Ringrazio il prof. Umberto Dante, presidente dell’Istituto Abruzzese per avermi autorizzato a pubblicare la relazione che segue che introduce i temi del convegno e ne puntualizza gli obiettivi.
Per tutto il Novecento e per l'ultima parte del secolo precedente una delle critiche costanti mosse al Risorgimento ha riguardato l'isolamento dentro il paese dell'elite colta protagonista del fenomeno. In effetti, questa situazione di minoranza è apparentemente indiscutibile se si pensa ai 24-26 milioni di abitanti, l'insieme della popolazione italiana. Cifra che si raggiunge soprattutto grazie alle masse rurali, ampiamente prevalenti nella popolazione e nella stessa economia.
Questo significa però, a nostro giudizio, ragionare in termini novecenteschi, in un contesto in cui la campagna acquista un peso ed un ruolo del tutto nuovo attraverso la penetrazione del capitalismo nelle campagne, la grande emigrazione, il suffragio universale maschile, il rivendicazionismo delle leghe rosse e bianche.
Diverso è il discorso se si torna dentro il XIX secolo, con alle spalle l'insieme della storia italiana, una storia dominata dal ruolo e dalla centralità della città secondo un processo che proprio nell'Ottocento raggiunge forse il punto più alto in Italia come nel resto del pianeta.
In questo caso la marginalità delle forze risorgimentali è meno evidente anche per quel che riguarda i numeri e gli eventi. Ad esempio, non pare discutibile che dentro le città italiane esista durante il secolo una prevalenza crescente dei liberali e dei democratici, con una sostanziale e progressiva marginalità delle forze tradizionaliste incapaci di reagire volta a volta ad ogni sommovimento, ad ogni ondata di contestazione. La risposta viene solo dall' Austria e quindi scompare dopo Solferino. Per tutto l'Ottocento non si ripeterà più la conquista di città da parte delle insorgenze contadine con quel confuso mescolarsi di lavoratori manuali di città e di campagna mossi da comuni ideologie legittimiste che nel Settecento aveva prodotto momenti di rivolta legittimi sta anche a Napoli, a Verona, a Pavia, a Milano, a Roma, ad Arezzo e in tanti centri ancora minori.
Va per la verità osservato come già nel XVIII secolo esistessero, soprattutto in Emilia, atteggiamenti di sapore diverso, come dimostra la congiura bolognese dei "malintenzionati", tra i cui capi troviamo un falegname, un lardarolo e un lanternaio (1). Anche a Modena i giacobini sono seguiti dalla popolazione in attacchi a nobili ed aristocratici così violenti da richiedere l'intervento delle truppe francesi (2).
Il superamento della fase di contrapposizione dei ceti artigiani alle idee nuove è già avvertibile durante il decennio francese, quando le città mostrano atteggiamenti prudenti, di riflessione. Da questo periodo di esperienze del tutto nuove e spesso gratificanti, il popolo basso della città prende a staccarsi dai governi legittimisti, cosicché il mazziniano Fedele Bono riflette negli anni '30 che il maggiore cambiamento intervenuto nell'Italia del nuovo secolo sia costituito proprio «dalle modificazioni che si erano modificate nella mentalità dei proletari: questa classe prima totalmente inerte ed incapace di intelligenza, che ancora nel 1797 aveva prestato la sua forza materiale ai potenti» (3).
anche per le mani del boia siano così tanto spesso questi personaggi di basso rango che si espongono con temerarietà e non hanno alcuna protezione tra i ceti che contano.
La disponibilità dei ceti popolari urbani a collaborare con gli intellettuali permette agli uomini del Risorgimento di avere ben altra forza d'urto rispetto ai rivoluzionari settecenteschi. Certo, la campagna nel frattempo si è frammentata, indebolita. Ma il vero dato nuovo è che la città del lavoro manuale è ormai in marcia insieme ai ceti colti e progressisti.
Questo persino in quella Napoli che a fine Settecento aveva tenuto testa a Championnet in una straordinaria guerriglia urbana. Nel 1861 i lazzari appaiono "guadagnati al nuovo", "ravvicinati alla società civile", in diverso atteggiamento riguardo "ai barbari dell'interno" (6).
Questa novità è decisiva e spiega la sostanza del Risorgimento.
Anche l'altra faccia della piazza risorgimentale, quella non militare ma gioiosa, festosa, che nasce soprattutto attorno al 1848, è colorita dalla presenza degli artigiani e dei ceti popolari. Un clima di grande coesione politica si crea nelle città italiane tra il novembre 1847 e il febbraio 1848, quando ogni evento politico è occasione di festeggiamenti da parte di tutta una popolazione che non appare più ai testimoni "distinta e stratificata nei suoi ruoli e nei suoi gruppi sociali, non più presente gerarchicamente secondo il prestigio della propri carica e il potere del proprio denaro» (7). Esiste, infine, la consacrazione istituzionale rappresentata dalla partecipazione popolare alla Guardia Nazionale. Si tratta di un contributo decisivo per riempire i ranghi subalterni dei reparti. La cosa costituirà uno dei problemi cruciali della stessa Guardia Nazionale, accusata spesso, soprattutto dalle occhiute gerarchie militari, di avere la tendenza a dare spazio eccessivo alle presenze popolane, essendo i ceti proprietari interessati solo ai gradi elevati. Si tratta di un contributo decisivo, poiché la Guardia Nazionale e le formazioni di volontari reclutate nel Meridione continentale subito dopo la caduta del Borbone hanno un ruolo decisivo nel fronteggiare nei piccoli centri rurali le rivolte legittimiste dei primi mesi e il successivo brigantaggio.
