ARTE FACTUM : La parola esposta ovvero la parola poetica
Il
nostro mondo di contraddizioni sembra aver rinunciato a causa di
un disincantata quanto insanabile contraddizione al concetto di
“opera”. Il leit motif di ogni produzione artistica è appunto
l’assenza e la frammentarietà appunto della così detta opera
artistica. Tanto che si impone la necessità di riconsiderare la
questione del modo di essere dell’opera delimitato dall’orizzonte del
fare umano che è , in primo luogo, tensione verso la realizzazione ,
che è incontro tra sé e il mondo e iscrizione di questa tensione in
una comunità e in una storia.
Scrive per questo Pascal Gabellone
in Antarem ( V serie, 75/2007) : “ Le opere rispondono ad un movimento
di incarnazione , ogni volta singolare e irripetibile , ad uno slancio,
ad una ricerca di una compiutezza e di una pienezza , che tuttavia
appaiono irraggiungibili , e quasi oggetto di un lutto” Esse quindi ,
come predicano certe estetiche, non possono ricondursi ad un semplice
fare artistico e per meglio dire ad un semplice esserci , ma devono
rispondere ad una tradizione che tentiamo di interrogare. Essendo la
tradizione a sua volta luogo di legittimazione , non ovvia ma
problematica nel suo divenire e nella sua concatenazione di continuo e
discontinuo , permanenza e movimento ,l’opera artistica può essere
esposata al rischio dell’oblio.
Come ci ricorda Hans Georg Gadamer
, ogni addio, ogni prender congedo è un riconoscere , e appartiene
all’essenza della tradizione di salvaguardare ciò che del passato si
conserva come passato.
Quindi come continua Pascal Gabellone nella parola esposta nell’opera d’arte “ La parola poetica
è
allora , al di fuori dei generi e dei territori in cui essa si
inscrive , la realizzazione di un senso inaudito del mondo, del mondo
come senso inaudito , il che non si riduce al sensato e al ragionevole
ma apre sul pericolo della sua sparizione o della sua impossibilità”
Nel mondo che viviamo la parola esposta ovvero la parola poetica è impossibile ?
Scrive Antonio Spadaro il 3 aprile 2008 nella relazione al Convegno “La poesia. Vivere nella possibilità”, Reggio Calabria,
La poesia è una «forma di vita», potrei addirittura dire che è la vita che prende forma.
Quando una vita prende forma? Quando davanti a lei si aprono possibilità.
Una vita prende forma non quando è determinata, necessitata, ma quando
davanti ad essa si dispiegano opportunità, aperture, possibilità. Vivere
è vivere nella Possibilità, come ha scritto in un suo verso la poetessa
statunitense Emily Dickinson (1830-1886):
I dwell in possibility (P
657). Per la Dickinson il poeta guarda e vede ciò che è sotto gli occhi
di tutti, ma egli ha la funzione di dischiudere le immagini e
distillare significati:
Svelatore d’Immagini, / è Lui, il Poeta. (
Of Pictures, the Discloser – / The Poet – it is He, P 448).
In questo svelamento vi è anche
una dimensione «esplosiva» così che lei può parlare allusivamente della poesia come di una bomba presa e stretta al petto:
afferrammo una Bomba - /
e la stringemmo al Petto - /
anzi la stringiamo (P 443). Cosa fanno i poeti, dunque?
In
che cosa consiste questa dimensione esplosiva della poesia? Quali sono
le sue caratteristiche salienti? Come descriverla? Nelle riflessioni del
teologo gesuita Karl Rahner, uno dei pensatori migliori del 900, è
possibile trovare alcune riflessioni poco note sulla poesia, che mi
hanno aiutato a comprendere meglio ciò che i versi di Emily Dickinson mi
avevano aiutato a intuire. Rinvio al volume
La grazia della parola. Karl Rahner e la poesia
(Jaca Book, 2006) per una analisi critica del suo pensiero. Qui
semplicemente mi farò come guidare per mano sia da Rahner sia dalla
Dickinson nel tentativo di parlare della parola poetica.
La parola poetica è un «pensiero incarnato»
Il
poeta pensa in versi. La parola poetica non è l’espressione esteriore
di un pensiero che, anche senza la parola, potrebbe esistere altrettanto
bene. La parola è un «pensiero incarnato», non semplicemente l’aspetto
esteriore del pensiero. La parola è qualcosa di più originario del
pensiero. Si pensa in una lingua, e la lingua precede e accompagna il
pensiero. E questo vale in maniera eminente per il poeta. Non c’è un
pensiero che precede il suo darsi in versi, in parole. Il linguaggio
poetico si esprime in figure, non in riflessioni e queste figure possono
far «dire» più di quanto la riflessione riesca a fare. E questo perché,
come diceva Oscar Wilde, lo scrittore non può pensare in altro modo che
in forma di racconto: pensa in inchiostro, come lo scultore «pensa in
marmo» e così via. Per questo motivo le varie lingue non sono
intercambiabili.
