sabato 25 aprile 2015

il capoluogo | Gilberto Malvestuto: «Il mio 25 aprile»

il capoluogo | Gilberto Malvestuto: «Il mio 25 aprile»

]E’ stata forte l’emozione quando il ministro della Difesa Raffaella Pinotti mi ha consegnato la Medaglia della Liberazione”. Gilberto Malvestuto, 100 anni, di Sulmona, patriota della mitica Brigata Majella, è orgoglioso e commosso per la medaglia commemorativa che è andata ai labari e ai rappresentanti delle associazioni che raccolgono quanti parteciparono alla Guerra di Liberazione. La medaglia riproduce un dettaglio della monumentale cancellata in bronzo del Mausoleo delle Fosse Ardeatine, realizzata dallo scultore Mirko Basaldella. Viene definita "un capolavoro di spiccato espressionismo, in cui l'avviluppo contorto degli elementi rappresenta figurativamente l'orrore umano di quella tragedia”.

Ricorda Domenico Lagozzo: “Malvestuto è un testimone importante. Una voce da ascoltare con molta attenzione. Racconta quando il 21 aprile 1945, con le Sezioni mitraglieri alla guida della Compagnia Pesante della Brigata Majella, entrò a Bologna 'tra le primissime truppe liberatrici alleate, insieme ai fucilieri della prima Compagnia agli ordini del sottotenente Laudadio'. 'Una enorme folla di cittadini ci accolse osannante perché era terminato per loro l’incubo che toglieva il respiro, di una terribile occupazione nazifascista che, nella città felsinea, aveva seminato terrore e morte. Ancora oggi, nel lago dei miei ricordi di quel tempo ormai lontano, rivedo il restante territorio emiliano, al di là del fiume Reno, che fu anche teatro della nostra attività bellica successiva alla liberazione di Bologna: un territorio anch’esso violentato e martoriato durante la Resistenza da un nemico che, rinnegando le più elementari leggi dell’umanità, vi trucidò donne, vecchi e bambini innocenti. Siamo tornati più volte come reduci della “Majella” a Brisighella, a Marzabotto, a Bologna e in altre località collegate alla nostra storia di liberazione, per tuffarci sempre nel calore e nella cordialità di quelle meravigliose genti emiliane-romagnole, in cui ha sempre palpitato un’anima generosa, un cuore aperto a ogni esigenza di pace, di progresso, di giustizia'[/i]".

Così Gilberto Malvestuto in un’intervista di alcuni anni fa data a Lucia Conte ricorda la sua scelta di unirsi ai partigiani della neonata Brigata Maiella: “[i]L’annuncio dell’armistizio dell’otto settembre del ’43 mi sorprese quando ero un giovane sottotenente carrista, appena ventiduenne, in servizio a Montepulciano Scalo, presso il locale Battaglione Reclute. Fu un giorno indimenticabile perché si verificò la dissoluzione delle nostre Forze Armate, già sconfitte sul campo, mentre il Re, la sua famiglia e tutti i vertici militari ci abbandonarono per fuggire ignominiosamente a Brindisi, già raggiunta dalle Forze Armate dell’Ottava Armata Britannica che stava risalendo la nostra Penisola. Decisi di rientrare in famiglia, a Sulmona, che raggiunsi a piedi con abiti civili e logori. Conobbi allora la vergogna della fuga, per evitare la cattura e la deportazione nei lager nazisti da parte delle forze armate germaniche, che avevano subito occupato militarmente la parte centro-settentrionale del nostro paese, non ancora raggiunta dalle armate alleate liberatrici. A Sulmona era iniziata la mia esistenza amara di clandestino, in un territorio metropolitano occupato dall’esercito germanico, riuscendo a sopravvivere alle insidie dei delatori, della fame, del freddo, aiutato dai miei familiari, che durante i lunghi nove mesi dell’occupazione nazifascista del territorio protessero la mia latitanza fino all’arrivo delle truppe alleate, avvenuta il 12 giugno del 1944. E spinto da un profondo senso di solidarietà per le vittime civili sottoposte da parte germanica a ogni tipo di violenze, con le impiccagioni, le fucilazioni, le stragi, gli sfollamenti di larghe fasce territoriali, con i roghi fumiganti di innocenti, mi arruolai nella Brigata Maiella, al comando dei mitraglieri che condussi.

Il 5 dicembre del ’43 si costituiva a Casoli la Banda Patrioti della Maiella, al comando dell’avvocato Ettore Troilo, il quale riuscì, con l’aiuto del maggiore inglese Wigram, che ne aveva sposata la causa, a porre la sua Banda al servizio dell’Ottava Armata Britannica, che operava già nella zona dell’Alto Aventino e dell’Alto Sangro, mentre le popolazioni pagarono a caro prezzo la loro attività antifascista e collaborativa con il movimento partigiano, nonostante i “bandi” repubblichini che minacciavano di morte i renitenti e i disertori e tuttavia sempre elusi.

