giovedì 10 giugno 2010

VOCI E STORIE DAL SILENZIO : Massimo Lelj

VOCI E STORIE DAL SILENZIO : Massimo Lelj
(parte I)

Massimo Lelj nacque a Tione degli Abruzzi nel 1883 e morì a Milano nel 1962.
Studiò il Risorgimento e pubblicò i suoi studi nei volumi:
Il risorgimento dello Spirito italiano :1725-1861 (1928), La Santa Fede : la spedizione del Cardinale Rufo 1799 ( 1936), Il genio d’Italia (1940)
Rielaborò questo suo interesse storico in alcuni romanzi tra cui il più noto è Mezzaluna grigioverde pubblicato nel 1956.
Alle esperienze adolescenziali e alla sua terra natia dedica Romanzetto del Tione pubblicato nel 1961 per le Edizioni Scientifiche di Napoli e Stagione al Sirente pubblicato a Firenze da Vellecchi nel 1933.

La sua bibliografia è composta dai seguenti volumi:
Discorsi scelti di Cavour, Milano, Bottega di Poesia, 1925
Il Risorgimento dello spirito italiano Milano, L’Esamo , 1928
La terra e il principio nazionale ,Roma ,Felsina, 1931
Stagioni al Sirente,Firenze Vallecchi , 1933
Poesia e forza delle nazioni ,Lanciano ,Barabba, 1933
La Santa Fede , Milano , Mondatori 1936
Ichnusa Milano Scheiwiller ,1937
Il genio dell’Italia, Milano, Bompiani, 1940
Torpediniere,Palermo Flacccvio, 1942
Via Gregoriana , Milano Bompiani ,1951
Carlo Barbieri , Milano, Quaderni d’arte Scheiwiller,1954
Mezzaluna Grigioverde, Milano Bompiani ,1936
Romanzetto del Tione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane
1961

Nel panorama culturale del primo Novecento Massimo Lelj conobbe, collaborò ed entrò in polemica con molti intellettuali italiani e stranieri di quel tempo.
Sicuramente Gadda ebbe occasione di contatto: certamente tra i suoi Alpini, negli anni di guerra e di prigionia, e successivamente (ma anche prima della Grande Guerra) a Milano, dove furono studenti il compositore Bonaventura Barattelli e il pittore Domenico Cifani, e dove autorevolmente agivano giornalisti-scrittori quali Giovanni Titta Rosa, alla cui non occasionale frequentazione Gadda accenna negli abbozzi della Meccanica (RR II 1187), Massimo Lelj, che era una delle penne eccellenti al Corriere della sera, Silvio Spaventa Filippi, fondatore del Corriere dei Piccoli e aquilano d’adozione.
Come pure fu coinvolto nell’avventura della firma del Manifesto della razza. Scritto da alcuni scienziati fu, subito sottoscritto da 330 personalità in vista (anno 1938) desiderose di rendere pubblica, coram populo, la loro adesione alle nobili tesi in esso contenute.

Massimo Lelj nel suo libro "Stagioni al Sirente" descrive la vita tradizionale di un mondo contadino ormai scomparso .Ecco per esempio il momento della partenza per le Pagliare , un altopiano alla sommità della montagna dove i tienesi vivevano molti mesi estivi dediti ai lavori dei campi e all’allevamento armentizio.


"Si diceva la pagliara per indicare quel gruppo di casolari, stalle e pagliai che per sei mesi dell'anno restavano vuoti, chiusi, abbandonati nella distesa solitudine della neve, sull'altipiano, assiderati dal vento, dagli urli del bosco e dei lupi, si tenevano affiancati e stretti aspettando, come fanciulli, che quella lunga notte fosse passata, sognando il ritorno degli uomini e delle stagioni, i lavori, gli animali, gli odori delle fragole e del fieno quando tutti sarebbero giunti lassù, dopo quattro ore di ascensione, preceduti dal sagrestanello, in veste azzurra e cotta, col crocefisso .”
Allo zafferano dedicano alcune pagine sia Giovanni Titta Rosa che Massimo Lelj