Lingue diverse possono essere comprese e anche
tradotte, ma non per questo le lingue sono equiparabili a una serie di
facciate, di cornici esterne dietro le quali si annida semplicemente e
unicamente lo stesso pensiero. Insomma, ci possono essere traduzioni, ma
non sostituzioni. La lingua non è soltanto la cornice esterna di un
quadro. Così la
noche di Giovanni della Croce non è la
Nacht di Nietzsche o di Novalis. L’agape della
Lettera ai Corinzi non è solo una diversa applicazione dell’
amore
dei popoli indoeuropei. Gli esempi si possono moltiplicare. Tutti
comunicherebbero l’istanza dell’assoluta unicità della parola poetica.
La
parola poetica dunque non è l’espressione di un pensiero precedente, ma
è il fiorire del pensiero davanti al mondo. Le parole poetiche sono le
prime parole del pensiero che si confronta col reale dentro una lingua. È
come la lava che esce incandescente dal vulcano.
La parola poetica è una conchiglia
Le
parole, poi, non sono identiche le une alle altre, non hanno lo stesso
peso specifico, anche all’interno della stessa lingua, come fossero
oggetti intercambiabili. Karl Rahner pone una differenza fondamentale
tra parole che sono come «farfalle morte, infilzate nelle vetrine dei
vocabolari», e parole viventi, che esistono da sempre e che, «quasi per
miracolo, rinascono continuamente». Queste ultime, anche attraverso
l’indicazione di una cosa sola, «lasciano trasparire la infinita gamma
della realtà, simili a conchiglie dentro le quali risuona il vasto mare
dell’infinità. Sono esse che
ci illuminano e non noi a
illuminarle. Esse esercitano un potere su di noi, perché – scrive Rahner
– sono doni di Dio e non invenzioni umane, anche se è grazie alla
tradizione degli uomini, che sono potute giungere sino a noi». La
conchiglia (
Muschel) è l’efficace simbolo per dire l’infinità
presente nella finitudine della parola. Le parole che sono «farfalle
morte» sono senza mistero, superficiali, sufficienti per la mente,
utilitarie (
Nutzworte). Le parole-conchiglia sono oscure,
perché «evocano il mistero luminosissimo delle cose». Sono queste le
parole della poesia, le parole, «primigenie» o, meglio ancora,
«originarie», dell’origine, (
Urworte). In questa parola l’uomo
accosta «l’orecchio alla conchiglia del mondo». Il mondo, a sua volta, è
conchiglia ha scritto il poeta bresciano Giovanni Cristini (1925-1995):
L’universo non è / che un geroglifico immenso, un grumo / di segni,
una conchiglia, un nido / indecifrabile agli occhi / della mente e del
cuore.
La
parola poetica non è un righello che squadra, ma un luogo di evocazione
e di risonanza. Insomma la parola evoca ciò che nomina e lo fa
scaturire dal fondo dal quale proviene e nel quale rimane nascosto. Ciò
trova conferma in varie dichiarazioni di poetica di scrittori e artisti
della parola, come anche nelle loro opere. Notiamo, ad esempio, che
nella
Ballata dalle arcate di Wawel il poeta Karol Wojtyła,
Giovanni Paolo II, contrappone l’immagine di santo Stefano martire che
sopra di sé contempla i cieli aperti e quella di Pitagora, figura del
filosofo senza fede, del pensiero calcolante, che per comprendere prende
le misura, inquadra e squadra:
Non misurerai, non misurerai Pitagora, non chiuderai nella cifra, nel chilometro. /
Non avvicinare di notte alla volta celeste i compassi, le scale.
La vita non è questione da affrontare con righello e calcoli. Lo ha scritto nella sua
Metodologia il poeta messinese Bartolo Cattafi (1922-1979):
Inutile farla lunga, /
girarla, rigirarla /
allo spiedo, al rovello /
dell’attenta osservazione, l’analisi, la sintesi, /
i discorsi sul metodo. /
Si muore dalla noia. /
C’è un modo d’aggredire la questione: /
col coltello. Occorre la luce d’
altro fuoco
per giungere all’«osso» o all’«anima» del reale, secondo il poeta. La
parola poetica vive di questo fuoco. L’uomo ha bisogno di udire tali
parole, di stare ad ascoltarle a lungo.
Le parole poetiche sono
parole della possibilità, parole che dispiegano possibilità di
significato e di comprensione; parole che rendono il mondo conchiglia.
