
Scrive Fiorenzo Perilli su Agorà :” Lo scalpellino è un operaio che lavora in una cava per estrarre e poi lavorare la pietra.
Rispetto alle arti in generale la sua impresa è sempre passata in secondo piano, tanto che veniva etichettato come "lo scultore senza arte" per la produzione in serie su commissione. Eppure la pietra, da materiale grezzo, diventa opera grazie alla trasformazione che lo scalpellino imprime su di essa. Fontane, camini, archi, colonne e pilastri che circondano anche i nostri paesi, sono da ricondurre all'abile manualità di chi esercitava nel settore.
A Pizzoli da circa un secolo la famiglia Pieri è l'esempio lampante della dignità di tale mestiere.

I suoi discendenti, Settimio, Fabio e Fiorenzo, sono legati ad una tradizione familiare che la modernità non è riuscita a scalfire.
Racconto questo non per esaltare la gloria della famiglia, ma per documentare la storia di una generazione appassionata all'arte della lavorazione della pietra.
Ancora oggi, mio cugino Fabio Pieri e suo fratello lavorano opere su commissione, come statuette, camini, architravi per porte ecc. Il lavoro, fatto secondo le incombenze quotidiane, è fatto con passione per ricavare prodotti di qualità, molto apprezzati e richiesti dai cittadini non solo di Pizzoli, ma anche del circondario.
La mia famiglia da oltre un secolo è conosciuta per la lavorazione della pietra e ad oggi i discendenti di Pieri Carmine hanno mantenuto lo stesso atteggiamento del nonno nei confronti di quest'arte, fatta per tramandare il mestiere alle future generazioni.

In compagnia dei due asinelli "Barò e Reginella" si cercano e si esaminano pietre che con il frutto della fantasia poi vengono trasformate in sculture con la sola tecnica della mazzetta e dello scalpello.
Viviamo nel XXI secolo, a molti sembrerà anche anacronistico parlare di questo, ma la riscoperta delle antiche tradizioni, quelle dei nostri padri e dei nostri nonni, credo rappresentino la forza dei nostri territori, l'ambito in cui investire per non soccombere sotto i colpi della modernità che tutto travolge troppo velocemente.”
Fin qui il racconto degli scalpellini di Pizzoli. Ma sempre nella realtà aquilana riportiamo una testimonianza dal volume di Battista e Nanni La cultura degli oggetti ,luglio 1984 che racconta la storia, il lavoro degli scalpellini di Poggio Picenze .
Chi parla e racconta la sua vita e il suo mestiere è uno scalpellino di Poggio Picenze


Il masso quando è buono, suona e ti dice se è buono o no; questo per esempio è rotto, senti che suona come una patata. Il sasso, per lavorarlo, lo segno; comincio col fare i buchi, se mi serve da 25 lo taglio di 30. Adesso i blocchi sono finiti, quando viene qualcuno con la ruspa gli chiedo per favore di cavarmene uno. Se avessi vent'anni di meno, la ruspa me la comprerei io perché qui, sotto la terra, sono tutti blocchi.
Ho 'lavorato all'Aquila, alla Banca d'Italia, ai portici di Federico II, alla chiesa di Cristo Re; nella chiesa di Collemaggio, ho rifatto le «pilette» per l'acqua santa, erano rotte le horimesse a posto. Alla chiesa di S. Pietro ho rifatto il portale che prima era quadrato. AI paese ognuno aveva una cava. La fontana al paese è stata fatta da Rainaldi Amedeo.
Questa cava si chiama «Piedi le Vigne» avrà 150 anni per prendere la pietra si paga una tassa al comune, bisogna fare una domanda e dire per che cosa ti serve e loro ti fanno un prezzo a seconda della pietra che prendi. Le pietre prima si spostavano con i carri, con i buoi, poi con i trattori.

La pietra di S. Pio è stata utilizzata per l’edificio della Banca d’Italia a L’Aquila.
Quando avevo sedici anni quelli che facevano questo mestiere riuscivano a vivere, gli altri dovevano espatriare, c'erano molte cave e gli scalpellini venivano da generazioni e generazioni.
Mio padre mi portò con lui a battere la mazza, per cominciare a esercitarmi, poi, sono stato a lavorare alla Banca D'Italia tutta fatta in pietra, era il 1941 la paga era di trenta lire.
A diciassette anni ho iniziato a fare qualche figura a bassorilievo, a venti sono andato sotto le armi; dal 1934 al '45 ho consumato la mia giovinezza nei Balcani, in Albania, prigioniero dei tedeschi. sono tornato in Italia il giorno di S. Michele, il 29 maggio del '45. Tornato, facevo lapidi per il cimitero, poi ho conosciuto un operaio bravissimo, si chiamava Elia Domenico, insieme abbiamo fatto l'altare di S. Maria Paganica e il battistero di S.Pio XI alla contrada Visca.

La pietra di Poggio è buona, è dolce poi, con le intemperie passando gli anni, fa una pelle di circa un centimetro, dura, che i ferri non possono più intaccarla e cambia pure colore, va bene per i monumenti, per le sculture ...
Anche a Popoli, a Sulmona ci sono scalpellini, quelli dell'Aquila pure sono bravi; il più bravo era quello che fece la «fontana luminosa». Anch'io ho lavorato a quella fontana, però solo per sgrossare le palle di pietra.

mi hanno chiamato anche all'Accademia di Belle Arti per far vedere agli studenti il sistema primitivo, ho spaccato davanti a loro un masso enorme. Se c'è un «pelo», così chiamiamo noi la venatura. è difficile fare il taglio diritto, io ho imparato a forza di guardare mio padre, se hai la passione in un anno puoi imparare, ma non tutto. Spaccare i massi è un lavoro che si faceva d'inverno, si preparava la pietra e d'estate la si lavorava. È tutta passione, se non ce l'hai puoi stare dieci anni alla cava e non imparare niente. Mio padre faceva' tutto: porte, finestre, balconi ... Di tutti quelli che stavano a Poggio, solo pochi sapevano lavorare la pietra: mio padre, mio zio e alle sue dipendenze altri tre fratelli ... Gli altri erano cavatori, addetti a cavare le pietre, Scalpellini grossolani.
Il periodo migliore per il lavoro è stato dopo la guerra, con tutti quegli edifici danneggiati ... poi è venuto il cemento ed è scomparsa la pietra. Sono stato anche in Belgio a fare lo stesso lavoro ma là la pietra è più dolce, tutt'altra lavorazione, si lavora con una specie di pialla. Adesso sto facendo un pozzo, è una cosa media tra il grezzo e il rifinito.

Adesso a Poggio sono rimasti tre scalpellini: uno di novant'anni e due di sessanta. Il Comune voleva fare dei corsi, un, scuola perché non si perdesse la tradizione, se no quando siamo morti noi non resta più nessuno. Prima c'erano tre fabbri che dovevano rifare cinquanta-cento punte al giorno tra scalpelli é martelli ... Si guadagnava lavorando la pietra, gli altri dovevano arrangiarsi con la campagna, la terra ...
Ogni scalpellino aveva un proprio stemma, un segno speciale, con cui firmava il lavoro fatto, si incideva in basso su una pietra vicino all'anno.
FONTI :Fiorenzo Perilli Antichi mestieri : lo scalpellino in Agorà Anno IV n. 11 Marzo 2011
Vincenzo Battista Lorenzo Nanni La cultura degli oggetti Collana di studi abruzzesi dell Comsiglio Regionale d’Abruzo , Luglio 1984
sabato 16 aprile 2011
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