HOC : Un punto di vista sul federalismo fiscale (II ) Il federalismo fiscale e uno dei suoi strumenti: il costo storico
Parlare di federalismo in Italia significa parlare di federalismo fiscale, ovvero l’attribuzione di risorse a Regioni ed enti locali che le gestiscono in autonomia, superando il dualismo tra competenze legislative e amministrative (sul territorio) e i trasferimenti finanziari dallo Stato al territorio che ha generato lo schema di ripiano di perdite finanziarie tramite la logica del piè di lista.
Chi volesse studiare questo fenomeno, può studiare il fallimento del sistema finanziario legato al settore sanitario ideato con il decreto legislativo 56/2000: l’impennata della spesa sanitaria ha reso necessario il ricorso a misure di emergenza come i piani di rientro.
E questo ci porta al punto fondamentale: il controllo della spesa che si è incentrato nell’ambito del costo delle prestazioni di servizio, come quelle sanitarie o come quelle del settore sociale.
Il settore sanitario e dell’assistenza sociale riguardano settori in cui vi è una forte compenetrazione tra i processi di produzione dei servizi e strumenti di altra natura: organizzazioni, ingegneria dei processi, definizione dei costi e così via.
Questa introduzione è necessaria per farci capire uno dei concetti principali di ogni proposta di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, ovvero la definizione dei costi standard.
Secondo il disegno di legge licenziato l’11 settembre 2008 dal Consiglio dei Ministri, il costo standard è lo strumento cardine su cui poggerà tutto l’impianto federalista, e la sua corretta determinazione influenza le modalità medesime del federalismo. Il costo standard, infatti, è lo strumento che assicura il totale finanziamento (anche attraverso i fondi perequativi) delle prestazioni ritenute essenziali: sanità, assistenza, istruzione, ovvero di quelle voci di spesa connesse a
fondamentali diritti civili e sociali, e per le quali vi deve essere la totale copertura al costo standard, perchè, qualora gli enti territoriali spendessero in misura maggiore rispetto al costo standard, dovrebbero farsi loro carico della spesa eccedente, spostando risorse da altri interventi, senza potere avere altre linee di finanziamento (e quindi facendo venire meno il tradizionale riparto da parte dello stato).
Ma il principio del costo storico è determinabile ed eventualmente già applicato?
Consideriamo l’esempio della sanità.
Intanto osserviamo l’effetto distorsivo creato dai DRG, dai LEA (i livelli essenziali di assistenza sanitaria che il SSN è tenuto a garantire a tutti indipendentemente dai ticket) che sono rimasti lettera morta per la difficoltà di stimare con dettaglio i costi di certe prestazioni (ad esempio le protesi ortopediche), e dai tariffari del servizio sanitario, che dovrebbero essere omogenei per tutte le Regioni secondo la normativa del 1999, ma nella sostanza sono tariffari sui quali è la Regione a decidere.
Come si vede vi è un mancato ricorso al costo standard. Ma questo non dice tutto, perchè se si va a guardare le statistiche di analisi degli scostamenti tra Nord-Centro e Sud in merito alla relazione tra finanziamento e risultato prodotto, si osserva uno scostamento nei valori, generato dalle differenti tipologie gestionali applicate dalle Regioni e dai differenti mix produttivi applicati dalle aziende che costituiscono un impedimento all’introduzione di un costo standard omogeneo a livello nazionale. La soluzione potrebbe essere una fase transitoria in cui i costi standard dovranno essere ponderati territorialmente, ma vi sono molte incognite, soprattutto se consideriamo che il costo standard era già stato previsto nella riforma della contabilità pubblica della metà degli anni novanta operata dall’allora ministro del tesoro Ciampi, ma è rimasto lettera morta, segno delle difficoltà legate al problema delle modalità di utilizzo delle risorse per assicurare un uguale soddisfacimento del fabbisogno.
A questo punto, bisognerebbe scaricare sulla definizione di costo standard l’onere di perseguire una soluzione equilibrata, ma sarebbe comunque insufficiente se non vi fosse poi un accurato monitoraggio della spesa pubblica durante la fase transitoria, che tenga conto di due fattori: il primo che questo monitoraggio è legato alla fase transitoria e serve a passare ai costi standard; il secondo che, appena si conclude la fase transitoria, il monitoraggio sia legato all’esigenza che tramite il costo standard si possa soddisfare il fabbisogno di quel determinato territorio e che questo avvenga in piena trasparenza per potere sviluppare un vero controllo diffuso da parte di organizzazioni capaci di attuarlo.