Sono parole che aprono, non che chiudono e definiscono. Le parole sono
finestre e conchiglie, mani che sono disposte a dare e ad accogliere.
La parola poetica è originaria
Qual è la differenza tra parole originarie e parole utilitarie? Le prime sono le parole di Adamo. In esse le cose si mani
festano nelle parole così come se fossero al primo giorno della loro creazione. C’è ancora l’eco del
Big Bang,
della sua forza propulsiva e mantiene l’eco dello scoppio. C’è in esse
una freschezza che ancora profuma delle sue origini recenti, della sua
creazione. Henry David Thoreau in una conferenza del 1851 dal titolo
Walking
scrive che «poeta dovrebbe esser colui che sa usare le parole
trapiantandole sulla pagina «con la terra ancora attaccata alle radici» (
with earth adhering to their roots), parole vere, forti e naturali da schiudersi come gemme all’annunciarsi della primavera (
true, and fresh, and natural that they would appear to expand like the buds at the approach of spring).
È
vero che la realtà esiste anche se non è conosciuta e affermata, ma
questa realtà riceve intensità esistenziale quando perviene alla parola:
è ciò che ci comunica Adamo che nomina la creazione. Il poeta è colui
che in modo denso e ricco prosegue l’opera di Adamo: «il poeta – scrive
Karl Rahner – non è un uomo che dice con superflua ricchezza di immagini
e con fare compiaciuto, mediante le
rime e con un profluvio di
parolette sentimentali, ciò che altri – i filosofi e gli scienziati –
hanno detto in un modo più chiaro, più oggettivo e più comprensibile».
Il rischio sempre in agguato è quello di vedere nella parola poetica
solamente una felice illustrazione di ciò che potrebbe essere detto più
brevemente e con più precisione e restare fissato con un concetto. Qui
si tratta di cercare il potere proprio della parola poetica nel dire ciò
che nessun altro tipo di costruzione speculativa potrebbe giungere ad
esprimere. Un genio poetico quale fu il gesuita francese François
Varillon nelle sue ampie
Traversate di un credente (Jaca Book,
2008) ha inteso la poesia come «un senso acuto e doloroso
dell’insufficienza della ragione discorsiva per illuminare il mistero
dell’anima».
Il
potere proprio della parola poetica è la freschezza, cioè il
dischiudersi delle possibilità che si aprono come «gemme all’annunciarsi
della primavera», nelle certezza, come scriveva il poeta gesuita
inglese Gerard Manley Hopkins (1844-1889), che
vive in fondo alle cose la freschezza più cara (
There lives the dearest freshness deep down things).
È questo un verso preziosissimo, che ho usato come titolo per una
antologia delle sue poesie appena pubblicata da Rizzoli, e che il
domenicano Pierre-Marie Emonet ha usato per una sua introduzione alla
filosofia dell’essere.
Allora ha ragione la Dickinson ad affermare:
I Poeti non accendono che Lampade - /
essi stessi e poi spariscono /
ma le Fiammelle che stimolano - /
se vitale è la Luce /
durano come i Soli (P 883). Il poeta coglie l’esperienza in modo luminoso, svelando significati inediti e sapori nuovi:
Da Calici scavati nella Perla / assaporo un liquore mai gustato (P
214). In questa sorta di profonda percezione del senso dell’esistenza e
dell’avventura della vita vivono le esplosive tensioni e le
contraddizioni della poesia.
La parola poetica rende presente ciò che nomina
La parola primigenia evoca la realtà di cui parla e la rende
presente.
È chiaro dunque che quando il poeta scrive in una sua poesia la parola
«acqua», essa può avere un significato ben diverso rispetto a quello che
le attribuisce un chimico pensando alla formula H2O: l’acqua che
l’uomo
vede e che il poeta canta non è un elogio poetico dell’acqua del
chimico. Non c’è affatto da dubitare o sospettare del chimico o del
fisico, ovviamente. È solo da precisare che per il chimico la parola
«acqua» deve avere un contenuto preciso e definito, mentre per il poeta
no. Per il poeta le parole restano «dense e scintillanti insieme»; per
il chimico invece la parola «acqua» è uno strumento che riduce la cosa
rappresentata alla sua pura oggettività. Le parole poetiche rendono
presente l’acqua. Esse «possiedono una
semplicità, che
racchiude in sé ogni mistero». Il vero poeta dunque è colui che possiede
il dono e la vocazione di liberare le parole dalla sfera di un
oggettivismo castrante.
