SILLABARI : Vergogna ( II )
Leggi anche Vergogna I
Come
abbiamo visto la vergogna riguarda entrambi i livelli relazionali: la
relazione intrapsichica, tra sé e sé, e quella interpersonale, tra sé e
l'altro, o sé e gli altri.
Sul piano intrapsichico la vergogna ha a
che fare con un'eccessiva discrepanza tra il sé ideale, ovvero quel
senso di sé verso cui aspiro, il sé che desidero essere, e il sé reale,
ovvero quel senso di sé che percepisco corrispondere alla realtà, il sé
in cui realmente mi riconosco.
Una distanza troppo grande e
soprattutto l'inflessibilità di modelli troppo alti del sé generano
vergogna, che può sfociare in violenta rabbia e senso di impotenza
invalidante.
Sul piano interpersonale la vergogna è spesso
associata ad un atteggiamento di sottile competizione, in cui mi
percepisco irrimediabilmente perdente, in cui l'altro - generalmente un
"altro" significativo - diventa luogo di proiezione dei vari aspetti del
mio sé ideale, diviene rappresentante di Tutti gli Altri, (più belli,
più sani, più adeguati, più capaci,…. più "normali" insomma)
rappresentante di una norma sociale da cui mi sento dolorosamente
esclusa.
In questo senso la vergogna si associa facilmente all'invidia ed alla rabbia ad essa connessa.
Alcuni
psicoanalisti americani che hanno cominciato ad occuparsi della
vergogna (i cosiddetti vergognologi, tra cui Andrew Morrison), hanno ben
descritto il cosiddetto "ciclo della vergogna-rabbia".
In questo
ciclo accade che ci si vergogni di se stessi (del proprio essere troppo
passivi, incapaci o comunque difettosi rispetto a qualcun altro), tale
vergogna produce un ritiro in se stessi, ma anche risentimento, invidia e
rabbia vendicativa verso l'altro contro cui ci si scaglia, almeno
mentalmente. Questa aggressione genera colpa, ulteriore ritiro nella
passività e quindi aumento di vergogna, per cui il ciclo alimenta se
stesso.
Per
quanto riguarda la relazione interpersonale, quando è presente il senso
di vergogna, si tratta di una relazione che non è (o non è ancora)
reciproca, intersoggettiva (dove l'uno e l'altro siano percepiti
entrambi soggetti, con uguale diritto di esistenza, pur nella
diversità), bensì di una relazione fortemente asimmetrica (del tipo
soggetto-oggetto), dove l'Altro, quello vincente, da cui ci si sente
guardati (male!) è "il Soggetto", percepito come giudicante, sprezzante,
svilente nei confronti dell'oggetto che sta osservando, quell'Oggetto
fallito, difettoso, insignificante, patetico e ridicolo che è
esattamente ciò con cui chi prova vergogna si sta identificando.
La
vergogna sta qui ad indicare lo scacco subito, il senso di indegnità
avvertito da chi riceve - o presume di ricevere - un disconoscimento
grave rispetto al proprio essere.
Interessante a questo proposito è l'interpretazione filosofica che J.P. Sartre dà della vergogna.
Egli
riconduce la vergogna al puro e semplice fatto di essere esposti allo
sguardo dell'altro, cosa che, rendendoci oggetto di osservazione da
parte di un soggetto altro, ci deruba della nostra soggettività, per
ridurci ad oggetto del suo spettacolo.
"La vergogna, scrive
Sartre, non è il sentimento di essere questo o quell'oggetto
criticabile; ma in generale di essere un oggetto, cioè di riconoscermi
in quell'essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per
gli altri. La vergogna è il sentimento della caduta originale, non del
fatto che abbia commesso questo o quell'errore, ma semplicemente del
fatto che sono caduto nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno
della mediazione d'altri per essere ciò che sono.
Il pudore e, in
particolare, il timore di essere sorpreso in stato di nudità non sono
che specificazioni simboliche della vergogna originale: il corpo
simbolizza qui la nostra oggettività senza difesa. Vestirsi significa
dissimulare la propria oggettività, reclamare il diritto di vedere senza
essere visto, cioè di essere puro soggetto. Per questo il simbolo
biologico della caduta, dopo il peccato originale, è il fatto che Adamo
ed Eva capiscono di essere nudi." (L'essere e il nulla)
Dunque
la vergogna esiste o almeno sarebbe alimentata dalla relazione del tipo
soggetto-oggetto mentre dovrebbe essere assai meno incoraggiata dal
contesto relazionale del tipo soggetto-soggetto. Ed è bene ricordare
come, all'interno di una relazione, noi possiamo subire la vergogna ma
possiamo anche indurla o quanto meno alimentarla.
Questo intricato
gioco di relazione soggetto-oggetto e soggetto-soggetto apre a
riflessioni importanti sul tipo di relazione di volta in volta in atto.