Si sconta, senza dubbio, una qualche difficoltà di studio.
Vecchio discorso quello dei ceti poveri di scrittura.
Tuttavia, se si fa il confronto con la grande persistente fortuna della figura del brigante, tutto ci fa pensare che esistono altre spiegazioni.
Appare evidente che si è preferito potare la complessità storica, recidere o ignorare fenomeni che disturbano una narrazione molto ideologica, incardinata su alcune certezze non discutibili, non negoziabili: la centralità della questione contadina, la delegittimazione dei caratteri democratici e popolari del Risorgimento.
Senza dubbio pesano e si sommano in questa semplificazione le polemiche dei meridionalisti, anche la tradizione idealistica della cultura nazionale e le antipatie marxiane e marxiste.
Quest'ultima condanna pesa non poco. Marx e gran parte degli intellettuali borghesi che hanno fatto una scelta socialista detestano la mentalità, la condizione materiale, le ideologie degli artigiani. I quali, in effetti, non corrispondono ai canoni rivoluzionari prescritti dal manifesto del 1848, poiché oltre alle loro catene conservano anche i saperi, i mezzi di produzione e spesso persino il prodotto¬merce
La sovrapposizìone ai canoni aurei marxisti dell'analisi gramsciana togliattiana farà il resto, imponendo alla storiografia un "film" in cui il progresso vero deve esistere in Italia solo attraverso le lotte operaie e quelle dei contadini poveri.
Non è dunque solo il partito comunista a voler riscrivere la storia del Risorgimento, ma sono i cattolici di Sturzo come quelli di De Gasperi, è il leghismo del contado settentrionale, è il meridionalismo antinazionale ed è il ruralismo fascista e soprattutto mussoliniano. In pieno 25 luglio, in mezzo alla seduta ultima del Gran Consiglio, l'uomo di Predappio nei suoi interventi trova il tempo per accusare il Risorgimento.
Probabilmente dentro la questione esiste in Italia un problema di radici, di memorie familiari, di immagini che si tramandano nelle singole famiglie. Le stirpi urbane sono assai poche in rapporto a quelle degli inurbati. Qui i numeri tornano a contare, ma siamo dentro a un'età diversa.
Inoltre esiste, altrettanto cruciale, il problema della città in quanto tale, la questione più controversa del Novecento italiano, il secolo segnato in Italia dalle poesie di Cesare Pavese, dalle lamentazioni antimoderne di Pasolini.
L'Ottocento esalta la figura dell'artigiano, capace di spezzare la continuità dei ceti del lavoro manuale. In questo senso, l'artigiano è più dei proprietari interprete, essenza e demarcazione rispetto all'universo contadino. Lo sostiene Francesco Mastriani:
«L'operaio sente meno la sua miseria perché ha questa grande consolazione: la parola ( ... ) la domenica va a teatro, al passeggio; è guardia nazionale, e si siede al collegio dei giurati. Egli è dunque un uomo, un cittadino, una parte della sovranità nei paesi nazionali; è braccio, intelligenza, magistratura ( ... ) Il lavoro rurale è puro meccanismo. L'operaio pensa, raffronta, ragiona. ( ... ) Si è notato che, in generale, i contadini non ridono e non piangono quasi mai. Il pianto e il riso sono due privilegi dell'uomo; e il contadino non appartiene più a questa nobile natura» (9).
Anche nel più profondo Mezzogiorno, la distinzione tra operaio e contadino è avvertibile e segna per sempre una cesura storica cosicché Leopoldo Franchetti constata all'indomani dell'Unità che «la sola parte della popolazione in cui si trovano qualche volta sentimenti liberali sono gli artigiani della città e dei borghi» (10). E, più o meno con gli stessi accenti del Mastriani, anche il Franchetti mostra poca stima per il mondo contadino: «E' straordinaria la deferenza di questi campagnoli per il galantuomo, come chiamano chiunque è vestito da cittadino ( ... ) il che contrasta con la violenza, spesso grandissima, delle relazioni tra di loro» (11).
Qualche decennio dopo e sempre in un contesto meridionale, la stessa distinzione viene colta da Bonadè Bottino, colpito dalla critica alla politica dell' operato del governo italiano sviluppata dagli
artigiani, i quali pronunciano "liberamente" la parola socialismo, in totale contrapposizione con «gli atti di servilismo ( ... ) da parte dei contadini» (12).
venerdì 17 giugno 2011
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