FRATELLI D’ITALIA : Artigiani, democrazia e risorgimento
''Artigiani, democrazia e risorgimento'': è questo il titolo del convegno nazionale organizzato dallo I.A.S.R.I.C., l' Istituto Abruzzese per la Storia della Resistenza e dell'Italia Contemporanea, sabato 11 giugno a L'Aquila, presso l'aula magna dell' I.I.S. ''O. Colecchi'', con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e che si annuncia come un momento alto di riflessione e approfondimento con l'ambizione di riscrivere in parte la storia dell'unità d'Italia, demolendo consolidati pregiudizi e letture parziali.
Tra gli autorevoli i relatori citiamo Marco Severini, dell'Università di Macerata, Eva Cecchinato, maggiore storica di Garibaldi, Antonello Biagini, insigne storico del risorgimento, Sergio Bugiardini, dell'Università di Urbino, l'aquilano Raffaele Colapietra.
'' L'intento - spiega lo storico Umberto Dante, presidente dello I.A.S.R.I.C. – è di sviluppare lo studio sul ruolo avuto dagli artigiani nella realizzazione dell'Unità, andando a ridiscutere la definizione troppe volte data per scontata, del risorgimento come fenomeno elitario, ad appannaggio dei ceti alti e intellettuali.''
L'Unità d'Italia, è la tesi sottesa ai vari interventi, è che invece gli artigiani, ovvero il popolo cittadino - a differenza di quello rurale che rimase ai margini - ebbero un ruolo determinante nel l'epopea risorgimentale e nella guerra di unificazione. Gli artigiani, ceto sociale irrequieto e vessato, furono protagonisti nelle cospirazioni mazziniane, nelle cinque giornate di Milano, nella composizione delle guardie nazionali, nei tanti moti che esplosero, compreso quello dell'Aquila del 1841, a cui il convegno dedicherà particolare attenzione.
La sessione mattutina del convegno - con inizio alle ore 10 - avrà un taglio più teorico; la sessione pomeridiana sarà dedicata invece all'illustrazione iconografia del tema trattato, ovvero l'artigiano protagonista nella rappresentazione fotografica ed artistica del Risorgimento.
L'Italia invece fu fatta anche di popolo, in particolare quello cittadino e dal ceto degli artigiani, che in un nuova patria videro il sogno di un'emancipazione materiale ma anche culturale e civile, l'avvicinamento all'Europa delle nazioni più ricche e libere degli asfittici staterelli della penisola.
In particolare il regno borbonico, oppressivo, oscurantista, dilaniato dalla miseria, lontano mille miglia dall'Europa e dalla storia che avanzava, che taglieggiava con le tasse i ceti popolari a vantaggio di una nobiltà parassitaria.
Questo è la cornice teorica del convegno oggi in svolgimento a L'Aquila ''Artigiani, democrazia e risorgimento'' organizzato dallo I.A.S.R.I.C., l' Istituto Abruzzese per la Storia della Resistenza e dell'Italia Contemporanea, che ha chiamato a relazionale insigni storici da tutta Italia.
''Per tutto il 900 – ha introdotto i lavori del convegno lo storico aquilano e presidente Isric Umberto dante – una delle critiche mosse al risorgimento ha riguardato l'isolamento dentro il paese dell'elite colta protagonista del fenomeno''.
Lettura confutata da molti fatti, come quelli raccontati da Carlo Cattaneo, relativi alle Cinque giornate di Milano: ''Le barricate e gli operai vanno oramai insieme come il cavallo e il cavaliere. Il sacro mestiere degli stampatori ebbe cinque morti, Vi sono tre macchinisti, un incisore, un cesellatore, un orefice. Dei lavoratori del ferro e del bronzo morirono non meno di quindici, ed è pur glorioso all'arte dei calzolai il numero di tredici uccisi. Dei sarti caddero quattro, tre cappellai, e venti tra verniciatori, doratori, sellai, cappellai...''.
Fu del resto un ciabattino Pasquale Sottocornola che appiccò il fuoco al palazzo del Genio militare, uno degli gesti più eroici delle cinque giornate.
Un ceto irrequieto quello degli artigiani, come dimostrano il gran numero di delitti consumati e registrati nei casellari giudiziari dell'epoca. Ma che osserva Francesco Mastriani: ''sente meno la sua miseria ha questa grande consolazione, la parola (…) egli è dunque un uomo, un cittadino, mentre il lavoro rurale è puro meccanismo. L'operaio pensa, raffronta, ragiona. I contadini non ridono o non piangono quasi mai''.
Altri dati a conferma il protagonismo del popolo, quello che aveva gli studenti e la possibilità di emancipazione, nel risorgimento italiano: l numero altissimo di artigiani nelle Guardie nazionale, e nelle file dei garibaldini che man mano si accrescevano di battaglia in battaglia. Aspetto che nel convegno ha approfonditamente analizzato la storica Eva Cecchinato.
Altro passaggio saliente del convegno la lezione dello storico Piero di Girolamo, che ha demolito le basi fortemente ideologiche dell'involuzione del meridionalismo che approda al revisionismo neo-borbonico, che dipinge il processo unitario come una mera annessione da parte dello stato piemontese di tutta la penisola, e di un regno borbonico considerato un po' caricaturale come un faro di civiltà, e benessere.
