«Ascoltami, Anto'. Se tu fai mettere due euro per visitare il santuario, fanno 40mila d'incasso all'anno. Solo dal Canada, ne arrivano mille. Quelli sono molto devoti», spiega al suo commensale il prete mentre beve un bicchiere di vino rosso. All'altro tavolo, un quarantenne sbrana il piatto di maccheroni alla pecorara e dice a due commensali che annuiscono in silenzio: «Qui non c'è niente da fare. L'ultima fattura ho impiegato sei mesi a incassarla».
All'Aquila, a due anni dal terremoto, è così. Tutti parlano di soldi. Soldi che dovrebbero esserci, che chissà forse ci sono, che mannaggia non ci sono. Il 6 aprile del 2009 il sisma ha distrutto la città. Da allora L'Aquila è sotto una cappa di vetro e di polvere. Immobile. Ferma. Un'immagine antitetica rispetto all'attivismo febbrile dei mesi successivi alla tragedia, quando l'adrenalina della prima ricostruzione evitò agli aquilani di affrontare le rigidità dell'inverno nelle tendopoli.
Ci sarebbe poi un'altra cifra compresa fra i 2 e i 4 miliardi in carico al Fas, il fondo che contiene le risorse per il Sud. «Sono miliardi teorici - rileva Bianchi - di cui non si riesce ad appurare il reale utilizzo. Colpisce l'assenza di una cabina di regia in grado di monitorare quante risorse siano davvero finite all'Aquila per la ricostruzione».
Invece, le famiglie dei bambini dell'asilo di suor Daniela sanno bene quanti soldi mancano a casa. «Fino a febbraio abbiamo fatto pagare 90 euro sia per la retta che per la mensa, adesso da marzo siamo tornati a 160, perché i nostri conti non reggevano. Chi non può permetterselo, però, non paga», dice suor Daniela, doppia laurea in teologia e in economia, membro del direttivo di Confindustria L'Aquila.
C'è il problema dei soldi. E c'è il problema dell'anima della comunità. «Sa qual è il vero dolore, anche più forte dell'affanno dei conti? È che abbiamo capito che, nel centro storico, nessuno tornerà più. Le 19 piccole città edificate dalla Protezione civile intorno all'Aquila dovevano essere transitorie. Ma, ormai, è chiaro che sono definitive. E, quella, non è vita: senza amici, gli anziani lontano dagli ospedali, per gli altri viaggi su viaggi per andare a prendere e riportare i ragazzi a scuola».
Soprattutto per gli anziani non è facile. Annalisa Di Stefano, una commercialista che con altre nove professioniste aquilane sta anche organizzando uno sportello gratuito per aiutare le donne ad aprire nuove attività, sta preparando un servizio di trasporti per quelli che, "dispersi" nelle new town satelliti, vogliono fare ginnastica e stare insieme: «Mia mamma Maria, a 73 anni, resta sempre chiusa in casa. Così non va bene».
Al 54 di via Sallustio, uno stabile giallo ha il tetto ripiegato che sembra sul punto di cadere. Raffaele Colapietra, a 80 anni, ha la tristezza e l'intelligenza del professor Terremoto di Pirandello. È uno storico che ha insegnato all'Università di Salerno. Impermeabile grigio, prima di allontanarsi verso la casa danneggiata che non ha voluto abbandonare, esprime il suo scetticismo: «Ha sbagliato la comunità. Dovevamo partecipare di più alle scelte».
Questo senso di sradicamento dal proprio destino, all'Aquila, è assai diffuso. Il terremoto. Il Governo a prendere le decisioni. Silvio e Obama. La macchina della Protezione civile («È andata via il 31 gennaio del 2010, da allora non c'è stato che il vuoto», dice suor Daniela). La politica locale che litiga.
