Quale Dio in croce?
CACCIARI:Tra male e amore l’uomo-Signore che s’inabissa in terra
Cur deus homo? È forse l’interrogazione dell’arte figurativa dell’Europa o Cristianità, che ha per questo nel Crocefisso il suo topos più estremo. Perché Dio assume questo volto disfatto? Patisce questa morte maledetta? Holbein aveva disegnato ai margini del suo esemplare dell’Encomion moriae di Erasmo un Cristo con il berretto dei folli... Non è folliavolersi incarnare? Di fronte a questo mistero si ergono i Crocefissi dei Cranach, le Passioni di un Grünewald, il Cristo deriso di Bosch e il Calvario di Bruegel, il grande Crocefisso del Velàsquez, col capo reclino, il volto coperto dai capelli (come nel Crocefisso 2 di Congdon), la cattura del Cristo di Goya. Ma tra tutte queste immagini la più affine a quelle di Congdon a me pare il Cristo disegnato da Juan de la Cruz: uno scheletrico squarcio, colto dall’alto, dal culmine dell’abbandono. Poiché questa è l’icona del Cristo che Congdon patisce: quella del radicale abbandono.
Di più: egli non dipinge un’immagine, ma il grido dell’abbandono. Quella creatura, i cui tratti vanno disfacendosi, il cui dolore de-liradai limiti della sua carne, per trasformarsi in dolore del corpo del mondo – quella creatura non chiede se è stata abbandonata, ma perché. Perché un abisso si spalanca tra quel corpo appeso e la Maiestas domini? Congdon ha visto un «buco» nel suo Crocefisso: un abisso, appunto. Il Crocefisso non sembra indicare altro che l’abisso. Eppure quale forza straordinaria si sprigiona proprio da questa icona dell’abisso che ci separa dalla Maiestas divina? Come può questo grido che suona di disperazione, apparire come atto di fede e di amore?
Cur deus homo? Nessuno potrebbe reintegrare la ferita se non Dio. Troppo grande è l’abisso che quella ferita ha aperto perché una potenza umana possa salvare. E questo abisso deve far vedere il pittore del Crocefisso. Ma, un tempo solo un uomo, una creatura così ferita, deve voler accogliere la possibile salvezza, l’ad-ventus imprevedibile. Solo un uomo deve voler bere il calice fino all’ultima feccia. E solo un Dio può salvare. Ecco il nodo che deve potersi mostrare in un’immagine sola.
GIVONE Simbolo d’iniquità, lascia aperto il dramma umano
È stato detto, non senza ragione, che la nostra epoca è fatalmente condannata al silenzio e alla dimenticanza della verità. Ma com’è facile constatare, il silenzio senza verità partorisce mostri che gli fanno il verso: perciò forse mai come oggi s’è visto il trionfo della chiacchiera e del vaniloquio sull’uomo e sulla sua storia. Anzi lo stesso silenzio è diventato retorica. In effetti ognuno patisce questa impotenza e ognuno cerca di vincerla variamente e ottimisticamente eludendola. Ma la realtà è che siamo ancora inchiodati a un legno antico, e lì staremo in agonia fino alla fine del mondo, anche se a ogni soffio di vento ci piace dimenticare dove siamo per inneggiare a qualcosa che non c’è. Nessuno vuol saperne di star zitto.
Ed ecco l’accorto dialettico annunciare che il cerchio sta finalmente per chiudersi intorno al negativo più ostinato e resistente, ecco il buon neofilo riconoscere in ogni cascame alla moda segni certi di una mirabile lievitazione delle coscienze, ecco ancora l’illuminista abile e prudente suggerire un uso della tecnica finalmente liberatorio. Mentre il male dilaga e la morte continua a dominare, la babele dei linguaggi, questa sì, tocca il cielo. Come se il mondo già ora non fosse fin troppo simile a quel che sarà alla fine di tempi, quando gli uomini, come sta scritto, saranno assediati da una violenza talmente onnivora che invocheranno la morte, ma neppure la morte potranno trovare (Ap 9,6).
Eppure è anche vero che il silenzio può farsi insostenibile come nient’altro. Si capisce quindi perché lo smarrimento del senso e la perdita di un qualsiasi ordine di comunicazione evochino incessantemente linguaggi fittizi, puramente ideologici, del tutto inabili a dire cose vere e reali.Risonanza di un un identico vuoto; e sa di vuoto anche il bisogno di arrestare questa fatua vertigine, questo delirio verbale, quest’allucinata moltiplicazione di codici tanto rigorosi quanto simulati.Non è questo il linguaggio della croce. La croce non può essere spartita con niente, e non è certo attraverso il patteggiamento che il linguaggio della croce si fa potenza di Dio. Tutto invece dev’essere pensato escatologicamente. «Verbum enim crucis [...] iis quidem qui salvi fiunt [...] Dei virtus est
».
Il linguaggio della croce è potenza di Dio agli occhi e alle labbra di coloro che saranno salvati. Allora ecco si potrà dire di essere risuscitati col Cristo (Col 2, 12 e 3, 1,), ma lo si dirà rivolti al regno futuro che solo il ritorno del Signore potrà instaurare. Qui, ora, non c’è che la croce. Il mistero d’iniquità che la insidia e la fa essere quella che è – una croce, appunto – non può essere esorcizzato, ma soltanto patito fino alla sua consumazione. Inganno, supplizio, tradimento, «bisogna che tutto ciò avvenga», affinché si salvino «coloro che avranno saputo perseverare fino alla fine» (Mt 24, 6-14). Ma se è vero, come insegna l’Apocalisse, che tutto il male del mondo sarò assoggettato da colui che ne ha sofferto interamente lo strazio, è anche vero, come testimonia quello straziante silenzio che è il linguaggio della croce, che il male, qui e ora, include la possibilità di un irreversibile esito di morte. Il tremendo dubbio di Luca è realistico, non retorico: «Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra? (Lc 18, 8).
Massimo Cacciari - Sergio Givone
da Avvenire 4 settembre 2010 rubrica IDEE
mercoledì 9 febbraio 2011
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