
Finita la campagna elettorale e scelto il Sindaco della Ricostruzione, si passa al piano B: immaginare e disegnare la nuova città. L'ultimo anno è trascorso con l'anestesia delle imminenti elezioni e nessuna decisione, soprattutto tra quelle scomode, è stata presa, per non creare malessere e malcontento tra la popolazione. Ora si sceglie la squadra di governo, cioè la regia della programmazione.
La tematica centrale della delicata fase di ricostruzione della città dell'Aquila è sicuramente l'urbanistica e, quindi, fondamentale sarà l'assessore competente. Il post sisma ha brutalmente evidenziato le mancanze del piano regolatore aquilano, vecchio ed anacronistico. Il comune dell'Aquila è rimasto fermo, in ambito di pianificazione territoriale, agli anni compresi tra il 1968 e il 1977, quando cioè le esigenze abitative e di vita erano totalmente diverse. «Del resto la pianificazione degli anni '70, definita di prima generazione, - come ci dice il prof. Bernardino Romano dell'Università degli studi dell'Aquila - serviva a raggiungere determinati esiti di crescita, senza sensibilità e maturità per affrontare tematiche che si sono imposte successivamente, come gli elevati requisiti ambientali e la sostenibilità in campo edilizio, urbanistico, energetico e trasportistico.


«La periferia urbana dell'Aquila - afferma Romano - non viene mai presa in considerazione nelle tante esternazioni propagandistiche che si fanno sulla ricostruzione della città, come se fosse un elemento estraneo all'assetto territoriale e non si analizzano le qualità di questa periferia che, allungata per oltre 30 km (da S. Gregorio a Barete), misura quasi 10 km in più del diametro massimo del GRA di Roma (Roma ha quasi 3 milioni di abitanti), nonché circa i 3/4 delle massime diagonali urbane di Parigi o di Berlino (metropoli con, rispettivamente, più di 6 milioni e 3,5 milioni di abitanti.



IL capoluogo 24 maggio 2012
Salvatore Settis: "Gli Aquilani cambino mentalità o L'Aquila sarà dimenticata"
Salvatore Settis, docente emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa ed eminente figura del panorama culturale nazionale ed internazionale, ha visitato L'Aquila ed il suo centro storico in occasione del convegno Paesaggio Costituzione Cemento.
Intervistato da Germana Galli, per la rivista culturale Mu6, ha detto la sua sul terremoto aquilano e sulla difficile ricostruzione.

L’abbandono del centro storico dell’Aquila al suo destino è uno scandalo nazionale, e non solo nazionale. Il fatto che un tessuto urbano tanto ricco e prezioso sia sostanzialmente ancora nello stato in cui era all’indomani del terremoto è raccapricciante. Quando diciamo che questo abbandono è metafora di quanto accade in tutta Italia, qualcuno può pensare che stiamo esagerando, che l’emergenza e il degrado dell’Aquila sono dovuti a un evento straordinario come il terremoto. Ma un Paese dal territorio fragilissimo, franoso e a rischio sismico dovrebbe prima di tutto lavorare di più nella prevenzione e messa in sicurezza; dovrebbe, anche, reagire prontamente e con criteri chiari agli eventi distruttivi. Nulla di tutto questo: la cifra del degrado di cui l’Aquila è il simbolo la danno le sinistre risate di un imprenditore edile, che nella notte stessa del terremoto individuò nelle disgrazie altrui un’opportunità di profitto per se stesso. Lo sciagurato sapeva già, con l’intuito sicuro dei predoni,che un sano progetto di ricostruzione non ci sarebbe stato. Ma è con decisioni a livello nazionale che si sarebbe dovuto porre rimedio, e invece abbiamo visto montare intorno al terremoto quasi solo ciniche operazioni propagandistiche.
-Le responsabilità di questo degrado sono ascrivibili al legislatore, agli enti locali o all’assenza di controllo al controllore?
Credo che siano responsabilità condivise, ma l’incapacità di creare una regia unica e soprattutto competente è certamente un fattore primario del degrado. C’è tuttavia da chiedersi se la frammentazione delle iniziative e delle istanze, l’assenza di una visione generale, la rinunzia a ogni progetto coerente non siano anche ispirate, sotterraneamente, dalla diffusa tendenza ad approfittare sempre di tutto, quando siano disponibili fondi pubblici, perché i soliti furbi possano tirare l’acqua al proprio mulino.

Il problema non sono solo le norme, ma anche la rinuncia a farle osservare. Le cave, per esempio, sono una necessaria attività estrattiva, che però dev’essere limitata nel tempo, e quando una cava viene chiusa dovrebbe essere “ripasciuta”, sanando la ferita inferta al paesaggio. Ma questo non viene fatto quasi mai, e chi dovrebbe intervenire e costringere le imprese a seguire questa norma elementare spesso non si muove. In Campania, anzi, alcune cave sono state riempite con orrendi ammassi di rifiuti anche tossici. Così un danno si agiunge all’altro, e il degrado cresce.
-Con la fine delle gestioni commissariali all’Aquila, le Soprintendenze svolgeranno una funzione centrale nella ricostruzione dei beni culturali. Crede che gli uffici territoriali, a fronte di un così imponente lavoro, abbiano le “forze” necessarie?
Non ho tutti gli elementi per rispondere. Posso solo dire che non è solo questione di contare i numeri delle persone disponibili. Se, come pare, ci sono circa 300 unità, per sapere se bastano occorrerebbe avere altri tre elementi di giudizio: primo, come sono stati selezionati, e se le competenze e la motivazione di ciascuno di loro sono all’altezza del problema; secondo, se esiste un piano ben fatto di intervento; terzo, se è stata creata una struttura organizzativa e amministrativa in grado di gestire la situazione con altissima professionalità e piena efficacia.
-In occasione della visita del premier Mario Monti a L’Aquila si è discusso del futuro della città ed è stato illustrato il progetto “Abruzzo verso il 2030: sulle ali dell’Aquila” proposto dall’OCSE e dall’Università di Groningen. Cosa ne pensa?

-Pensando alle sue esperienze lavorative nel mondo della cultura non solo di docente alla Normale di Pisa ma anche ai prestigiosi incarichi all’estero come al Getty Center di Los Angeles, come si potrebbero aiutare i musei, i teatri, i siti archeologici, le biblioteche, a raggiungere una maggior autonomia dallo Statoitaliano?
Non penso affatto che i musei debbano essere autonomi dallo Stato, penso che debbano esserlo nello Stato, e nelle altre amministrazioni pubbliche. Occorrerebbe in tal senso una profonda riforma, le cui linee essenziali sono a mio avviso chiarissime. Ma la mancanza di indirizzo al Ministero dei Beni Culturali, e la marginalizzazione di questi temi anche nell’agenda del governo Monti, non fanno sperare bene in tempi brevi.
Abruzzo 24 ore giovedì 12 maggio 2012

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