OVIDIANA : Filomene e Bauci ,l’accoglienza dello straniero
(Parte I)
L’Avvenire dell’11 aprile 2010 presenta uno studio recente sul mito ovidiano di Filemone e Bauci e sulla sua fortuna ad opera di Donatella Puliga, dal titolo “Ospitare dio” edito da il Melangolo.
Scrive L’Avvenire: “ (questo studio ) ci porta a considerare una delle norme morali più belle o delle leggi stesse della sopravvivenza umana in tutto il mondo antico: il dovere cioè e la necessità dell'accoglienza dello straniero. Gli uomini pellegrinavano in terre lontane avendo come mezzo e sostegno di viaggio solo le proprie gambe e una bisaccia - o nemmeno quella: «Non portate in viaggio se non il bastone, non pane né bisaccia, entrate nelle case e rimanetevi ma se non vi accoglieranno e non vestiranno uscite e scuotete la polvere dai piedi, che si veda cos'hanno fatto» (Vangelo di Marco, 6). Si affacciavano e percorrevano luoghi impervi e sconosciuti nei quali e per i quali non avevano altro sostentamento che la carità dei propri simili. Ulisse gira per tutti i mari e le rive e le isole soccorso da dèi e da re. Quando nel primo libro dell'Eneide i compagni di Enea scampano al naufragio sulle coste africane, si stupiscono e si dolgono che gli abitanti del luogo, evidentemente «barbari», non concedano loro l'approdo sulla spiaggia e non permettano di cercare cibo per rifocillarsi; quando poi la regina Didone li accoglie alla pari nella sua città, «l'aver conosciuto la sventura - spiega loro - mi ha insegnato a soccorrere i miseri». La Bibbia offre
molti esempi anche toccanti. Ecco i due discepoli che incontrano lo «Straniero» sulla strada di Emmaus e lo «costringono» a fermarsi nella locanda a cenare insieme a loro: «Mane nobiscum, quoniam advesperascit et inclinata est iam dies» gli dicono, come il pastore dice al migrante alla fine nell'Egloga prima di Virgilio: «Hic tamen iam mecum poteras requiescere noctem- iam maiores cadunt altis de montibus umbrae». Nell'Antico Testamento, terzo libro dei Re, Elia viene accolto e rifocillato dalla povera vedova, che gli offre da bere, gli fa la pasta e gliela condisce con olio, e sarà benedetta. Prima, nella Genesi, il grande squarcio della generosità di Lot e della distruzione di Sodoma: Lot scorge due angeli a sera sulla porta della città, s'inchina loro e li invita caldamente a lavarsi i piedi e a dormire in casa sua, a mangiare alla sua mensa le focacce che egli stesso cuoce per loro «e poi domattina riprenderete la vostra strada»; così Lot viene fatto fuggire con i suoi e risparmiato mentre Jahvé riversa una pioggia di zolfo e di fuoco sulla città perversa e inospitale; ma sua moglie per essersi voltata indietro e aver esitato a seguirlo fu trasformata in statua di sale. Anche nel mito pagano di Filemone e Bauci quale narrato nell'ottavo libro della Metamorfosi di Ovidio si racconta come - anche qui, con un parallelismo delizioso nelle sue somiglianze toccanti - due divinità dell'Olimpo pagano, Giove e Mercurio, scendono in terra in forma umana e attraversando la Frigia chiedono accoglienza in molte case per riposare, ma vengono respinti. Solo una piccola capanna coperta di paglia e di canne apre loro l'uscio: vi si affacciano due vecchietti, Bauci e il marito Filemone, che vivono lì fin dalla giovinezza, «invecchiati in quella casa alleviando la povertà con l'accettarla». Filemone li fa entrare e sedere, Bauci mette legna sul fuoco,
appresta da mangiare e imbandisce quanto ha di meglio, verdura dell'orto, una spalla di maiale affumicato, olive e frutti del giardino ma soprattutto vultus boni, un piatto di buona cera- I due vecchietti saranno premiati, verranno scampati dal diluvio che gli dèi riversano sulle altre case, salendo con loro su un'altura di dove osservano addolorati la distruzione di tutti gli altri. La loro capanna rimasta intatta si muta in un ricco tempio di marmi e d'oro ed essi ottengono la grazia di esserne custodi sino alla fine dei loro giorni e di morire insieme come insieme sono sempre vissuti d'amore e d'accordo. Così avverrà, e saranno trasformati in due alberi davanti al tempio. John Dryden nella Religio laici si chiede se non sia per caso possibile che anche i buoni pagani siano salvati.
