AUTODAFE’ Alda Merini
Lascio a te queste impronte sulla terra
tenere dolci, che si possa dire:
qui è passata una gemma o una tempesta,
una donna che avida di dire
disse cose notturne e delicate,
una donna che non fu mai amata.
Qui passò forse una furiosa bestia
avida sete che dette tempesta
alla terra, a ogni clima, al firmamento,
ma qui passò soltanto il mio tormento.

Per
parlare di Alda Merini è bene partire da un'ovvietà: prima che il
manicomio battezzasse la sua follia, la Merini era già poetessa. Il suo
destino di poeta non si determina con l'esperienza del ricovero, ma
viene da lontano. Era nata a Milano nel 1931 insieme alla primavera,
come ricorda in una poesia di Vuoto d'amore; il padre faceva
l'assicuratore, la madre la casalinga. A soli dieci anni vinse il premio
Giovani poetesse italiane, ricevendo il riconoscimento dalla futura
regina Maria José. Nella Milano della ricostruzione, adolescente,
conobbe Giacinto Spagnoletti, che le aprì le porte del mondo
intellettuale della città: lei che soffriva di non aver potuto
completare gli studi entrò in rapporti con Maria Corti, Luciano Erba,
David Maria Turoldo, Giorgio Manganelli. Con quest'ultimo intrecciò,
ragazzina sedicenne (mentre lui aveva quasi dieci anni di più ed era già
sposato), una relazione divenuta leggendaria, in seguito raccontata e
messa in versi molte volte. Manganelli non era ancora lo scrittore
affermato di poi, sebbene già prodigiosa fosse la sua erudizione, specie
in letteratura inglese. Tanti anni dopo, dalle valigie di carte
lasciate alla figlia Lietta, sarebbero emerse le sue poesie giovanili,
dai toni così prossimi a quelle scritte dalla Merini degli inizi.

Già,
le prime poesie. Spagnoletti intuì subito il valore della Merini e la
inserì, quando ancora non aveva pubblicato quasi nulla, nella
prestigiosa Antologia della poesia italiana (1909-1949), pubblicata da
Guanda nel 1950. Fu ancora lui ad accogliere la sua raccolta d'esordio,
La presenza di Orfeo (1953), nella collana che dirigeva da Schwarz.
Sarebbero venuti di seguito i volumi Nozze romane, Paura di Dio
(entrambi del 1955) e Tu sei Pietro (1962). La prima Merini è mistica e
pagana, tratteggia figure del mito e della religione con attenta cura
retorica, in una lingua impastata di movenze classicheggianti. Sono
poesie di tono lirico, non senza tratti barocchi, ispirate a una sorta
di horror vacui, in cui si aprono spiragli di inquietudine e angoscia.
Ad accorgersi, con la solita profetica capacità di lettura, degli indizi
di un destino travagliato e tormentoso è Pier Paolo Pasolini, che della
«ragazzetta milanese» scrive su «Paragone» nel 1954. Nell'articolo
intitolato Una linea orfica, la Merini chiude il breve catalogo aperto
da Girolamo Comi e Michele Pierri (che ritroveremo più avanti coinvolto
nella vita della poetessa). Dopo aver parlato di «fenomeni patologici»
ed essersi dichiarato disarmato «di fronte alla spiegazione di questa
precocità, di questa mostruosa intuizione di una influenza letteraria
perfettamente congeniale», Pasolini annota: «Uno stato di informità
quasi di deformità irriflessa - passiva nel senso più attinente al suo
sesso - ristagnante, arcaico, è quello in cui vive la Merini: e da cui,
destata dall'inquietudine nervosa, dei sensi infelici, si genera una
mostruosa voce maschile a definirlo. A definirlo, per essere esatti,
"oscurità" e "attesa"».

