ET TERRA MOTA EST : La città senza urbanistica rischia anche l’oblio
In
attesa del nuovo assessore all'urbanistica. Mezzo secolo di Prg di
prima generazione. L'Aquila che cresce senza programmazione. Il
professor Romano e la città policentrica.
Finita la campagna elettorale e scelto il Sindaco della Ricostruzione,
si passa al piano B: immaginare e disegnare la nuova città. L'ultimo
anno è trascorso con l'anestesia delle imminenti elezioni e nessuna
decisione, soprattutto tra quelle scomode, è stata presa, per non creare
malessere e malcontento tra la popolazione. Ora si sceglie la squadra
di governo, cioè la regia della programmazione.
La tematica centrale della delicata fase di ricostruzione della città dell'Aquila è sicuramente l'urbanistica
e, quindi, fondamentale sarà l'assessore competente. Il post sisma ha
brutalmente evidenziato le mancanze del piano regolatore aquilano,
vecchio ed anacronistico. Il comune dell'Aquila è rimasto fermo, in
ambito di pianificazione territoriale, agli anni compresi tra il 1968 e
il 1977, quando cioè le esigenze abitative e di vita erano totalmente
diverse. «Del resto la pianificazione degli anni '70, definita di prima
generazione, - come ci dice il prof. Bernardino Romano dell'Università
degli studi dell'Aquila - serviva a raggiungere determinati esiti di
crescita, senza sensibilità e maturità per affrontare tematiche che si
sono imposte successivamente, come gli elevati requisiti ambientali e la
sostenibilità in campo edilizio, urbanistico, energetico e
trasportistico.
In
termini di classifiche - ha aggiunto il professore - il comune
dell'Aquila appartiene a quella sparuta minoranza di capoluoghi di
provincia (meno di 10 su quasi 120, di cui la maggior
parte in avanzata fase di rinnovo) e a quel 7-8% dei comuni italiani
che, secondo i dati del Rapporto dal Territorio dell'INU, è attualmente
ancora fermo alla pianificazione degli anni compresi tra il 1968-77. Non
è ben chiaro come una città che ambisce al blasone di Capitale Europea
della Cultura non appartenga almeno a quell'80% dei comuni dell'Italia
centrale che ha un piano elaborato dopo il 1985, o a quel 60% che lo ha
aggiornato dopo il 1996 o a quel 40% che ha pianificato dopo il 2000.»
Il confronto con le date di ultimo aggiornamento di altri comuni affini
per dimensioni e problematiche è impietoso: Terni 2003, Rieti 2004, Lanciano 2011, Sulmona 2006, Teramo 2006, Chieti 2008, Pescara 2009.
L'Aquila
del post sisma si è sviluppata con comportamenti sociali individuali ed
estemporanei, non ascritti ad una programmazione, nè urbanistica nè
commerciale, che risulta essere inesistente anche laddove si sono dovuti
abbattere delle porzioni di quartiere che avrebbero permesso di
ridisegnare organicamente la zona, nel rispetto di tutti gli aspetti
urbanistici più moderni.
«La periferia
urbana dell'Aquila - afferma Romano - non viene mai presa in
considerazione nelle tante esternazioni propagandistiche che si fanno
sulla ricostruzione della città, come se fosse un elemento estraneo
all'assetto territoriale e non si analizzano le qualità di questa
periferia che, allungata per oltre 30 km (da S. Gregorio a Barete),
misura quasi 10 km in più del diametro massimo del GRA di Roma (Roma ha
quasi 3 milioni di abitanti), nonché circa i 3/4 delle massime diagonali
urbane di Parigi o di Berlino (metropoli con, rispettivamente, più di 6
milioni e 3,5 milioni di abitanti.
Dopo
il terremoto - ha spiegato il professore - c'è stata l'acquisizione,
spontanea, di una fisionomia policentrica della città. La forzata e
totale estromissione delle funzioni dal centro storico ha proiettato
nelle periferie quella tipica gamma di servizi che danno spessore ai
"centri", cioè quelli commerciali specializzati, quelli direzionali e
professionali, quelli finanziari o quelli ospedalieri. Naturalmente un
ruolo significativo è stato giocato dal trasferimento delle masse di
popolazione nelle new town e ricollocate in posizioni
geografiche del tutto diverse da quelle precedenti. Se i servizi
pubblici si sono spostati con criteri di disponibilità ed economia dei
nuovi contenitori, quelli di mercato (e anche questo è uno dei
"fondamentali" dell'urbanistica) hanno seguito le concentrazioni
demografiche da cui traggono la clientela. La assenza di un disegno
programmatico che possa pilotare questa evoluzione sta creando larghi
spazi di affermazione a fenomeni attrattivi parassiti senza controllo,
che sono in atto e che si rinforzeranno sempre di più irrobustendo
l'attuale fisionomia delle conurbazioni maggiori.