Può allora il divino bussare alla porta infrangendo il confine che lo separa irrimediabilmente dagli uomini? Può l’amore umano costituire un presupposto per la sua accoglienza? E che cosa significa incontrare questo Altro che chiede ospitalità? Queste alcune delle domande che ci pone il mito di Filemone e Bauci, un mito che, a partire da Ovidio, ha conosciuto infinite riprese con variazione.
Ma qual è la storia di Filomene e Bauci ?
“ Si racconta che un tempo, - quando sull’Olimpo vivevano gli dei dell’antica Grecia – Giove volle discendere sulla terra per rendersi conto di come gli uomini si comportassero. Per questo, preso l’aspetto di un uomo qualunque, egli e il figlio Mercurio, il quale per l’occasione si era tolto dai piedi le ali, si diedero a percorrere le vie della Grecia.
I due pellegrini, così travestiti, giunsero in Frigia senza farsi riconoscere da nessuno. Qui, desiderosi di trovare un rifugio dove riposarsi, si misero a picchiare di porta in porta chiedendo ospitalità. Bussarono così a innumerevoli palazzi, ma dovunque furono scacciati e trovarono le porte serrate a catenaccio.
Giunsero finalmente ad un povera capanna ricoperta di canne e di erbe palustri, dove abitavano due vecchietti della medesima età, la pia Bauci e il buon Filemone. In quella capanna Filemone e Bauci avevano vissuto insieme fin dalla giovinezza; in quella erano invecchiati senza vergognarsi della loro povertà e sopportandola tranquillamente, tanto da non sentirne neppure il peso.
Nell’umile dimora era inutile chiedere quale fosse il servo e quale il padrone: vi erano due sole persone, e tutte e due comandavano e ubbidivano a vicenda. Qui Giove e Mercurio trovarono pronta cordiale accoglienza.
Non appena furono entrati, chinando la testa per non batterla allo stipite della porta troppo bassa, il vecchio li invitò a riposarsi porgendo loro una panca sulla quale l’accorta Bauci aveva steso un rustico tappeto. Quindi la buona vecchierella allargò con le mani le ceneri tiepide del focolare e, per riattizzare il fuoco del giorno prima, lo alimentò con foglie e scorze secche, e ne fece sprizzare la fiamma soffiandovi sopra con quel poco fiato che ancora le rimaneva. Prese poi legna e rami di pino ben secchi e li spezzò per metterli sotto al piccolo paiolo; poi si diede a mondare gli erbaggi raccolti dal marito nell’orto coltivato con molto amore. L’altro con un’asta forcuta tirò giù un coscio di maiale affumicato rimasto appeso per lungo tempo alla nera trave, ne tagliò una fetta sottile e la mise a cuocere nell’acqua bollente.
Frattanto ingannavano il tempo discorrendo.
Infine il buon vecchio, spiccato da un chiodo un bacile, lo riempì d’acqua tiepida e l’offerse agli ospiti perché potessero lavarsi i piedi. Quindi gli dei si adagiarono su un povero lettuccio di legno di salice, ma con un materasso di soffice alga, sul quale era stata distesa la coperta dei giorni festivi; anche questa però era una coperta vecchia e misera adatta a un letto di salice.
La vecchietta, serratasi la veste alla vita, cominciò a preparare la tavola. Era una tavola a tre gambe, e dovette rincalzarla perché una gamba era più corta. Quando l’ebbe ben pareggiata, ne strofinò il piano con la menta fresca e vi servì in piatti di coccio le olive sacre alla casta Minerva, le corniole dell’autunno conservate in salamoia, invidia e rafano, formaggio fresco, uova assodate nella cenere calda. Dopo fu portato in tavola un rozzo cratere, anch’esso di coccio, e coppe di faggio spalmate, nel cavo, di bionda cera.