Quindi
comprendiamo che le parole primigenie non sono semplicemente alcune e
ben precise parole: sono tutto il linguaggio dell’umanità che riesce a
strappare le cose dalle loro tenebre per portarle alla luce. Esse sono
un dono e come tali vanno accolte. Sono parole – elenca Rahner – come
«fiori, notte, stella e giorno, radice e fonte, vento e sorriso, rosa,
sangue e terra, fanciullo, fumo, parola, bacio, fulmine, respiro,
quiete». Ad esse si addice un infinito sconfinamento, scrive Rilke:
Siamo forse qui per dire solo: casa, /
ponte, fontana, porta, mandorlo, /
brocca, finestra, /
o, al più, colonna, torre… o per dire, intendi, /
oh dire veramente come le cose nell’intimo /
mai s’immaginarono d’essere... E la Dickinson gli fa eco:
Fu questo un Poeta – Colui che distilla /
un senso sorprendente da ordinari /
Significati, Essenze così immense /
da specie familiari /
morte alla nostra Porta /
che stupore Ci assale /
perché non fummo noi /
a fermarle per primi. (P 448).
La parola poetica è molto precisa
È
la precisione che potenzia la capacità evocativa della parola poetica,
non la sua vaghezza. La precisione del dettaglio, eliminando ogni
approssimazione, spinge il lettore a fare esperienza. Essa rende reali
le emozioni, evitando eccessi di astrattezza e sentimentalismo.
Maupassant affermava, del resto, che non c’è ferro che possa trafiggere
il cuore con più forza di un punto messo al punto giusto. Lo scrittore
statunitense Raymond Carver, dopo aver letto la frase di Maupassant,
commentò: «Era proprio quello che volevo fare con i miei racconti:
mettere in fila le parole giuste, le immagini precise, ma anche la
punteggiatura più efficace e corretta, in modo che il lettore venisse
trascinato dentro e coinvolto nella storia, e non potesse distogliere lo
sguardo dal testo a meno che non gli andasse a fuoco la casa».
Questa
precisione porta la parola a «sconfinare»: «possono parlare di
qualunque cosa, ma alludono – sussurrando – sempre a tutto. Quando si
vuole misurare la loro circonferenza, quando si tenta di circoscriverle,
ci si smarrisce sempre nell’infinità», scrive Rahner. Le parole dunque
portano in sé una luminosa oscurità. La conoscenza che offrono evoca
sempre il mistero. È sempre una conoscenza oscura e non analizzabile
come lo è la realtà stessa. Anzi, tramite queste parole la realtà si
impadronisce di noi e ci conduce nelle sue profondità.
La parola che va al cuore e unifica
Se
la parola è veramente «poetica», allora essa avrà la capacità di
colpire il centro dell’uomo, il suo cuore. Sono «parole del cuore»: non
parole sentimentali, né parole puramente razionali. Occorre dunque
esercitare prontezza e capacità di percezione perché le parole non
scivolino sulla superficie dell’uomo affaccendato, non soffochino
nell’indifferenza e si perdano fra le chiacchiere. Queste parole sono
come «una lancia», colpiscono «le più intime profondità umane uccidendo e
ravvivando, trasformando, giudicando, graziando». Esse riconciliano,
liberano il singolo dal suo isolamento e dalla sua solitudine, e fanno
sì che in ciascuno ci sia il tutto: parlano di un uomo e ci rendono
familiari con l’uomo. La poesia parla di un’esperienza particolare,
singolare. Eppure la parola poetica è in grado di universalizzare qu
ell’esperienza: il dolore o la gioia di uno (autore, personaggio…) diventano quelle di ogni uomo, e del lettore in particolare.
***
Allora
è vero quel che scrive la Dickinson: Abito nella Possibilità – / Una
Casa più bella della Prosa / Dalle Finestre più numerose / Superiore –
per Porte – / Dalle Stanze come Cedri – / Impenetrabili all’Occhio – / E
come Tetto Perenne / La Volta del Cielo – / Di Visite – la più lieta – /
Per Occupazione – Questa – / Allargare le mie strette Mani / Per
raccogliere il Paradiso (P 657). La poesia è vivere nella possibilità.
Non nella probabilità, ma nella possibilità, nello spazio in cui il
mistero del mondo si dispiega inesauribilmente. La sua casa ha finestre
più numerose, stanze alte e impenetrabili e il suo tetto è il cielo,
cioè non c’è. È una casa singolare, la poesia: è lo spazio di una
apertura. E la Dickinson scrive in un’altra poesia:
Se in una Grotta
tentavo di nascondermi,/ le Mura si mettevano a gridare – / il Creato
sembrava un potente Spacco – / per lasciarmi scoperta (P 891). La poesia è una maniera di riflettere e cercare, di stare esposti al grande «Spacco»
(Crack) che è un altro modo per dire il mistero del reale, davanti al quale si rimane sempre scoperti.
Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 19 giugno 2012