LA FIERA DI SAN QUINTINO

”Già il giorno prima la piazza cominciava a popolarsi.
Arrivavano carretti di merciai, di ramai, di calzolai, e piantavano le loro tende fra la chiesa e il municipio; i castagnari mettevano i loro focaracci vicino al ponte, scaricavano i sacchi, accendevano la carbonella. Un grato odore di fumo e di castagne arrosto intiepidiva l’aria, e il suono a festa delle campane dava allegrezza. I mercanti di zafferano giungevano soltanto la mattina della fiera: Ad essi era riservato lo spazio davanti le vetrine della farmacia e alla porta del circolo, che era il posto dei signori.
E veramente la fiera, se riusciva una bella fiera, con gran concorso di gente da tutti i paesi della vallata, si doveva a loro. I signori del circolo si mostravano ben disposti a prestare sedie e tavolini, collocavano le loro bilance di ottone, le cassettine con i pesi fino al milligrammo, monete d’oro e d’argento, piastre e marenghi. Le bilance luccicavano come quelle del farmacista; i marenghi somigliavano alle medagliette che portavano le ragazze sul seno, ma valevano di più. I contadini, avvolti nei loro cappotti d’azzurro scuro ci si incantavano; e forse per incantare i loro occhi diffidenti, quei marenghi erano stati collocati così in vista, sul lustro tavolinetto di noce. Seduti o in piedi davanti alle bilance, i mercanti di zafferano non battevano ciglio, non rivolgevano la parola a nessuno; attendevano.

Tuttavia ardeva tra loro fin dalla mattina una gara segreta, basata su differenze minime di prezzo. I contadini passavano e ripassavano davanti a quei tavolini allineati, s’ informavano sui prezzi dell’uno e dell’altro, e si decidevano a tirar fuori di sotto il cappotto il loro sacchetto di zafferano, solo quando s’erano persuasi che sarebbe stato impossibile vendere ad un prezzo maggiore..Allora cautamente mostravano il frutto prezioso delle loro cure e fatiche, sul quale l’occhio del mercante si appuntava con calma avidità specialmente per vederne e farne constatare i difetti.

Ne prendevano un pizzico tra le dita, lo esaminavano controluce, lo palpavano. L’odore tiepido ed aromatico dello zafferano si spandeva nell’aria; il suo colore, simile al sangue rappreso passava l’esame di quegli occhi cauti e attentissimi, capaci di distinguere immediatamente se il giallo di un antera si mescolasse nel rosso asciutto di un pistillo, e il grado di umidità, o qualche bruciacchiatura. Occhi infallibili. Erano queste tare a decidere il prezzo; e se il contrasto tra mercante e contadino era muto, o se si esprimeva solo con un segno del volto, una smorfia della bocca o un gioco d’occhiate, la tensione non era fra loro meno evidente e serrata. Finalmente il mercante gettava, come se la sputasse, la cifra del prezzo; e se era troppo lontana dalle pretese del venditore, assisteva impassibile al gesto di costui che rimetteva ne l sacchetto la sua merce, e se la nascondeva sotto l’ampio cappotto, senza una parola. Ma il tempo stringeva; occorreva far delle compere, una pezza di stoffa per la figlia maggiore che attendeva trepidante dietro di lui, un paio di scarpe, un paiolo nuovo.(.....)

Perché la fiera e’ fatta per vendere e comprare, ma il contadino non ci va coi denari in tasca, per antica tradizione ci andava sempre con il suo sacchetto di zafferano. Da quel sacchetto tenuto in custodia dalla moglie nell’ armadio dove aveva profumato la biancheria dovevano uscire le compere della stagione, la dote per la figlia da maritare, i brelocchi, gli orecchini e le altre vistose orerie, e il nuovo maialetto da allevare per l’annata. Pian piano dopo cautissime trattative, ripulse e giuramenti, il sacchetto andava ad ingrossare il sacco del mercante di zafferano. Costui, finalmente dando aria al portafoglio a organetto, contava nelle mani del contadino i morbidi biglietti da cento,sbucciava come fossero cipolle i rotolini di lire d’argento e facendosele scivolare sui polpastrelli ne riempiva quelle mani asciutte e callose, tese anch’esse nell’attenzione del conto. Se gli affari andavano bene, stavano allegri anche i castagnari e i cantinieri; che dico?, stavano contenti anche i signori che per quel giorno avevano aperte le loro antiche cantine e calcolavano di vuotare più di una botte di vino cotto. (.....).

