Il 7 aprile 2011 l’Editore Sellerio ha pubblicato un volume di Francesco M. Cataluccio dal titolo
“Chernobyl” Dal sito Doppiozero abbiamo estrapolato alcune recensioni particolarmente interessanti di questo viaggio che con Seveso e Fukushima delinea e delimita il senso di una catastrofe per tutti e tre e per gli ultimi due un discorso sul nucleare sul quale non si riesce a riflettere abbastanza a causa di una quasi inesistente informazione rispetto alla sua portata culturale , politica e scientifica e in merito agli avvenimenti vicini e lontani nel tempo che li hanno caratterizzati .
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La stella nera di Chernobyl comincia dal suo nome: chornyi (nero) e byllia (steli d’erba) e immediatamente si lega a un destino di amarezza. L’erba nera si riferisce all’Artemisia absinthum, ossia la componente principale dell’assenzio, mentre “amaro” viene definito da Erodoto il Nipro, cioè il Dnepr.A questo luogo che sembra predestinato al dolore Francesco Cataluccio dedica un libro rigoroso come una testimonianza ed emozionante come un film. La voce che racconta è pacata, le immagini che evoca sono veloci. Lo sfondo è vuoto, gli scenari distrutti, la voce fuori campo è sola. Cataluccio non è soltanto autore del libro intitolato Chernobyl ma attore, suo malgrado, di una vicenda che non avrebbe voluto attraversare: nell’aprile del 1986, allo scoppio della centrale nucleare a Chernobyl si trova in Polonia e viene colpito, come tanti, dalle radiazioni.
Da qui la volontà di ricordare andando fisicamente all’origine del male in quello spazio in cui tutto è cominciato. Un viaggio a Chernobyl e nel passato di Chernobyl che sembra conoscere una tregua solo quando, negli anni prima del disastro, i suoi cittadini sembravano, rispetto al resto dei russi, dei privilegiati, con macchina personale, belle case, stipendi più alti della media. Una trappola, la definisce Cataluccio: “pochissimi erano al corrente di quello che rischiavano”.
Cataluccio descrive il mondo di Chernobyl prima di Chernobyl, il suo rapporto è un registro di colpe e violenze accatastate sul dorso della storia. Le vittime si infittiscono, a partire dal XVIII secolo e sono soprattutto ebrei, stretti tra l’ambigua alleanza polacca e i pogrom dei cosacchi, poi falcidiati dall’armata bianca e trucidati dai rossi. Ancora una volta l’assenzio inscritto nel nome del luogo sembra legarsi al destino ebraico. Cataluccio cita le parole di Geremia
Chi legge prova una vertigine, un senso di nausea che sembra potersi solo tradurre in immagini di resti, di ostaggi, di rovina. Il libro di Cataluccio è un’immensa tela di Kiefer, un paesaggio ustionato dominato da un olio nero, privo di orizzonte.
Eppure in questa tragedia c’è uno spiraglio ed è lo stoicismo venato di ironia con cui Cataluccio racconta la propria vita contaminata: senza mai commiserarsi e usando gli anticorpi dell’alcool e dello humour, naturalmente nerissimo. Ricorda che al momento dell’esplosione la casa in cui viveva aveva un giardino di meli. Apparentemente un idillio. In realtà una fiaba, cattiva come tutte le fiabe. Non manca nulla: le mele avvelenate e la strega Baba-Jaga a cavallo di una nuvola.
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Nella bella mostra in corso al Palazzo Reale su Giuseppe Arcimboldo, mago delle saturnine meraviglie manieriste, gradite all’imperatore-occultista Rodolfo II, si trova un meraviglioso manufatto che si intitola Uomo cartaceo, conservato nel Gabinetto dei Disegni di Palazzo Rosso, a Genova. Un autoritratto inciso nelle pieghe di un foglio, che disegnano per maestria di incantamento i lineamenti segnati del vecchio maestro, che tornava alla sua Milano, dopo aver vissuto a lungo nel Castello kafkiano di Praga, dove il monarca melanconico cercava disperatamente di bloccare il tempo, facendo invano congiungere mercurio e zolfo, perché in mistico matrimonio producessero l’oro. Non per caso a questa figura è dedicato un capitolo fondamentale di Praga magica di Angelo Maria Ripellino (1973), inventario di fantasmi della cultura, compiuto subito dopo sommovimenti storici, che in quelli trovavano infine un profondo rispecchiamento. Di fronte alle tragedie gli scrittori reagiscono appunto da uomini cartacei: cercano nel passato delle loro letture, incise nelle pieghe della memoria, parole e immagini che riescano ad assorbire il colpo, a smussare le punte aspre dell’ennesimo disastro che l’uomo infligge a se stesso. Francesco Cataluccio raggiunge le librerie con il suo Chernobyl, nel momento in cui lo spauracchio ucraino è ormai superato da quello di Fukushima, quando ormai uno dei miti residui della certezza moderna, la iperorganizzazione nipponica, è stato spazzato via dal mare-mostro, nera presenza dell’immaginazione e della realtà. L’itinerario dello scrittore è, per sua stessa ammissione, divagante, come a non voler affrontare in prima istanza i demoni, arrivando a loro per gradi. Si parte da una mappa da regalare a un’amica polacca, che rifiuta in modo offeso una carta della Russia, si passa alla storia di una regione tormentata che spesso ha cambiato di padrone.
Infine il viaggio verso il luogo del disastro, a bordo di un pulmino dotato del simbolo della radioattività. Nel gran fiume Dnepr pesci abnormi mangiano un filone di pane lanciato da un ponte, i visitatori cominciano ad avere paura di mangiare, che il cibo loro offerto in un bistrò, per i colori troppo accesi, sia contaminato. In questo libro il compito del narratore è felicemente compiuto: la cronaca e la biblioteca si congiungono e i pezzi del puzzle che vanno al loro posto compongono un ritratto di paesaggio con rovine, nate da negligenza e criminosa intenzione, all’alba di una nuova catastrofe, che già viene esorcizzata in Giappone sotto forma di manga, per cercare un utile filtro alla visione del mostro, che dal fondo occhieggia e fa furore.
FONTE :Antonella Anedda e Luca Scarlini su http://doppiozero.com/materiali/francesco-m-cataluccio/chernobyl-di-francesco-m-cataluccio
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