Quanto cammino fecero insieme le pietre della cinta, del campanile e del ricovero! Strette da un patto secolare, si sostenevano reciprocamente nella comune fatica di durare. Le mani che si prendevano cura del muro ne ricevevano, in cambio, custodia per i loro beni. Una vita senza comodi si estendeva come poteva nel cavo delimitato da una barriera sicura, un fluido continuo scorreva tra i corsi inquieti della città, i riti della fede e quello scudo fermo e severo. Allo sguardo di un estraneo che allora si fosse trovato a passare da quelle parti, l'intero abitato doveva apparire come un unico corpo raccolto in se stesso, -avvolto dal mantello ondulato dei tetti, il respiro scandito dal ritmo consueto del giorno e della notte che apriva e chiudeva le sue porte.
Muro dolente, stranito sotto il peso del compito sconosciuto che un'attesa superba rivestita di rispetto gli venivano assegnando! D'ora in poi doveva appartenere al presente proprio come una presenza svuotata di ogni linfa vitale, comparire dinanzi agli sguardi come cornice tarlata che rimanda ad una tela trafugata, stare nei pressi dei giorni dell'uomo contemporaneo nel modo di allontanarsi velocemente, da essi, fissare in immagine la dissolvenza continua che lo attraversa, tenere sospeso e immobile il suo stesso movimento a ritroso. Muro salvato per l'avvenire come una stabile fuga perenne verso il passato, condannato alla difficile esistenza di un funambolo che debba ripetere senza sosta, e di spalle, la sua corsa all'indietro sulla corda tesa del tempo. Memoria irrigidita in monumento, evocazione senza fine di esistenze finite, gesto pietrificato di misura della storia. Distintivo di gloria per un domani che doveva avanzare come un'onda interminabile, cucito sull'abito di una fede terrena che faceva battere i cuori con lo splendore ultraterreno della sua stessa vaghezza sconfinata.
Adesso, però, sembra che quel muro non tolleri più di starsene nei termini che un ardore umano gli ha assegnato. Trascorsi i tanti lustri della prima esaltazione, la fissità della sua corsa verso il passato traligna, si espande intorno come un nascosto contagio e corrode quello stesso slancio verso un futuro senza fondo nel quale si volle incastonarla come un brillante prezioso.
Due opposte fughe temporali, divergendo visibilmente, si ritrovano ormai ricomposte sotto la durezza invisibile di una medesima fatalità: dove l'una è congelata, anche l'altra lo diventa; dove l'apertura al passato è stata impacchettata in materia solida rimessa a nuovo, anche quella verso il futuro ricade su se stessa estenuata, esaurita dalla propria inesauribilità, corrente cristallizzata in vetro stregato. Diramandosi in direzioni opposte e complementari, le due fughe si accordano l'una all'altra come lineamenti stilizzati di un unico volto: quello di un presente immobile, sospeso tra quei due trampoli come uno spettro colto di sorpresa dalla propria vacuità. Nella tinta rosea del ricovero non affiora più la tenue delicatezza dell'aurora di una nuova epoca che si va sciogliendo con entusiasmo dal vincolo secolare con un muro sfibrato e declinante, ma il tono scolorito di quella promessa di novità contratta nella sua spinta iniziale; non l'annuncio di un giorno radioso, ma il pallido resto di un calore che non cessa di estinguersi nell'imprevista timidezza di una forza che comincia a scoprire la propria impotenza. Un decorso cromatico si capovolge: non muove più, come prima, crescendo dal velo roseo sfumato del ricovero verso l'intensità pastosa del campanile, ma decresce da questa come sangue che si diluisca in tintura svigorita e acquosa. Giù in basso, una vecchiaia umana anemica e solitaria trova riparo nelle stanze di un'antica carità, alle quali il lessico di un eufemismo di facciata dà oggi il nome dolciastro di "residenza per anziani". Senza clamore, il muro ha consumato la propria vendetta. Ciuffi d'erba spontanea, tornati dopo la ripulitura a popolare il suo biancore orizzontale, incidono tra le pietre il disordine di un sarcasmo selvatico.
Tempo statico delle due fughe, immobile presente che rimesta volontà ansiose e senza presa, regno del sortilegio e dell'inazione. Non che gli uomini dei dintorni non si muovano più come hanno sempre fatto, anzi, la velocità cresce come dovunque sotto il pungolo di urgenze incalzanti. Ma la chiarezza dell'immobile cristallo, in cui il tempo ha piombato i suoi flussi, confina tanta mobilità spumeggiante della vita nello spazio angusto di un'agitazione circolare e stagnante, simile al ronzare vorticoso di insetti sulla superficie di acque paludose. Tempo che predispone gli uomini a scovare mille e mille artefatti ingegnosi per sopravvivere oltre ogni termine, sottraendo loro la capacità di rinnovare una piena confidenza col senso della Terra: quello che ci accomuna nella nascita che si riceve, negli amori che si donano, nella passione per un sapere che nobiliti il poco che siamo e in una morte degna di essere accettata. Quello, si direbbe, di un tempo che non divora le vite per ingoiarle in un gorgo infinito, ma le riempie con possibilità scaturite e misurate dalla loro stessa finitezza.
Il tempo sospeso che sovrasta come una lamina di cristallo il muro della cinta antica, il ricovero e il campanile di S. Chiara, tessuto dalla movenza sottile della sua stessa divergenza, gioca con gli occhi una partita ambigua come uno specchio magico: riflette in superficie l'immagine degli uomini così come sono adesso e come credono di dover essere per sempre; ma, insieme, facendo trasparire dal fondo un'ombra di straniante immobilità, accenna a quella di una vita capace di redimersi dall'incantesimo che la domina. Conferma da vicino la certezza di un futuro aperto senza limiti che si nutre volentieri con l'onore monumentale reso ad un passato amministrabile, ma da lontano invita anche a slargare l'orizzonte chiuso che imprigiona le sue fughe in una maschera bifronte di gesso. Con discrezione, con tono sommesso, parla agli uomini del compito di una decisione sul loro modo di stare al mondo.
Fonte . Parte di un articolo dal titolo “Il rischio di darsi un destino” di Nicola Auciello , docente di Storia della filosofia , Università di Salerno, pubblicato pag. 5 de il Vaschione periodico sulmonese
(Leggi anche Luoghi e non luoghi ( I ) Il vicinato
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