Quasi si autoincolpa Rita Innocenzi, a trent'anni capo degli edili della Cgil, un'altra donna lucida alle prese con l'enigma aquilano: «Avremmo dovuto avere più forza. Eravamo come annichiliti dal terremoto. Si è capito subito che le strutture provvisorie sarebbero diventate permanenti. Non abbiamo avuto, come sindacati e come persone comuni, l'energia per proporre qualcosa di alternativo. Ora che il grosso dei lavori intorno alla città è stato effettuato, dovrebbero iniziare a ricostruire il centro. Ma con che soldi? Ormai molte attività commerciali si sono trasferite fuori».
Rita la sindacalista non l'ammetterà mai. In fondo, però, il simbolo di tutto questo è la sede della Cgil, vicino al centro commerciale Gli Aquilotti. Un investimento da 1,2 milioni. Soldi veri, messi a disposizione anche dal sindacato nazionale.
Poi, ci sono i soldi che potrebbero esserci ma che, invece, sono congelati. La Futuris Aquilana, una società controllata da investitori milanesi e varesini, ha pronto il progetto di una centrale a biomasse, che ottiene energia dal legno. Quindici addetti diretti, nell'area industriale di Bazzano. Un centinaio nell'intera filiera per la coltivazione dei pioppi. Due milioni già investiti. Trenta milioni in prospettiva.
«Non abbiamo ricevuto un soldo del post terremoto - spiega Aldo Mazzadi - Abbiamo ottenuto tutte le autorizzazioni pubbliche. All'improvviso, hanno preso forma timori sull'inquinamento che causerebbe la centrale, che invece usa le tecnologie più verdi al mondo. Con tanto di tre ricorsi fatti al Tar dai comitati a noi contrari».
La sindrome "nimby" riguarda la mentalità collettiva di tutto il paese. «Forse - riflette il presidente dell'Unione industriali dell'Aquila, Fabio Spinosa Pingue - qui come nell'intera provincia questa sindrome ha una particolare presa per la storia del tessuto produttivo, fatto di economia pubblica e di piccole attività commerciali, con scarso spazio per gli imprenditori veri e propri».
Interessante il flusso di nuove sofferenze in rapporto ai prestiti, ricavabili analizzando i dati della Banca d'Italia. All'Aquila, prima del terremoto, questo indicatore era pari all'1,37%, mentre adesso è al 4,07 per cento. Una situazione molto dura, se si pensa che nello stesso periodo a livello italiano questo indicatore è passato dall'1,31 all'1,92 per cento.
Il risultato è che perfino dell'economia della disgrazia qui è rimasto poco. Anche in termini di redditi: alla cassa edile, che rileva i dati sulle aziende con sede nella sola provincia, la massa salari è aumentata dai 49 milioni del pre-sisma ai 69 milioni del post-sisma (+40%) mentre in realtà i lavoratori sono più che raddoppiati passando da 6.355 a 12.741. «Le aziende sono di fuori e molti operai arrivano dalle altre regioni, per poi andarsene», conferma la sindacalista Innocenzi. In tanti arrivano dalla Campania, dalla Puglia, dalla Basilicata. Da quel Sud che, poco alla volta, sta inghiottendo L'Aquila. Nel 1995 il Pil pro capite era di 14.462 euro, un quarto in meno del Centro Nord ma un quinto in più rispetto al Mezzogiorno. Ora la distanza dal Centro Nord è salita al 30%, mentre quella dal Sud si è accorciata a poco più del 10 per cento.
«Meridionalizzazione? Non so. Quella non è solo una questione di soldi. Certo, però, gli effetti del sisma potrebbero rendere duratura e profonda questa tendenza di lungo periodo», riflette suor Daniela. Che, poi, quasi rivolge una preghiera laica: «Vi prego, non dite che qui all'Aquila ogni cosa è risolta. Abbiamo fatto un gemellaggio con la scuola elementare Cocchetti di Milano. Sono venuti a trovarci. Una mamma si è stupita. Pensava che qui tutto fosse a posto. Non è così».
domenica 3 aprile 2011
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