Nella crisi siriana, a giudicare dall’intervento delle forze armate nella città settentrionale di Jisr al-Shugour, il quadro è cambiato. Questa non è più la repressione poliziesca di un diffuso moto popolare, come nei giorni in cui Mubarak sperava ancora di sopraffare con la forza le manifestazioni di piazza Tahrir. In Siria i dimostranti sono decisi a resistere, hanno armi di cui intendono servirsi, possono contare sull’aiuto di alcuni transfughi passati dall’esercito alla rivolta, e assomigliano sempre di più ai ribelli di Bengasi quando cominciarono a organizzarsi militarmente. Il rischio, oggi, è quello di una guerra civile che non verrebbe combattuta, come quella libica, fra due territori separati, ma avrebbe piuttosto, come quella spagnola del 1936, molti focolai diffusi in buona parte del territorio nazionale. Sulle ragioni di questo brusco peggioramento della situazione possiamo fare soltanto alcune ipotesi. Le buone intenzioni del presidente Bashar al Assad (sempre che esistessero) sono state ignorate e scartate da un blocco di potere che comprende la minoranza alauita (poco meno del 15%della popolazione), un numero consistente di ufficiali delle forze armate, i servizi di sicurezza, le milizie paramilitari, l’apparato del partito unico e forse l’interessata simpatia di minoranze religiose (fra cui i cristiani) che nel regime laico degli Assad hanno potuto contare sulla benevolenza del potere. Inasprito dalle repressioni delle scorse settimane, lo scontro, ormai, non è più di quelli che possono risolversi con un compromesso.
È una guerra civile in cui chi vince prenderà tutto e chi perde sarà trattato alla stregua di un nemico da eliminare. Conflitti di questo genere si alimentano del sangue versato, diventano lungo la strada sempre più feroci, tendono a contagiare l’intera regione e sono, per la diplomazia internazionale, inafferrabili. Se queste sono le prospettive è più facile comprendere il dilemma degli europei e degli americani. Sono preoccupati perché sanno che la Siria è un Paese cerniera, un pezzo cruciale dei precari equilibri medio-orientali. Non possono tacere perché il rispetto dei diritti umani è ormai parte integrante della loro filosofia ed è stato in molte occasioni la giustificazione della loro politica internazionale. Possono parlare e lo fanno invocando l’intervento dell’Onu e l’apertura di corridoi umanitari. Ma non possono agire perché sono già impegnati in una guerra civile che ha dato sinora risultati diversi da quelli previsti e sperati. Dopo le esperienze degli ultimi decenni, dalla Somalia alla Libia passando per l’Iraq e l’Afghanistan, la pacificazione con la forza è ormai una soluzione improponibile; e le sanzioni, quando due nemici si combattono per il diritto di sopravvivere, non avrebbero alcuna efficacia. Temo che l’unica politica possibile, in questo frangente, sia quella del «cordone sanitario» . Se non possiamo convincere le parti a deporre le armi, possiamo almeno fare del nostro meglio per isolare la Siria e impedire che altri (Israele, Libano, Iran) vengano coinvolti nel conflitto. Ma abbiamo qualche possibilità di riuscirci soltanto se sapremo parlare a tutti con la necessaria fermezza e soprattutto se potremo contare sulla collaborazione dei turchi. Anche se la prospettiva non piacerà a coloro per cui la Turchia è un corpo estraneo all’Europa, Recep Tayyip Erdogan è oggi il migliore dei nostri alleati.
Sergio Romano su Il Corriere della sera 13.06.2011
giovedì 16 giugno 2011
Nessun commento:
Posta un commento