Non
avendo la possibilità, quindi, di costruire centri storici ex novo che
diventano tali grazie alla stratificazione storica avvenuta nel corso
dei secoli, bisogna dotare la città di altri luoghi "centrali" utili a
coprire le esigenze insediative di una comunità che si evolve e che
abbiano - come dice Romano - una elevatissima qualità di progettazione urbanistica ed architettonica,
creando cioè attrazione con impianti ed edifici innovativi nelle forme,
nei materiali e, in altre parole, nel paesaggio urbano costruito».
Creare quindi una città "policentrica" che deve essere progettata in
tutte le sue funzioni e servizi utili alla cittadinanza come ad esempio
la mobilità, anello portante della catena dell'organismo urbanistico.
«Dopo il terremoto del 6 aprile c'è stata l'acquisizione, spontanea, di
una fisionomia policentrica molto più accentuata. "Spontaneamente"
appunto, cioè senza una guida dei processi e quindi con una enorme
incertezza negli esiti. Naturalmente un ruolo significativo è stato
giocato dal trasferimento delle masse di popolazione nella new town.
Il
territorio aquilano - conclude l'urbanista - viene, senza un efficiente
piano programmatico, mangiato quotidianamente dalle costruzioni
selvagge che stanno invadendo le pianure esponendo l'ambiente a rischi
idrogeologici e rendendo, in un futuro prossimo, molto più complicata
un'azione di pianificazione e riordino del connettivo urbano. La
periferia aquilana deve essere ripensata in termini urbanistici che
prevedano un accordo sulle tipologie volumetriche, le finiture e i
colori da utilizzare per gli esterni. Senza questa programmazione si
perde un'occasione clamorosa di miglioramento della funzionalità e
dell'estetica della città».
IL capoluogo 24 maggio 2012
Salvatore Settis: "Gli Aquilani cambino mentalità o L'Aquila sarà dimenticata"
Salvatore
Settis, docente emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa ed
eminente figura del panorama culturale nazionale ed internazionale, ha
visitato L'Aquila ed il suo centro storico in occasione del convegno
Paesaggio Costituzione Cemento.
Intervistato da Germana
Galli, per la rivista culturale Mu6, ha detto la sua sul terremoto
aquilano e sulla difficile ricostruzione.
-In
questi giorni ha avuto modo di visitare la città e le new towns. crede
che L’Aquila sia metafora della situazione del degrado paesaggistico
dell’intero paese?
L’abbandono del centro storico
dell’Aquila al suo destino è uno scandalo nazionale, e non solo
nazionale. Il fatto che un tessuto urbano tanto ricco e prezioso sia
sostanzialmente ancora nello stato in cui era all’indomani del terremoto
è raccapricciante. Quando diciamo che questo abbandono è metafora di
quanto accade in tutta Italia, qualcuno può pensare che stiamo
esagerando, che l’emergenza e il degrado dell’Aquila sono dovuti a un
evento straordinario come il terremoto. Ma un Paese dal territorio
fragilissimo, franoso e a rischio sismico dovrebbe prima di tutto
lavorare di più nella prevenzione e messa in sicurezza; dovrebbe, anche,
reagire prontamente e con criteri chiari agli eventi distruttivi. Nulla
di tutto questo: la cifra del degrado di cui l’Aquila è il simbolo la
danno le sinistre risate di un imprenditore edile, che nella notte
stessa del terremoto individuò nelle disgrazie altrui un’opportunità di
profitto per se stesso. Lo sciagurato sapeva già, con l’intuito sicuro
dei predoni,che un sano progetto di ricostruzione non ci sarebbe stato.
Ma è con decisioni a livello nazionale che si sarebbe dovuto porre
rimedio, e invece abbiamo visto montare intorno al terremoto quasi solo
ciniche operazioni propagandistiche.
-Le responsabilità di
questo degrado sono ascrivibili al legislatore, agli enti locali o
all’assenza di controllo al controllore?
Credo che siano
responsabilità condivise, ma l’incapacità di creare una regia unica e
soprattutto competente è certamente un fattore primario del degrado. C’è
tuttavia da chiedersi se la frammentazione delle iniziative e delle
istanze, l’assenza di una visione generale, la rinunzia a ogni progetto
coerente non siano anche ispirate, sotterraneamente, dalla diffusa
tendenza ad approfittare sempre di tutto, quando siano disponibili fondi
pubblici, perché i soliti furbi possano tirare l’acqua al proprio
mulino.
-La
cementificazione comporta anche danni collaterali, tra i più evidenti
il vulnus al paesaggio provocato dalle attività estrattive. Le sembra
adeguata l’attuale normativa che regola questa attività?
