SILLABARI : LIBERALISMO
La deriva inarrestabile: l’Italia verso lo statalismo
Arriva in libreria la raccolta degli scritti più importanti di Guido De Ruggiero, il grande storico del liberalismo che lottò contro l’omologazione democraticadi Giuseppe Bedeschi
Direi che le riflessioni più acute di De Ruggiero sono quelle dedicate al rapporto liberalismo-democrazia. Il pensatore campano ammetteva che i principî sui quali si fonda la concezione democratica sono la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo. Tali principî si possono compendiare infatti in queste due formule: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità, e diritto del popolo a governarsi da sé (dunque, per questo verso, fra liberalismo e democrazia c’è un rapporto di continuità). Ma De Ruggiero sosteneva poi che sarebbe stato erroneo trarre da ciò la conseguenza di una identificazione completa e senza residui fra liberalismo e democrazia, poiché c’è una diversità profonda di mentalità fra le due concezioni.
Egli sottolineava infatti la grigia uniformità e il conformismo che caratterizzano le grandi società democratiche di massa; i fenomeni di burocratizzazione sempre più estesa che investono la società a tutti i livelli; il diffondersi nelle grandi masse di una mentalità assistenziale, per cui tutti hanno diritto a tutto, indipendentemente dallo sforzo e dal merito individuali, sicché lo Stato viene concepito come il supremo elargitore, che deve garantire il soddisfacimento di tutte le esigenze, senza tener alcun conto degli apporti dei singoli. Acute e profetiche le affermazioni di De Ruggiero a questo proposito. «L’arte - egli diceva - di suscitare dall’interno un bisogno di elevazione, il quale può dare esso solo il senso del valore e dell’uso della conquista, è del tutto ignota alla democrazia, che si appaga di elargire diritti e benefici, la cui gratuità ne costituisce la preventiva svalutazione e la cui non sentita e non compresa utilità ne favorisce la dissipazione».
Queste il pensiero di De Ruggiero nel 1925. In che misura questa ispirazione si è conservata nella sua riflessione nel secondo dopoguerra, quando il pensatore campano aderì al Partito d’azione? Per rispondere a questa domanda è assai utile il libro curato da Caterina Genna, Guido De Ruggiero e La nuova Europa (Franco Angeli, pagg. 396, euro 40), che raccoglie tutti gli articoli pubblicati dal filosofo negli anni 1944-46. È significativo che De Ruggiero mettesse in guardia, nel 1945, verso il liberal-socialismo (un indirizzo dottrinale fondato da Carlo Rosselli negli anni venti del Novecento, e riproposto poi, in modo autonomo e originale, da Guido Calogero e da altri). «Nel liberal-socialismo - dice De Ruggiero - l’accento batte sul secondo termine. E il socialismo non è un nome che possa prendersi in un significato vago e generico, ma è un nome che sottintende tutto un complesso di dottrine e di esperienze ben definite».
In realtà il liberal-socialista è un socialista che vuol giungere alla realizzazione del suo programma salvando, per quanto è possibile, la libertà individuale. «Che questo proposito - dice il filosofo campano - implichi un’attenuazione dei presupposti dittatoriali della sua dottrina è innegabile, ed è anche possibile che esso esiga una revisione dell’originario classismo, ma ciò non toglie che resti intatta la struttura fondamentale del suo pensiero e che l’esigenza della libertà sia in qualche modo secondaria». Il fatto è che il liberalismo dei socialisti è sempre in qualche modo precario e occasionale. «Al vertice della loro concezione starà sempre lo Stato o una data organizzazione sociale, in cui l’individuo, con la sua ragion d’essere propria, scompare. A quegli enti spetterà ogni diritto d’iniziativa, ogni capacità di direzione, ogni autorità d’imporre una disciplina: insomma tutto ciò che in una visione liberale è di pertinenza dei singoli».
(Pubblicato il 20 dicembre 2010 - © «il Giornale»)
Il liberalismo è una dottrina politica che sostiene la necessità di una limitazione del potere politico a vantaggio della libertà individuale. L’uso del termine liberalismo con il significato attuale risale ai primi dell’Ottocento. Considerando che l’assolutismo è stato messo in discussione con argomenti e idealità tipicamente liberali già a partire dal XVII secolo si possono però già definire liberali i whigs, promotori della seconda rivoluzione inglese, e pensatori come John Locke. Il filosofo anglosassone, infatti, sostenne che un tempo, nello “stato di natura”, gli esseri umani avrebbero vissuto senza una regolamentazione formale della vita comunitaria. Tendenzialmente la convivenza sarebbe stata pacifica, perché gli interessi individuali si sarebbero incontrati armonicamente. Comunque per ovviare alle pur rare controversie e per salvaguardare i propri diritti gli individui si sarebbero riuniti in gruppi convenendo sulla costituzione dello Stato, al quale avrebbero ceduto alcuni dei loro diritti. Avrebbero però mantenuto quelli la cui salvaguardia sarebbe stata il fine del “contratto sociale” [1].