Per
esempio nell'ambito della relazione psicoterapeutica si può andare
dalla rigida identificazione in ruoli complementari, del tipo soggetto
che osserva - il terapeuta - e oggetto osservato - il paziente - fino
all'elasticità di un continuo reciproco riconoscimento di entrambi i
ruoli, in cui ciascuno - terapeuta e paziente - può riconoscersi di
volta in volta, sia nel soggetto che osserva e sia nell'oggetto
osservato, man mano che l'analisi si riconosce essere analisi della
relazione in atto tra i due soggetti coinvolti, più che analisi del
paziente.
La psicoanalisi, almeno quella delle origini, ha
impiegato tempo ad occuparsi della vergogna, probabilmente per via di
problematiche non analizzate, relative alla vergogna stessa, presente
nell'analista. Basti pensare alla nascita del setting psicoanalitico,
quello classico, con lettino e poltrona, in cui l'analista guarda, non
visto, l'analizzando che a sua volta non può guardare l'analista.
Si trattava, potremmo dire oggi, di un "setting antivergogna" in funzione dell'analista.
Freud
di fatto non aveva avuto vergogna di ammettere la ragione di tale
postazione: "Non sopporto - egli infatti aveva affermato - di essere
fissato ogni giorno per più di otto ore".
Col tempo la
psicoanalisi si è gradualmente evoluta, in questo senso, aprendosi alla
dimensione intersoggettiva, e rendendo, anche nel setting, più
"democratiche" e paritarie le condizioni: dal lettino posto in modo che
il paziente possa, se vuole, girare la testa e vedere in faccia
l'analista, seduto in poltrona non più dietro ma a fianco, fino alla
posizione vis a vis, con le due poltrone poste l'una di fronte
all'altra.
Peraltro questa posizione maggiormente improntata
all'intersoggettività è stata presente da subito in alcuni epigoni della
psicoanalisi, cito per tutti Jung.
Diciamo che oggi è maggiormente condivisa rispetto ad allora.
Non
a caso forse oggi anche la psicoanalisi ha cominciato ad occuparsi
della vergogna che viene da taluni denominata come "l'ospite atteso"
[Donna Orange] che chiede di essere accolto per trovare spazio di
trasformazione.
Quindi riflettere sulla vergogna presente nelle
relazioni, induce a riflettere sul tipo di relazione in atto, di
qualunque relazione si tratti Può indurre, per esempio ciascuno a
domandarsi qual è il proprio modo di guardare l'altro: quanto ciascuno
tende a percepire l'altro come oggetto del proprio sguardo (e niente
altro), quanto invece riesce a percepirlo come "altrettanto soggetto",
altro da sé, e in quanto tale, almeno in parte misterioso, ineffabile,
sconosciuto.
Quanto riusciamo a renderci conto che l'altro è sì
oggetto del nostro sguardo ma contemporaneamente anche soggetto di uno
sguardo che a sua volta si posa su di noi e che di noi si fa un'immagine
propria, "altro" quindi come luogo di iniziativa autonoma di un sentire
e di un pensare analogo sebbene diverso dal nostro.
La mia
ipotesi, seguendo l'indicazione di Sartre, è che il sentimento di
vergogna, sia quella che subiamo e sia quella che più o meno
inconsciamente tendiamo ad indurre e ad alimentare, possa gradualmente
ridurre i suoi effetti invalidanti, nella misura in cui favoriamo il
crescere, nelle nostre relazioni, della consapevolezza e dell'attenzione
per la propria e l'altrui soggettività.
La consapevolezza cioè
del fatto che pur essendo in questo momento oggetto del mio sguardo,
l'altro (ma anche il mio sé) continua a mantenere una propria autonomia,
una propria soggettività, che fa sì che esso non si esaurisca mai
totalmente in ciò che io vedo.
Mantenere la consapevolezza del
"mistero" che ciascun soggetto continua ad essere, per se stesso e per
l'altro, della molteplicità di aspetti che non sono mai del tutto
evidenti ed oggettivi, la consapevolezza cioè di uno svelamento
ulteriore sempre possibile e mai completamente esaurito.
E qui
torna spontaneamente ad imporsi all'attenzione quell'aspetto della
vergogna che, in relazione a quanto emerso fin qua, sembra portare in sé
il passaggio evolutivo, di affermazione della soggettività: si tratta
della vergogna-pudore, ovvero quel sentimento che spinge a difendere il
proprio Sé, e di conseguenza quello altrui, da intrusioni invasive nella
sfera dell'intimità.
Abbiamo accennato al fatto che il pudore non
porta in sé un giudizio negativo rispetto a ciò che vela, bensì la
necessità di velare per proteggere ciò che è sentito come intimo, e
quindi fragile, delicato.
Pudore
quindi inteso nel senso di ritegno, rispetto, contenimento, parziale
nascondimento, quale requisito indispensabile a salvaguardare la
soggettività individuale nella vita in comune, nella collettività;
pudore quindi non associato - come poi ha fatto la cultura cristiana -
prevalentemente alla sfera sessuale, quanto piuttosto alla dialettica
della distanza-vicinanza tra umani.
Parlare di pudore significa parlare di relazione intima, non necessariamente sessuale.
