Clementi , autore di quel bellissimo libro su L’Aquila in cui a lungo parla insieme con il suo coautore in tema urbanistico della ricostruzione dopo il terremoto del 1703, ad un tratto afferma : “ Non abbiamo bisogno di trattati di urbanistica , ma abbiamo bisogno di urbanisti seri che ci dicano caso per caso , che cosa bisogna fare.”
Che cosa voglio dire ? Mi rifaccio ad una testimonianza vissuta in prima persona. Là dove si apre oggi Piazza Italia e il Parco Beato Cesidio , proprio su quella strada prima denominata 127 e poi appunto del Beato Cesidio, all’incrocio di Via Caduti di Via Fani che prosegue con Via Aldo Moro negli anni Ottanta del Novecento c’era un boschetto. Era il ciosì detto boschetto dei nobili . Un posto dove probabilmente i proprietari di nobile famiglia andavano a trascorrere del tempo uscendo dalle mura della città perché si trovava alla prima periferia ovest della città e prima dei contrafforti di S. Giuliano. Con l’espansione dei quartieri di Sant’Ansa, Santa Barbara e S. Sisto quel boschetto era stato circondato dalle costruzioni e quello che è peggio era diventato un immondezzaio. Non era più nemmeno una zona verde a servizio di quel quartiere dove tra l’altro esistevano gli impianti sportivi di Piazza d’Armi e la nascente Verde Acqua . A lungo con i comitati di quartiere, le associazioni fu rivendicata la sistemazione di quell’area a verde attrezzato o a spazio pubblico. Corvè di giovani e non più giovani periodicamente ripulivano quella zona. Insomma era entrata nella quotidianità degli abitanti di quei quartieri fino a quando tutta quell’area fu sistemata se non ricordo male sotto l’amministrazione Tempesta e nacque dunque Piazza Italia e Parco Beato Cesidio.
La piazza dell’Aquila è una .” A metà del ‘300 è la più grande piazza che ci sia nell’Italia centro meridionale al di sotto di Firenze “ scrive Raffaele Cola pietra nel suo Forma urbana dell’Aquila dal medioevo al 1700. Quando fu creata quella piazza la città saliva dalla Rivera e si attestava su due quinte : quella del palazzo della Reggia S. Domenico e quella su cui si apriva Piazza Duomo. Che cosa pensarono quegli aquilani quando decisero di aprire quella grande piazza così al centro della città. Disubbidirono certamente agli urbanisti che avevano descritto la città in questo modo, che volevano la città in un altro modo .
Gli aquilani disubbidirono costruendo una piazza enorme al centro della città dove non sempre vi facevano il mercato e non per tutti i generi.
Ebbene nel leggere questa pagina di un urbanista con un volo di fantasia mi sono rappresentato lo stesso Pellegrino Pellegrini , chissà se rea biondo o bruno, basso o alto, magro o grasso , con voce roca da baritono o in falsetto che illustrava agli aquilani come costruire la città in una pubblica assemblea e poi gli infiniti crocicchi e le discussioni e le polemiche , infine le decisioni .
Un patrimonio di complessità incomparabili e inconfondibili , è un immenso mondo favoloso.
E poi con un po’ di ardire entrare nella quotidianità di famiglie che vivevano L’Aquila dei loro tempi. Entrare nei loro pensieri, sentire il loro respiro . Immaginiamoci che cosa pensava il Marchese Pica Alferi quando costruiva il suo palazzo ma anche di che cosa parlavano i muratori e i braccianti che lo costruivano . Non pensare a questo , sentire solo gli urbanisti significa tradire quello spirito che solo ci può confortare e aiutare ad attendere un’altra eternità prima che l’Aquila sia bella e ricostruita. Questo voleva dire Clementi e questo voglio dire . Chi sta pensando alla ricostruzione in altri termini scellerati si fermi , rifletta che tanto le eternità si susseguono e anche un’eternità non dura in eterno.
martedì 22 febbraio 2011
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