Il
problema non sono solo le norme, ma anche la rinuncia a farle
osservare. Le cave, per esempio, sono una necessaria attività
estrattiva, che però dev’essere limitata nel tempo, e quando una cava
viene chiusa dovrebbe essere “ripasciuta”, sanando la ferita inferta al
paesaggio. Ma questo non viene fatto quasi mai, e chi dovrebbe
intervenire e costringere le imprese a seguire questa norma elementare
spesso non si muove. In Campania, anzi, alcune cave sono state riempite
con orrendi ammassi di rifiuti anche tossici. Così un danno si agiunge
all’altro, e il degrado cresce.
-Con la fine delle
gestioni commissariali all’Aquila, le Soprintendenze svolgeranno una
funzione centrale nella ricostruzione dei beni culturali. Crede che gli
uffici territoriali, a fronte di un così imponente lavoro, abbiano le
“forze” necessarie?
Non ho tutti gli elementi per
rispondere. Posso solo dire che non è solo questione di contare i numeri
delle persone disponibili. Se, come pare, ci sono circa 300 unità, per
sapere se bastano occorrerebbe avere altri tre elementi di giudizio:
primo, come sono stati selezionati, e se le competenze e la motivazione
di ciascuno di loro sono all’altezza del problema; secondo, se esiste un
piano ben fatto di intervento; terzo, se è stata creata una struttura
organizzativa e amministrativa in grado di gestire la situazione con
altissima professionalità e piena efficacia.
-In occasione
della visita del premier Mario Monti a L’Aquila si è discusso del
futuro della città ed è stato illustrato il progetto “Abruzzo verso il
2030: sulle ali dell’Aquila” proposto dall’OCSE e dall’Università di
Groningen. Cosa ne pensa?
Come
ho scritto su Repubblica del 7 aprile, mi pare un pessimo segno lo
slogan assai frivolo “trasformare l’Aquila in una smart city”. Il
progetto contiene affermazioni generiche e retoriche, come l’idea di
fare della città «un prototipo, un laboratorio vivente, uno studio di
caso, che sfrutti nuove tecnologie per migliorare la qualità della
vita». Cito da quel mio articolo: «La ricostruzione? Può aspettare, anzi
secondo il progetto sarebbe sbagliata «l’intenzione di ricostruire
prima e poi trovare i mezzi per progredire». Bisogna, anzi, «spostare il
centro dell’attenzione dalla ricostruzione fisica allo sviluppo
economico e sociale». L’Aquila dev’essere «adatta a nuovi modelli di
business», candidarsi a capitale europea della cultura, e non toccare
una pietra senza prima aver lanciato un concorso fra «architetti di fama
mondiale», che intervengano sugli edifici cambiandone la destinazione
d’uso per farne «luoghi moderni concepiti in maniera creativa,
modificando gli interni e conservando le facciate storiche degli
edifici». Insomma, «celebrare il passato» lasciando in piedi le
facciate, costruire il futuro sventrandone gli interni. E poi, tanta
tecnologia: energia pulita, Internet per tutti, città cablata. Non una
parola sul riscatto dei cittadini dall’esilio nelle squallide newtowns:
per sentirsi intelligenti, smart, all’avanguardia, per volare «sulle ali
dell’Aquila» (altro slogan del progetto) meglio rimandare la
ricostruzione, puntare su concorsi di architetti e realtà virtuale. Gli
aquilani sono invitati a «cambiare modo di pensare», se no «L’Aquila
diventerà una collettività frammentata, una città isolata e
dimenticata»: ottima descrizione, vien da dire, di quel che oggi essa
è.». Insomma, mi pare un pessimo progetto, velleitario e parolaio.
-Pensando
alle sue esperienze lavorative nel mondo della cultura non solo di
docente alla Normale di Pisa ma anche ai prestigiosi incarichi
all’estero come al Getty Center di Los Angeles, come si potrebbero
aiutare i musei, i teatri, i siti archeologici, le biblioteche, a
raggiungere una maggior autonomia dallo Statoitaliano?
Non
penso affatto che i musei debbano essere autonomi dallo Stato, penso
che debbano esserlo nello Stato, e nelle altre amministrazioni
pubbliche. Occorrerebbe in tal senso una profonda riforma, le cui linee
essenziali sono a mio avviso chiarissime. Ma la mancanza di indirizzo al
Ministero dei Beni Culturali, e la marginalizzazione di questi temi
anche nell’agenda del governo Monti, non fanno sperare bene in tempi
brevi.
Abruzzo 24 ore giovedì 12 maggio 2012
Eremo Via vado si sole, L'Aquila giovedì 24 maggio 2012
giovedì 24 maggio 2012
ET TERRA MOTA EST : La città senza urbanistica rischia anche l’oblio
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