Locke riteneva che i diritti naturali, perciò inviolabili, fossero la vita, la libertà e la proprietà [2]. Nel caso in cui i governanti non li rispettassero perderebbero ogni legittimità al potere e il popolo avrebbe il diritto di destituirli, se necessario anche con una rivoluzione. Affinché questi casi non si verifichino, secondo Locke, è opportuno dividere il potere politico nel potere legislativo, che legifera senza avere i mezzi per fare rispettare le leggi, e in quello esecutivo, che deve tradurre in pratica le leggi, oltre che osservarle. L’illuminista Montesquieu condivise questa divisione, ma aggiunse che anche il potere giudiziario deve essere autonomo.
- pone le basi dell’organizzazione politica non in Dio, ma nell’umanità;
- inserisce tra le libertà individuali più importanti quella d’espressione di pensiero, quindi di religione (con l'eventuale eccezione delle religioni pericolose per le istituzioni).
Cominciando dall'Inghilterra, il liberalismo ottenne gradualmente importanti conquiste: i diritti dei sovrani vennero limitati (generalmente da carte costituzionali), vennero istituite assemblee di cittadini eletti che -assieme al sovrano e ai suoi ministri- prendevano parte al processo decisionale, furono messe in atto limitazioni del potere giudiziario a garanzia della persona sospettata (garantismo), la Chiesa perse potere a vantaggio dello Stato (dottrine giurisdizionaliste), furono riconosciuti l’uguaglianza giuridica dei cittadini e lo Stato di diritto, nel quale il cittadino può portare lo Stato in giudizio.
In Inghilterra, reso puramente simbolico il potere del sovrano e degli aristocratici, ci furono coloro che proposero una diminuzione delle garanzie di libertà che lo Stato concedeva ai cittadini, visto che il potere era detenuto dai cittadini stessi. John Stuart Mill replicò a quest'ipotesi sostenendo che lo Stato non deve violare la libertà individuale, perché se lo facesse si tramuterebbe in dittatura della maggioranza, in democrazia illiberale. Per Mill lo Stato deve assolutamente limitare la sua sfera d’influenza alla vita pubblica del cittadino, libero di fare tutto ciò che non danneggia qualcun altro.
Marx liquidò il liberalismo come un prodotto borghese superabile, dopo una provvisoria dittatura del proletariato (“fase socialista”), con l’annullamento di ogni forma di Stato e di oppressione (“fase comunista”).
Invece altri pensatori di sinistra riconobbero che i diritti liberali, tranne quello alla proprietà se concepito in maniera assoluta, sono un patrimonio della politica moderna legato in maniera indissolubile alla vera democrazia. Si arrivò a parlare di “socialismo liberale”. Nel secondo dopoguerra, alcuni teorici, tra i quali Popper, teorizzarono il “liberalismo positivo” (in opposizione al liberalismo come semplice elencazione di ciò che lo Stato non può fare), favorevole all’intervento dello Stato in alcuni settori considerati importanti per il buon funzionamento della democrazia.
Il liberalismo economico (o liberismo)
Lo stesso ottimismo che portava Locke a pensare che nello stato di natura ci fosse un’armonizzazione tra l’agire degli individui animò la dottrina economica di Adam Smith (1723-1790). Secondo questo economista i soggetti economici hanno come fondamento del loro agire il loro personale rendiconto, ma questo, grazie anche alla concorrenza, è causa del progresso di tutto il sistema economico. Lo Stato dovrebbe così lasciare completa libertà di iniziativa ai privati non condizionando la vita economica, che si regola autonomamente.
Una concezione liberista era già presente in Locke, perché il filosofo ascriveva ai diritti naturali, e perciò inviolabili, anche quello alla proprietà, considerato come conseguenza del lavoro compiuto dal proprietario su un oggetto che primitivamente non era di alcuno. Il proprietario avrebbe avuto il diritto di trasmettere ad altri le sue proprietà. Per Locke questo principio vale “almeno quando siano lasciate in comune per gli altri cose sufficienti e altrettanto buone”.
Spesso si è considerata la libertà economica come essenziale per la realizzazione personale.
[1] Una visione di questo genere è stata definita “contrattualistica”, in quanto pone il fondamento dello Stato in un contratto.
[2] La dottrina che accetta l’esistenza di diritti naturali è detta “giusnaturalismo”.
Fonte Elaborazione da “Dizionario di politica” di Norberto Bobbio e Nicola Matteucci
Eremo Via vado di sole, L’Aquila, 27 marzo 2011
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