L'esempio
forse più significativo resta tuttavia quello della relazione amorosa,
che mette in ballo inevitabilmente il conflitto tra due esigenze
fortemente contrastanti ma compresenti:
- il bisogno di
attaccamento e di legame, di entrare in rapporto profondo con l'altro,
di sentirsi intimamente uniti e di fondersi con lui, - il bisogno di
separatezza e distinzione dall'altro, di autonomia ed indipendenza, di
mantenere la propria individualità, la propria soggettività.
Queste
due esigenze sono spesso percepite come due poli contrapposti,
inconciliabili, che portano o all'autonomia con esclusione del rapporto
d'amore, o al rapporto d'amore con perdita di autonomia.
Eppure sono entrambe esigenze ineliminabili, fondanti il nostro essere umani.
Come risolvere questa ambivalenza?
Freud così si esprimeva in proposito al possibile malessere connesso a tale conflitto:
"Un
forte egoismo instaura una protezione contro la malattia; tuttavia,
prima o poi bisogna ben cominciare ad amare per non ammalarsi e se, in
conseguenza di una frustrazione, si diventa incapaci di amare,
inevitabilmente ci si ammala." [Da Introduzione al Narcisismo] Dunque,
nel rapporto intimo con l'altro, bisogna ogni volta tornare a separarsi,
a distanziarsi, a differenziarsi per poter amare, ma bisogna anche
essere sufficientemente disposti a perdere di vista sé in favore
dell'altro, senza che questa perdita diventi mai totale e distruttiva
della propria soggettività.
In
questo senso il pudore, nell'accezione suddetta, può porsi come
strumento che aiuta a trovare un equilibrio, seppure delicato, fragile e
precario, tra queste due esigenze, di fusione e autonomia, grazie alla
sua funzione di mediazione, di moderazione, che stempera il rischio di
assolutismo insito in entrambi i poli.
Il vissuto del pudore
mantiene vivo il problema dell'alterità, della differenza, della
separatezza tra i due, proprio laddove essi si incontrano nell'intimità
del loro essere.
Comporta l'accettazione del limite, di una
vicinanza, di una somiglianza che permane sempre relativa, di uno spazio
mai completamente annullato tra l'Uno e l'Altro.
Il pudore è ciò
che contiene la tendenza ad invadere e farsi invadere, a pretendere una
somiglianza o concordanza eccessiva, che tenderebbe a negare le
differenze e annulla le distanze; è un rispetto di fondo che contiene
gli eccessi presenti nelle fantasie di fusionalità e di prevaricazione
reciproca.
Come scrive Monique Selz nel suo: "Il pudore. Un luogo di libertà" (Einaudi 2005):
"Prima
di essere un dovere morale, il pudore è una necessità vitale." Il
tentativo di riflettere e farsi consapevoli di quale sia il modo in cui
ci rivolgiamo all'altro, il modo in cui guardiamo l'altro, è tanto
importante nella sfera intima dei rapporti quanto lo è nella dimensione
più ampia e sociale: è estremamente importante diventare gradualmente
consapevoli della propria tendenza ad oggettivare l'altro (gli altri) o,
al contrario, lo sforzo di riconoscerne l'irriducibile soggettività.
Questo
tentativo di riflessione sul modo in cui guardiamo l'altro, ci invita a
tenere a bada la tendenza a rendere l'altro oggetto, cosa tra le cose,
la tendenza a generare dinamiche di vergogna e ad alimentare relazioni
insane di dominio dell'uomo sull'uomo.
A livello sociale, infatti,
le medesime dinamiche che abbiamo osservato nel "privato" si
amplificano in maniera macroscopica generando più o meno sottili
razzismi e "colonialismi" purtroppo terribilmente attuali e diffusi.
Anche
a livello sociale l'altro tende ad essere oggettivato da chi ha il
potere (la maggioranza, l'elite del momento) e discriminato in base a
pregiudizi sociali, consci o inconsci, che possono diventare vere e
proprie "istituzioni" generatrici di vergogna.
Ci sono identità
socialmente considerate deplorevoli (razza, orientamento sessuale,
classe sociale, cultura di origine, etnia di appartenenza,….)
all'interno delle quali il sentimento di vergogna può essere più o meno
forte, più o meno esplicito: può addirittura nascondersi dietro evidenti
dichiarazioni di orgoglio.
Sentimento
di vergogna che inevitabilmente è anche risposta ad uno sguardo
oggettivante di chi, sentendosi "il Soggetto" tende a rendere l'altro
"cosa", spogliandolo del suo diritto di soggetto.
Questa
riflessione vorrebbe restituirci la responsabilità di farci gradualmente
consapevoli del nostro sguardo, del nostro modo di guardare: noi
stessi, l'altro, il mondo, al fine di ridurre, per quanto ci è
possibile, "l'effetto Gorgone" da cui siamo circondati, ovvero "lo
sguardo che pietrifica", immagine simbolicamente evocativa della
sofferenza connessa al sentimento di vergogna.
Le immagini sono opere di Savinio
Da un articolo di Agnese Galotti
Eremo Via vado di sole, L'Aquila , venerdì 18 maggio 2012
venerdì 18 maggio 2012
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento