Sappiamo che la sua fama di mago contribuì,anche , a far nascere molte leggende sul suo conto. I suoi amici e discepoli raccontano ad esempio che alla sua morte, essendo amato dagli dei, fu assunto in cielo; i suoi detrattori, al contrario, riferiscono che, caduto nella lava dell'Etna, il vulcano avrebbe poi restituito solo i suoi calzari per dimostrare la sua divinità. In realtà non sappiamo neanche se sia morto in patria o, come sembra più probabile, nel Peloponneso. I Sicelioti lo veneravano come profeta e gli attribuivano numerosi miracoli.
Era di antica famiglia nobile e ricca di Agrigento. Come suo padre Metone, che ebbe un ruolo importante nell'allontanamento del tiranno Trasideo da Agrigento nel 470, Empedocle (Agrigento, 490 a.C. circa – 430 a.C. circa)partecipò alla vita politica della città negli anni fra il 446 e il 444 a.C., schierandosi dalla parte dei democratici e contribuendo al rovesciamento dell'oligarchia formatasi all'indomani della fine della tirannide, un governo chiamato dei "Cinquecento". Dai suoi nemici fu poi esiliato nel Peloponneso, dove forse conobbe Protagora e Erodoto. Tra i suoi discepoli vi fu anche Gorgia.
Secondo il racconto di Diogene Laerzio, si iscrisse alla Scuola pitagorica divenendo allievo di Telauge, il figlio di Pitagora. Seguì la dieta pitagorica e rifiutò i sacrifici cruenti: secondo la leggenda, dopo una vittoria olimpica alla corsa dei carri, per attenersi all'usanza secondo cui il vincitore doveva sacrificare un bue, ne fece fabbricare uno di mirra, incenso ed aromi, e lo distribuì secondo la tradizione.[1]
Secondo altri seguì gli insegnamenti di Brontino e di Epicarpo.
Come Empedocle anche l’imperatore Adriano prediligeva i luoghi dell’ Etna e addirittura ne raggiungeva la sommità per ammirare il sorgere del sole.
Sull’Etna era situata la grotta di Polifemo come la descrive Omero nel libro IX dell’Odissea :
Spelonca eccelsa nell’estremo fianco230
Di lauri opaca, e al mar vicina, io vidi.
Entro giaceavi innumerabil greggia,
Pecore e capre, e di recise pietre
Composto, e di gran pini e querce ombrose
Alto recinto vi correa d’intorno.235
Uom gigantesco abita qui, che lunge
Pasturava le pecore solingo.
In disparte costui vivea da tutti,
E cose inique nella mente cruda
Covava: orrendo mostro, né sembiante240
Punto alla stirpe che di pan si nutre,
Ma più presto al cucuzzolo selvoso
D’una montagna smisurata, dove
Non gli s’alzi da presso altro cacume.
Ulisse va si ferma senza sentire il consiglio dei suoi compagni di prendere provviste e tornare lla nave
Lui non trovammo, che per l’erte cime
Le pecore lanigere aderbava.275
Entrati, gli occhi stupefatti in giro
Noi portavam: le aggraticciate corbe
Cedeano al peso de’ formaggi, e piene
D’agnelli e di capretti eran le stalle:
E i più grandi, i mezzani, i nati appena,280
Tutti, come l’etade, avean del pari
Lor propria stanza, e i pastorali vasi,
Secchie, conche, catini, ov’ei le poppe
Premer solea delle feconde madri,
Entro il siere nôtavano. Qui forte285
I compagni pregavanmi che, tolto
Pria di quel cacio, si tornasse addietro,
Capretti s’adducessero ed agnelli
Alla nave di fretta, e in mar s’entrasse.
Ma io non volli, benché il meglio fosse:290
Quando io bramava pur vederlo in faccia,
E trar doni da lui, che rïuscirci
Ospite sì inamabile dovea.
Racceso il foco, un sagrifizio ai numi
Femmo, e assaggiammo del rappreso latte:295
Indi l’attendevam nell’antro assisi.
E si sa come finisce l’avventura. Polifemo li fa prigionieri e mangia alcuni di loro . Ulisse con un inganno riesce ad addormentarlo ed accecarlo in modo che legati alla pancia delle pecore che Polifemo faceva uscire per il pascolo riescono la fuggire .
Così la descrive Callimaco nei suoi Inni
Ne risonava 1’Etna, la Trinacria
ne risonava, sede dei Sicani,
ne risonava la vicina Italia
e un gran rimbombo rimandava Cirno,
quando i martelli alzando sulle spalle
e battendo con ritmo ininterrotto,
dalla fornace, il rame che bolliva
o il ferro, con gran forza sospiravano.
Perciò mancò il coraggio alle Oceanine
di vederli di fronte e di ascoltare
il cupo suono, senza aver timore.
(vv. 56-63, trad. V.G. Lanzara)
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