Intanto i mercanti di zafferano salivano sulla loro ”bichetta”, tirata da svelti cavalli di bel pelo, smaniosi di mettersi al trotto; gli agili giarretti, le groppe lucenti, le teste aitanti ed estrose facevano la meraviglia dei contadini. Possedere un cavallo così sarebbe stata la ricchezza. E invidiavano ancora una volta quei nemici che erano stati così sofistici sul peso e sul prezzo, e ora se ne andavano con un bel sacco di zafferano legato sullo schienale, frutto delle fatiche di un anno. Perché lo zafferano e’ una pianta che richiede cure infinite, va allevata come un bambino: vuole un terreno leggero come la seta, lavorato più di un orto, non si finisce mai di stargli attorno. Poi te lo portano via per qualche foglio da cento, e nelle mense dei signori lo pagano un occhio...”
da ”L’avellano”di Giovanni Titta Rosa



ALLA RACCOLTA DELLO ZAFFERANO
”Alla raccolta dello zafferano i paesi erano parati di fiori a mucchi a strapunti soffici e carnosi, malinconici come il viola lilla dei lunghi calici, il bianco intimo dei gambi senza sole, e ci si smorzavano le pedate a tradimento , le pedate coi chiodi, che morsicavano i sassi, personali, conosciute;erano infiorate le scalinate che uscivano a cascate di pietra nei vicoli, e i vicoli, larghi, di quei fiori senza odore, scarti, che non importava a nessuno tranne forse ai ragazzi, e finivano fango calpestati.




I bulbi s’avevano da riposare ogni tanto allo scuro delle cantine e venivano ripiantati in riga astrofe come le cipolle Buttavano foglie come agoni inguainati, fiorivano prima di buttare le foglie davano fiori e fiori da cogliere ogni giorno.
Tornavano le ragazze coi cesti infilati al braccio, i canestri in capo leggeri, era un divertimento, abituate a fare la costa con la conca in capo, e sedevano in cima alla scalinata,con il capistelo sulle ginocchia a sfiorare, la piu’ femminile di tutte le operazioni, che pure non impediva a un giovanotto d’avvicinarsi a far finta di sfiorare per pudore e segreto d’innamorato, quando una gente onesta, cacciata dalle sue case, era destinata a doversi ficcare in testa che tutto, anche l’amore è denaro.
Facevano roteare il gambo con l’indice e il pollice e aprivano così i petali e spogliavano i tre fili rossi fino a due inutili gocce di polpa gialla in fondo al calice, coglievano quei fili sanguigni, li posavano in una forma di vimini da cacio e buttavano il fiore violentato; aveva portato e cresciuto i sui fili odorosi senza pigliarsi ombra d’odore, s’era fatto bello per essere colto e adesso fornita l’opera, non aveva altro da fare a questo mondo come certi insettini dopo l’amore. S’asciugavano alla cenere del focolare, sparsi in un setaccio.
Quei fili corallini teneri ed aggrovigliati, fumavano, s’abbrustolivano un poco, odoravano in tutta la casa. Conservati in uno stipo a muro, la gente di casa se ne scordava, e lo stipo glieli ricordava. Il respiro odoroso dello stipo e a cap’inverno, la voce dell’anno osia il prezzo. La voce usciva da qualche fiera, e non c’era da scomodarsi, i compratori sarebbero venuti apposta alla fiera del tuo paese...”
da ”Alla raccolta dello zafferano”di Massimo Lelj

Del piccolo tesoro dello zafferano ecco la descrizione che ne dà Lelj
“…le donne preferivano gli orefici ed amavano di destinare lo zafferano all’acquisto degli ori, ori per le figliuole,ori per le spose. Allora la vendita diventava un baratto : le donne consegnavano i loro cartocci profumati e dopo una minuziosa scelta nelle urne piatte di quei gioiellieri ambulanti,dopo pesi, verifiche e riprove, se ne ritornavano a casa con uno spirito santo raggiante attaccato ad una collana nuova,o con un paio di orecchini a volute barocche,smaltate d’azzurro. Così lo zafferano formava piccoli tesori …. (Stagione al Sirente ,1933)


Eremo Via vado di sole, L’Aquila giovedì 10 giugno 2010

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