Così tolte via dalla mensa le vivande, viene mesciuto nella coppa il vinello asprigno di quell’anno medesimo, che poi, messo un poco in disparte, lascia posto alle frutta. Ecco la noce, ecco i fichi secchi insieme ai datteri rugosi, e prugne, e mele odorose negli ampi canestri, ed uva colta dalle viti rosseggianti di grappoli. In mezzo sta un candido favo ricolmo di miele. E tutto è condito con un piatto di buon viso.
Senonchè durante il pasto, ogni volta che il cratere rimaneva vuoto, lo vedevano spontaneamente riempirsi, come se il vino sorgesse su dal fondo.
Meravigliati per una cosa tanto straordinaria, Filemone e Bauci furon presi da timore, e levando le mani al cielo invocarono perdono per i rustici cibi e per la mancanza d’ogni apparato.
Possedevano una sola oca, che faceva da guardia alla povera capanna, e i due vecchi si preparavano ad ucciderla in onore degli dei loro ospiti. L’oca, svelta, svolazzando qua e là, riesce a lungo a sfuggire ai due lenti inseguitori, e finalmente trova rifugio in grembo agli dei, che la proteggono e la salvano.
"Noi siamo proprio dei" dissero "e i vostri empi vicini subiranno la punizione che hanno meritato; voi invece rimarrete immuni dal flagello. Abbandonate dunque la vostra casa e seguiteci sulla cima del monte".
I vecchietti ubbidirono, e, preceduti dagli dei, appoggiandosi ai loro bastoncelli, si sforzarono quanto lo permetteva la tarda età, di salir su lentamente per l’erto pendio.
Erano lontani dalla cima quanto un tiro di freccia, allorchè, volgendo gli occhi al basso, scorsero tutte le cose dintorno sommerse da una palude; soltanto la loro capanna era salva.
Mentre essi stupiti compiangevano la sorte dei vicini, la vecchia capanna, piccola perfino per due soli padroni, ecco si converte in un tempio: i pali a forcella di sostegno al tetto si trasformano in colonne, le stoppie diventano d’oro, il pavimento si copre di marmo, le porte appaiono magnificamente scolpite.
Allora il figlio di Saturno parlò con benigna voce: "Ditemi ora, o buoni vecchi sposi, degni l’uno dell’altro, che cosa desiderate".
Scambiate poche parole con Bauci, Filemone rispose: "Chiediamo di essere sacerdoti e di poter custodire il vostro tempio; e siccome abbiamo trascorso insieme d’amore e d’accordo tutta la vita, desideriamo di morire nel medesimo tempo, cosicchè io non debba vedere il sepolcro della mia sposa, nè essere da lei sepolto."
I loro voti vennero accolti, e i due vecchi diventarono custodi del tempio.
Giunti al termine della vita, si trovarono per caso sui gradini del tempio a narrarne la storia ai visitatori. A un tratto Bauci vide Filemone mettere fronde, mentre il vecchio Filemone, dal canto suo, vedeva le membra di Bauci irrigidirsi e metter fronde anch’esse. Intanto che la cima degli alberi cresceva, i due sposi si scambiavano parole di saluto, fino a quando fu loro possibile.
"Addio, sposo mio" si dissero a un tempo. I quello stesso momento le loro labbra scomparvero sotto la corteccia.
Ancora oggi, in quel medesimo luogo, i cittadini di Cibra indicano i due tronchi, l’uno accanto all’altro, nati dai due corpi.
Queste cose mi furono raccontate da persone degne di fede. Io stesso vidi poi le corone votive appese agli alberi; e mentre vi appendevo anch’io fresche ghirlande, dissi: "Gli uomini pii sono cari agli dei, e coloro che li onorano vengono onorati."
(continua)
Eremo Via vado di sole, L'Aquila, domenica 13 giugno 2010
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