampavano a questa prima selezione, poi andavano a lavorare, invece che a scuola. Ma era anche fisicamente una città stretta, buia, senza spazi. Quindi, poco adatta a loro. Quei tre mesi di sbarco sopra l’isola corrispondevano dunque alla conoscenza della libertà. Che non era un elenco di diritti, ma proprio l’esperienza fisica della pelle che si scurisce, si spella e si brucia, perché allora non si usavano le creme. Era l’andare scalzo, che immediatamente forma sotto la pianta del piede una suola, con la quale si può addirittura correre sulle pietre. Era la possibilità di guardare lontano. Di mettere lo sguardo altrove, farlo perdere fin dove può arrivare. L’isola era questo.
Se devo ricordare qualcosa di buono di me stesso in quell’età, sicuramente metto al primo posto tutto ciò che si è svolto sull’isola. Per cui, ci torno volentieri».
La lettura, il modo stesso in cui affrontavi i libri, si stampa sulla pagina con una suggestione di mare: «Leggerli somigliava a prendere il largo con la barca, il naso era la prua, le righe onde. Andavo piano, a remi…». È cambiato nulla da allora?
No, sono un lettore lento. Adesso sulla prua ci devo appoggiare un paio di occhiali, ma l’andatura è la stessa.
All’inizio parli di un amico pescatore, le cui frasi «erano scogli staccati e molte onde in mezzo». Hai imparato da lui a pescare le parole una ad una?
«Le parole vengono dentro il fiato e i miei racconti sono tutti orali. Non ho bisogno di fare il pescatore di parole. Mi metto solo in ascolto di quelle che formano un racconto a voce. Il mio puntiglio è che siano precise. Le parole non sono pesci per me. E non sono neanche così libere. Ma soprattutto devono corrispondere esattamente a quel tono di voce, a quella frase, a quella determinata espressione. Usare parole precise in italiano, credo sia anche il puntiglio di chi scrive. E, più in generale, della scrittura».
Questo, affermi, l’hai appreso grazie alla passione per l’enigmistica…
«Sì. L’enigmistica, con la sua capacità di dirottare le parole, di trasformarle, mi ha aiutato».
Qual è stata l’importanza della sonorità dialettale, in cui sin da bambino sei stato immerso, nella definizione del tuo modo di scrivere l’italiano?
«Esageratamente decisiva. Forse, la sopravvaluto perfino. La madrelingua del napoletano, con cui sono cresciuto come ascoltatore più che come parlante - parlo poco, e uso il dialetto solo con i napoletani -, mi ha plasmato l’udito. Quando devo scrivere delle cose capitate a Napoli o nei suoi paraggi, faccio il traduttore in italiano».
Di quali nodi è fatta la lingua che usi comunemente quando scrivi?
«Nodi? No, no. Né nodi né peli. La mia lingua scritta, quella in cui ho la cittadinanza, è italiana. Sono un italiano perché parlo la sua lingua, non perché sono un patriota del suolo o della bandiera. E buona parte del mio affetto dipende dal fatto che avendo imparato altre lingue, le posso comparare con la mia».
Cos’hai trovato in più nell’italiano?
«La possibilità di spostare i termini di una frase, di mettere il soggetto all’ultimo banco. E magari un aggettivo, un verbo prima. Insomma, la sua elasticità. Qualità che gli viene dall’essere una lingua che si è arricchita dai dialetti. L’italiano è una lingua alluvionale: sta in fondo alla discesa dei dialetti».
Sembra una contraddizione: parlare di mare utilizzando una scrittura così asciutta, poco propensa a prendere il largo in frasi e periodi di grande apertura. Una scrittura che, nella sua essenzialità, pare quasi manifestare un profondo rispetto, un timore direi, di attraversarne, anche solo sulla carta, tutta l’immensa vastità…
«La carta è asciutta. E il mare si asciuga dentro una pozza da cui evapora. Quel bianco, quel resto asciutto e salino che rimane incrostato quando l’acqua, la vita che c’era se ne è andata, è la scrittura».
Mentre sulla barca misuravi, con lo sguardo del piccolo pescatore notturno, l’ampio spazio aperto, non ti ha mai raggiunto la domanda: Da chi tutto questo? E perché?
«No. Il mio sguardo non risale a un mittente. Vedo la lettera e non il postino».
Nemmeno davanti alla bellezza della notte stellata?
«La bellezza è qualcosa che ha a che vedere con il mondo, con la materia con cui è fatto. Non è una decorazione né un arredamento. È proprio l’energia che contiene al suo interno. Per muoversi, per essere vivo, ha bisogno di quel combustibile. Brucia bellezza il mondo, non energia».
Libri, traduzioni, articoli, canzoni, teatro, cinema. Ti ritieni un autore baciato dal successo?
«Non sono d’accordo manco con la parola autore. Scrivo semplicemente delle storie. E siccome sono accadute, io le redigo. Mi considero un redattore di storie, che per qualche motivo a me sconosciuto piacciono a un numero sempre maggiore di persone. Successo, poi, è come il participio passato del verbo succedere. E da questo punto di vista, penso siano successe cose più importanti delle mie».
Alessandro Bottelli L’Avvenire 21 settembre 2011
Eremo Via vado di sole, L'Aquila, giovedì 22 settembre 2011
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