Ma il costo standard non ha esaurito la sua importanza, perchè ha conseguenze anche sul modello di federalismo che si vuole ottenere. Il problema dell’attuazione del federalismo in Italia è rappresentato principalmente dalle forti differenziazioni territoriali (forse nessun altro paese della UE ha una simile differenza tra i territori per quanto riguarda la ricchezza prodotta), e questo problema può essere risolto solo tramite la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e il loro finanziamento attraverso costi standard.
E qui sta il cortocircuito logico che è alla base della difficoltà di proporre una riforma federalista e per cui non sono ancora stati proposti i decreti attuativi.
Se entra in vigore un modello federale imperniato sui livelli essenziali delle prestazioni e sulla loro copertura finanziaria tramite costi standard, abbiamo da un lato di fare convergere una maggiore omogeneità di offerta di servizi, ma svuotando di significato il sistema federale: se su sanità, assistenza, istruzione e, in parte meno incisiva, sui trasporti locali, vengono decisi centralmente i livelli minimi di prestazioni e il loro costo, allora viene a cadere il concetto stesso di federalismo inteso come autonomia decisionale, perchè il governo regionale avrebbe ben poca autonomia reale.
E se invece, decidessimo di non avere contrappesi forti e di lasciare massima autonomia decisionale? Avremmo un paese con differenziazioni ancora più nette, e non si avrebbero parametri di riferimento con cui misurare l’efficacia e l’efficienza degli amministratori locali, venendo a fare cadere quella maggiore responsabilizzazione che si voleva perseguire con il federalismo, e questo perchè il costo standard, per sua stessa natura, si prefigura come un criterio oggettivo di paragone per valutare e controllare i territori e questo diventa importante in funzione delle risorse derivanti dal fondo perequativo. Il mancato rispetto tra costi effettivi e costi standard porta l’ente a due strade per colmare tale gap: o aumenta le tasse, o sposta risorse da un settore all’altro; e qui si innesta il fondo perequativo, in quanto, se lo scarto dovesse perdurare nel tempo o essere troppo grande, le Regioni che alimentano maggiormente il fondo perequativo (che ha funzione di riequilibrio), potrebbero chiedere una limitazione della portata per tutelare le loro risorse e per non pagare i conti degli altri.
E questo pone il quesito che in maniera più o meno nascosta influenza il dibattito parlamentare e politico: è meglio un sistema che cerca la perequazione finanziaria, provando ad appianare le divergenze tra aree ricche e povere, o è meglio un sistema che massimizza l’efficacia e la resa, sebbene concentri questa massima efficacia in alcuni territori?
Questo quesito, cui siamo giunti da premesse logiche e lineari (definizione di fabbisogni standard, finanziamento con costi standard), va ad abbattersi con problemi non logici e non lineari che hanno attinenza non con il piano tecnico, ma con il piano politico.
Fonte Gaspare Compagno
Chiosa
- Cos’è il federalismo fiscale
Innanzi tutto la definizione: si tratta di un sistema economico e politico che prevede un rapporto direttamente proporzionale tra le imposte riscosse in un territorio (comune, provincia, Regione, Stato) e quelle effettivamente impiegate, nel tentativo di promuovere le autonomie locali e creare un coordinamento tra i vari livelli amministrativi e di governo, tagliando gli sprechi e responsabilizzando gli enti. Ma nel nostro contesto restano i dubbi sull’impatto che il federalismo avrà al Sud.
Lo schema di decreto approvato il 7 ottobre è un “compromesso” che “sorvola su molti dei punti critici del cammino federalista, così come già era successo negli oltre 30 ‘principi guida’ della legge delega approvata nell’aprile 2009″ ha scritto Salvatore Padula del Sole-24 Ore. Si punta a chiudere presto la questione federalismo per soddisfare la Lega, determinante nel tenere in piedi il governo ma è difficile sbilanciarsi: “Le liturgie della politica – schiacciata tra possibili governi tecnici e l’incognita di elezioni anticipate – oggi non lo consentono”.
- La riforma del Titolo V nel 2001
La base del federalismo fiscale è nel cambiamento di questa parte della Costituzione (avvenuto tramite la legge costituzionale 3/2001) che nella versione originaria del 1948 non lo menzionava in modo esplicito. I primi due commi del nuovo articolo 119 sono: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”.
Eremo Via vado di sole , L’Aquila, lunedì 24 gennaio 2011
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