Intanto
Alda, dopo la fine del legame con Manganelli, si sposa nel '54 con
Ettore Carniti, una persona semplice, un panettiere. Mette al mondo le
prime due figlie, Emanuela e Flavia. La difficoltà di far fronte ai
propri compiti di madre e di moglie determina ben presto tensioni e
liti. Durante una di queste, il marito la fa ricoverare all'ospedale
psichiatrico Paolo Pini. La poetessa aveva già dato segni del suo
disagio psichico, era stata in cura e in analisi. La scoperta del
«manicomio» fu però un punto di non ritorno. Era il 1965: per quasi
quindici anni, fino al 1979, fu un andirivieni dentro e fuori le mura
dell'ospedale. Durante questo periodo dà alla luce altre due figlie,
Barbara e Simona.

La
sua poesia, si diceva, non nasce con l'ospedale psichiatrico. Piuttosto
la poesia accoglie e rigenera quell'esperienza, la reinventa in forma
di rivelazione, come sigillo del suo destino di «diversa» (in prosa ne
scrisse appunto in L'altra verità. Diario di una diversa, 1986). La
Terra Santa è il libro (uscito nel 1984, prima da Scheiwiller e poi in
edizione ampliata da Lacaita) che fa del manicomio materia di canto:
messa di fronte a un dolore oscuro e bruciante, la poesia levigata e
arcana, sebbene inquieta, che era stata della Merini giovane cambia
tono. Si assolutizza, si solleva e riadagia come un respiro affannoso,
diviene perentoria, capace di rapidi scorci. Alcuni testi di questa
raccolta costituiscono il vertice della sua produzione («Manicomio è
parola assai più grande / delle oscure voragini del sogno» suona
l'attacco del primo).

Questi
anni vedono la morte di Ettore Carniti, il nuovo matrimonio con il più
anziano medico e poeta tarantino Michele Pierri (1899-1988), il crescere
dell'attenzione critica e giornalistica. L'appartamento di Ripa di
Porta Ticinese 47, dove torna a vivere dopo la parentesi di Taranto, con
i muri pieni di scritte, con oggetti accatastati ovunque, diventa un
porto di mare. A iniziare la riscoperta della poetessa è l'antologia
Testamento, curata nel 1988 da Giovanni Raboni per l'editore Crocetti,
mentre a consacrarne la fortuna è quella di Maria Corti, Fiore di
poesia, uscita da Einaudi nel 1998. In mezzo ci sono libri fortunati e
importanti, come Vuoto d'amore (1991) e Ballate non pagate (1995),
entrambi presso Einaudi, e tante pubblicazioni occasionali e disperse.
Molte altre raccolte di maggiore o minor pregio usciranno in seguito.

La
Merini è ormai un'icona pop e tale resterà fino alla morte: viene
invitata nei salotti televisivi, collabora con cantanti e musicisti,
inchiodata dai mezzi di comunicazione al tipo del poeta folle, secondo
un cliché limitativo ed equivoco. Lei un po' accetta, un po' subisce: è
amata dal pubblico, invidiata da certi colleghi, sfruttata da chi vuol
farne soprattutto un caso. Sa addomesticare folle ignare di poesia con
una voce da oracolo, con una presenza scenica da primadonna, consapevole
d'altra parte che la sua vocazione e il suo talento sono autentici. Tra
le pieghe di una produzione sempre più fluviale (a volte dettata al
telefono) si colgono ancora pagliuzze d'oro. Accade nei libri religiosi
pubblicati da Frassinelli a partire dal 2000. Qui la forma ultima della
sua poesia si tocca con gli inizi: il misticismo si libera di orpelli e
frange e diventa voce pura, sospirante e misteriosa, capace di una
castità di visione quasi fanciullesca.
Fiaccata dalla
malattia, muore il primo novembre 2009 all'ospedale San Paolo di Milano,
scendendo in «quel gorgo / di inaudita dolcezza», in «quel miele
tumefatto e impreciso / che è la morte di ogni poeta».
Daniele Piccini 31 gennaio 2012
Eremo Via vado di sole, L'Aquila, giovedì 3 maggio 2012
Nessun commento:
Posta un commento