IL VINAIO, LO SPAZZINO E IL MURATORE CHE MOSTRARONO IL PETTO AL RE BORBONE – I MOTI AQUILANI DEL 1841
E anche in Abruzzo gli artigiani furono protagonisti dei moti di liberazione. Il convegno è stato l'occasione per riportare alla memoria un pagina poco conosciuta della storia patria: la rivolta anti-borbonica dell'Aquila del 1841.
Spiega lo storico Gilberto Marimpietri nell'introdurre il resoconto dei fatti del 1841 a L'Aquila: ''Nel secondo decennio dell'ottocento i dati statistici confermano l'ascesa anche numerica degli artigiani del capoluogo: 120 sarti, 160 calzolai, 35 falegnami, 48 ferrai, 34 parrucchieri, 25 funai, 15 argentieri, 10 ottonai, 12 caffettieri, 15 cappellai, 2 orologiai, 6 speziali, 300 filatrici.
Un numero non certo piccolo di artigiani, fa poi osservare Umberto Dante, che mal si rassegna ''al dominio di coalizione, cucita e controllata dai Gesuiti, tra clero, nobiltà, e dinastia borbonica.''. Particolarmente odiosa era l'alta tassa applicata sul sale che all'epoca era un bene di primissima necessità, perchè serviva a conservare il cibo. Un mondo artigiano, ha spiegato Marimpietri ''fatto di botteghe, di piccolo commercio, di debiti e tasse, di negoziazioni quotidiane, di taverne ed osterie''. Che nell'Italia unita e liberata vedeva un mondo più giusto e più libero.
Significativo il ruolo delle osterie e vinerie, che nel risorgimento furono ''luogo simbolo – ha spiegato lo storico Riccardo Lolli nel suo intervento – dell'altra società, e dei suoi sistemi di valori, di progettazione di iniziative sovversive''. Tanto e vero che nei successivi moti del'1948 l'intendente ribelle Mariano D'Ayala andava a reclutare l'esercito degli oppositori ''affratellandosi in piazza co' i più bassi e per bettole a guadagnar popolo''.
Tutto ebbe inizio la notte dell'8 settembre, allorchè fu ucciso il colonnello borbonico Gennaro Tanfano, già protagonista della sanguinaria repressione di una rivolta a Penne, e del suo attendente Antonio Scannella, accoltellati mentre si recavano al forte spagnolo, dal venditore di vino e da tal Luigi Rufino, detto il Cardarello.
Fu il segnale di un'insurrezione già da tempo preparata, e che in regia aveva i notabili delle ricche e nobili famiglie dei Cappa, dei Dragonetti, dei Ciampella ee dei Falconi, e nel patriota Pietro Marrelli. Non casuale la scelta dell'8 settembre, perchè in quel giorno a Napoli si celebrava con gran pompa la madonna di Piedigrotta, con un'imponente parata militare. E per questa ragione L'Aquila era sguarnita di truppe borboniche.
Gli scontri con le scarse truppe borboniche di stanza in città durarono due giorni e due notti. Fu una vera e propria guerriglia strada per stra, piazza per piazza.
Gli insorti conquistarono porta Rivera, considerata strategica per far entrare in città i rinforzi dal contado, non furono però della consistenza sperata. Molto si sperava nel proprietario terriero di Stiffe Angelo Pellegrini, di nota fede mazziniane, che nelle osterie ''assicurava della vicina felicità a godersi, giacchè in breve si doveva rivoluzionare il mondo.''
Gli insorti, seppure animanti da determinazione ed entusiasmo agirono scoordinati, e senza obiettivi chiari e soprattutto alla portata.
Fatale fu l'arrivo da Napoli dei rinforzi, che in poche ore sedarono la rivolta.
Seguì una dura repressione. Furono incriminate di 192 persone, in prevalenza artigiani e piccoli commercianti, tanti i giovani e giovanissimi. Novanta di loro furono condannati a 25 e 30 anni di reclusione nelle orrende galere borboniche. I notabili che fomentarono la sommossa se la scamparono.
A pagare con la vita furono invece Gaetano Damiani, venditore di vino, Carlo Curato, spazzino, Raffaele Scipione, muratore, fucilati sugli spalti del castello, a piedi scalzi e vestiti di nero, in quel castello che secoli prima fu costruito dai dominatori spagnoli ''ad reprimendam audaciam aquilanorum''.
I nobili e borghesi aquilani che invece si schierarono con la repressione furono invece ricevuti con tutti gli onori da re Ferdinando II, ottenendo decorazioni ed onorificenze.
Ma i lealisti aquilani erano forse una minoranza di traditori. Due anni dopo infatti il re venne a L'Aquila, ad accoglierlo soltanto sparuti gruppi di devoti, nelle vie deserte ed ostili di L'Aquila.
Damiani, Curato e Scipioni morirono per una patria che non videro mai. La vide e la visse invece l'anonimo artigiano aquilano immortalato nel quadro di Teofilo Patini, Nudo Patriottismo, (nell'immagine'' che esprime lo sdegno per l'irriconoscenza che la nuova patria, il regno d'Italia ebbe per chi, come gli artigiani, lottarono per costituirlo.
Così descrive il quadro Umberto Dante: ''in un ambiente desolato e buio, probabilmente un basso aquilano, vediamo un artigiano che agonizza. Spicca al centro della scena, piccola ma luminosissima, l'immagine di Mazzini. Fuori la porta d'ingresso un ufficiale giudiziario attende il decesso per pignorare i suoi beni''
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