lunedì 7 marzo 2011

EDITORIALI : L'ITALIA E IL FUTURO DELLA LIBIA

EDITORIALI : L'ITALIA E IL FUTURO DELLA LIBIA

Tre scenari per una crisi

Non bisogna mai mettere con le spalle al muro un dittatore che non ha ancora abbandonato il potere

L'ITALIA E IL FUTURO DELLA LIBIA

Tre scenari per una crisi


Non bisogna mai mettere con le spalle al muro un dittatore che non ha ancora abbandonato il potere

Per quanto essa sia elusiva, vaga e refrattaria a essere imprigionata in definizioni precise, dall'idea di «interesse nazionale» non si può tuttora prescindere. Nonostante i fiumi di inchiostro versati sui cambiamenti delle relazioni interstatali indotti dalla cosiddetta globalizzazione o, nel caso dei Paesi del Vecchio continente, dall'integrazione europea, l'interesse nazionale resta la principale bussola per coloro che devono decidere le politiche estere come per coloro che ne valutano gli effetti. Cruciali questioni di interesse nazionale, come tutti sanno, sono in gioco per l'Italia nella vicenda libica. A seconda degli esiti di quella crisi il nostro interesse nazionale verrà salvaguardato oppure gravemente danneggiato.

Allo stato degli atti, sembrano essere tre i possibili esiti della crisi libica. Nel primo scenario, Gheddafi viene sconfitto, abbandona il potere e gli subentra una nuova classe dirigente che, nonostante grandi difficoltà, si rivela capace di tenere insieme il Paese e di ristabilire normali relazioni con gli altri Stati. Nel secondo scenario, la guerra civile si protrae a lungo e la Libia sprofonda negli inferi, finisce nel girone riservato agli «Stati falliti», in compagnia di Paesi come la Somalia o l'Afghanistan. Nel terzo scenario, infine, Gheddafi riprende il controllo dell'intero territorio, Cirenaica compresa, al prezzo di un terribile bagno di sangue.Il primo scenario, ovviamente, è il migliore per la Libia ma anche per noi italiani. Si tratterà di stabilire relazioni con una nuova classe dirigente che, presumibilmente, avrà anch'essa interesse a un buon rapporto con l'Italia, che avrà bisogno dei legami economici con noi, tanto più nella fase della ricostruzione post dittatura. Avevamo, è vero, eccellenti rapporti con Gheddafi, il che ci renderà sospetti ai loro occhi, ma è comunque un fatto che, fra gli occidentali, non siamo stati i soli a coccolarlo. Il realismo imporrà ai nuovi dirigenti libici di non rinunciare a una cooperazione vantaggiosa per entrambi i Paesi.

Gli altri due scenari, invece, ci danneggerebbero grandemente. Se la Libia diventasse uno Stato fallito, si trasformerebbe in una piattaforma adibita al trasferimento al di qua del Mediterraneo di fiumi di disperati, di caos, di criminalità e terrorismo, ossia dei frutti avvelenati che crescono sempre negli Stati falliti. E noi saremmo in prima linea, i primi a subirne le conseguenze. In uno scenario «somalo» diventerebbe prima o poi inevitabile un intervento militare della comunità internazionale volto a frenare il caos. Nonostante le insidie e l'alto rischio di fallimento a cui un intervento militare andrebbe incontro.


Ma anche il terzo scenario, quello che prevede un Gheddafi di nuovo vittorioso in Libia, sarebbe pessimo per noi.

In politica internazionale l'ipocrisia è la regola. Fino a ieri tutti, non solo noi italiani, fingevano di non sapere che Gheddafi fosse un turpe dittatore che aveva sempre fatto strame di diritti umani. Lo fingevano i governi, i banchieri, il Consiglio dei diritti umani dell'Onu, persino la prestigiosa Lse (la London School of Economics and Political Science di Londra) destinataria di generosi finanziamenti libici, e tantissimi altri. Adesso però l'incanto si è rotto, adesso Gheddafi è un paria, un ricercato dell'Interpol, un possibile imputato del tribunale penale internazionale. D'ora in poi, fare affari con lui diventerà molto difficile. Se Gheddafi riconquisterà la Libia, per l'Italia saranno dolori, pagheremo un costo economico salatissimo. Per non parlare della difficoltà di ristabilire rapporti di cooperazione su materie sensibili come il controllo dell'emigrazione dall'Africa.

La questione dei rapporti economici Italia-Libia ha due facce. C'è, in primo luogo, il destino del centinaio di imprese che operavano fino a pochi giorni fa in Libia e il futuro ruolo dell'Eni. Adesso che anche noi abbiamo scaricato Gheddafi, un vendicativo dittatore di nuovo in sella potrebbe decidere di spazzarci via a vantaggio di meno scrupolosi concorrenti. La Cina, soprattutto, un Paese che non ha problemi a trattare con i peggiori dittatori, sarebbe certo lieta di subentrare alle nostre e alle altre imprese occidentali. E c'è poi la questione dei fondi sovrani, dei cospicui investimenti dello Stato libico in Italia (la presenza in Unicredit, Finmeccanica, Eni, il ruolo della Banca libica con sede a Roma, eccetera). Per ora, in omaggio alle direttive Onu, abbiamo congelato, come altri Paesi, i beni della famiglia Gheddafi e ci siamo dichiarati pronti, per bocca del ministro degli Esteri Franco Frattini, a congelare anche i fondi sovrani se ciò verrà deciso dall'Onu o dall'Unione Europea. Ma è un tema delicatissimo. Da un lato, sarà impossibile per noi non ottemperare alle eventuali richieste in tal senso degli organismi internazionali. Dall'altro lato, sarà di particolare danno farlo dal momento che i libici sono uno dei principali investitori sulla nostra piazza e, per giunta, un congelamento dei loro capitali sarebbe un pessimo segnale per altri investitori. In ogni caso sarebbe per noi una perdita secca e pesante.


Posto dunque che non solo ai libici ma anche a noi conviene che Gheddafi se ne vada, si può constatare quanto siano state improvvide le dichiarazioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu del 26 febbraio secondo cui Gheddafi va processato di fronte al Tribunale penale internazionale, l'apertura di un procedimento a suo carico da parte del Tribunale dell'Aja, l'allerta dell'Interpol per impedire che egli e il suo entourage possano espatriare. Non bisogna mai mettere un dittatore che non ha ancora abbandonato il potere con le spalle al muro. Serviva un salvacondotto, non un processo. Magari Gheddafi è davvero pronto, come ha detto, a morire con le armi in pugno. Ma un salvacondotto, come alternativa al bagno di sangue, doveva comunque essergli offerto. E dovrà essergli offerto. Conviene anche agli entusiasti della cosiddetta «giustizia internazionale». Per dimostrare che fra i suoi effetti perversi non ci sia anche quello di prolungare le sofferenze dei popoli.

[Angelo Panebianco 07 marzo 2011]


Eremo Via vado di sole , L'Aquila,
lunedì 7 marzo 2011

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