
Scrive Lusi- Berrino in "L’ironia di Ovidio verso Livia e Tiberio ".Edipuglia 2010,p. 94
“Sbagliano quelli che descrivono un Ovidio lamentoso e sconfitto dalla relegazione nelle gelide terre della Romania. Il poeta sulmonese seppe trovare le armi dell’ironia e usarle proprio contro la moglie del sommo Augusto e contro il figlio di lei, Tiberio, successore del padre della Patria. Sotto il velo della supplica rivolta alla donna più potente dell’Impero, si nascondono pesantissime allusioni, che servono ad Ovidio per sostenere la successione di Germanico o, comunque, la preferenza per la “gens iulia” rispetto a quella “claudia”. Si spiega, così, l’insuccesso delle numerose richieste di perdono, che il Sulmonese fece avanzare anche dalla sua terza moglie, Fabia, imparentata con una potente famiglia romana e, pur tuttavia, disperatamente respinta nei suoi commoventi tentativi.


Con Livia non si scherzava e lo stesso Tacito individua più di un sospetto nel suo coinvolgimento della morte di Agrippa Postumo, ma soprattutto dei giovanissimi Lucio e Gaio, che Augusto aveva designato come successori e la scomparsa dei quali sgombrò il campo alla ascesa di Tiberio, figlio di primo letto di Livia. Esagerazioni di chi poteva guardare con distacco (essendo passati cinquanta anni dalla morte della “imperatrice”) e poteva riscrivere una storia di Roma meno conformista? Forse, se si considera che il grande storico giunse a sospettare l’anziana “matrigna perversa” anche della morte di Augusto. E’ l’apice della storiografia ostile, ma non dovevano essere lievi le critiche dei contemporanei, soprattutto perché le perplessità di Augusto su Tiberio erano note a molti. In un quadro simile, paragonare Livia alla moglie di Zeus suona certamente eccessivo. Eppure Ovidio, quando si rivolge a sua moglie Fabia nelle Lettere dal Ponto per indurla ad una nuova supplica verso l’”imperatrice”, è eccessivo, come chi vuol fare feroce ironia: “quando sarai in presenza di Giunone… pronuncia solo preghiere, gettandoti a terra in lacrime, afferrati ai piedi dell’immortale… ma confusa dalla paura a stento dirai, con voce tremula, questo. Ciò non penso che ti rovini. Ella vedrà quanto ti intimorisca la sua maestà”.
Insomma, schiaffi a ripetizione Ovidio riserva alla moglie del grande Augusto, pur avendo conservato tutto il suo rispetto e l’ammirazione per l’imperatore, anche dopo l’anno 14, quando il “Cesare” morì. Beffe di chi, forse, si sente perduto nella sua relegazione di Tomi; ma anche virili incitamenti a chi era rimasto a Roma e poteva ancora cambiare il corso della storia imperiale. Un uomo di statura morale molto più alta di quella che qualche ricerca letteraria distratta o conformistica ha voluto ritagliargli in duemila anni di riflessioni. Dall’anno 8, quando il Sulmonese fu raggiunto dall’editto di relegazione che (insolitamente) recava la firma dello stesso imperatore, fino ai giorni nostri, fino a questo ultimo, prezioso contributo di Luisi, l’”error” del vate è stato circondato di dubbi e ripensamenti, ma va conquistando il significato di una scelta che semplicemente non fu coronata dalla fortuna e si discostò dal corso degli avvenimenti. Se ne può fare una “colpa” al Nasone?
Fonte www.ilvaschione.it
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