Durante tutta la Campagna di Liberazione sono stato accanto a molti patrioti, alcuni dei quali sono caduti al mio fianco e ne ricordo tuttora l’estremo sacrificio, come il Giudice Mario Tradardi, caduto a Monte Mauro, padre di cinque figli, con altri sono ancora in contatto. Ricordo anche, con tanto rimpianto, il patriota diciassettenne Oscar Fuà di Sulmona, mio valoroso portaordini. Oggi provo un dolore immenso nel ricordare tutti i caduti che hanno immolato, anche al mio fianco, le loro giovani esistenze. Ho un affettuoso e caro ricordo di tutti i miei compagni di lotta che sono scomparsi“.

Il gruppo Patrioti della Maiella: la Brigata Maiella

Infatti, ricorda il sito della Fondazione Brigata Maiella, “Il Gruppo Patrioti della Maiella è una formazione di combattenti volontari che durante la II guerra mondiale, dal momento della formazione, il 5 dicembre 1943, al momento dello scioglimento, il 1° maggio 1945, si distinse per aver contribuito a liberare, insieme alle forze Alleate, l'Abruzzo, le Marche, l'Emilia Romagna e Asiago, in Veneto. L'organico definitivo del gruppo al marzo del 1945 contava un totale di 1326 unità. I caduti nel corso delle varie battaglie furono 55; i feriti 151. Tra i Patrioti del Gruppo si annoverano 188 decorati con riconoscimenti italiani e 18 decorati con croci polacche. Il Gruppo Patrioti della Maiella è l'unica formazione della Resistenza Italiana la cui bandiera è decorata di Medaglia d'oro al Valor Militare.

In 15 mesi di asperrima lotta sostenuta contro l'invasore tedesco con penuria di ogni mezzo, ma con magnifica esuberanza di entusiasmo e di fede, sorretti soltanto da uno sconfinato amore di Patria, i Patrioti della Maiella, volontari della Libertà, affrontando sempre soverchianti forze nemiche, hanno scritto per la storia della risorgente Italia una pagina di superbo eroismo. Esempio a tutti di alto spirito di sacrificio, essi, manipolo di valorosi, nulla chiedendo se non il privilegio del combattimento, hanno dato per primi largo e generoso contributo di sangue per il riscatto dell'onore e della libertà d'Italia. Da Civitella a Selva, a Pizzoferrato, a Lama, e poi, superata la Maiella madre, da Cingoli a Poggio San Marcello, da Montecarotto a Pesaro e poi ancora, instancabilmente, da Monte Castellaccio a Brisighella, a Monte Mauro, a Monte della Volpe, al Senio e, tra le primissime truppe liberatrici, all'alba del 21 aprile a Bologna, il 1° maggio 1945 ad Asiago.

Dal 5 dicembre 1943 al 1° maggio 1945, di battaglia in battaglia, essi furono sempre e ovunque primi in ogni prova di audacia e di ardimento. Lungo tutto il cammino una scia luminosa di abnegazione e di valore ripete e riafferma le gesta più epiche e gloriose della tradizione del volontarismo italiano. 54 caduti, 131 feriti di cui 36 mutilati, 15 medaglie d'argento, 43 medaglie di bronzo e 144 croci al valore militare, testimoniano e rappresentano il tributo offerto dai Patrioti della Maiella alla grande causa della libertà".

Le memorie di Gilberto Malvestuto sono contenute in un libro dal titolo “Sulle ali della memoria”. Il libro, scrive Ezio Pelino, è prezioso perché riproduce in gran parte, cioè fino al febbraio del 1945, il suo diario di guerra. Il racconto, quindi, conserva la freschezza e la suggestione propria della cronaca diretta. E la guerra vi è narrata quasi giorno per giorno. C’è la morte, la fame, la sporcizia, i pidocchi, il freddo, la pioggia, il fango, la stanchezza, la nostalgia dei luoghi e delle persone care. C’è l’eroismo, la “follia” di quei giovani volontari che rischiano la vita per un ideale patriottico, un ideale risorgimentale, che oggi, purtroppo, appare molto appannato.

Si dorme in case private offerte generosamente dalla popolazione. Ma si dorme anche, e forse più spesso, nelle stalle, nelle mangiatoie, come Gesù Bambino”.

Ecco uno stralcio del diario: “[i]Giorno 11 (dicembre) a riposo per alcuni giorni a Brisighella. Doccia fredda e cambio di abiti dopo ben ventinove giorni senza spogliarsi mai. Il 16 dic. 44 conquista di Monte Mauro, dove cade eroicamente combattendo alla testa dei suoi uomini il Capitano dott. Mario Tradardi, sostituto procuratore del Re presso il Tribunale dell’Aquila [. . .] Il 18 dicembre partecipo ai funerali del Giudice Tradardi, portandone il feretro a spalle con altri tre ufficiali della Majella dalla Chiesa del Suffragio di Brisighella. Il 20 torno al fronte, in linea a casa Crivellari. Qui la notte sul 21 il 3° plotone della 2^ Compagnia è attaccato ed accerchiato dai tedeschi. Mio intervento alle 10 del 21 con le mitraglie poste ai Crivellari per spezzare il cerchio nemico. Nebbia fitta e piovigginosa. Sotto la pioggia in postazione. I tedeschi ci contrattaccano con i micidiali “spandao”. Con una pattuglia della 2^ Compagnia, il 3° plotone si sgancia con tre feriti[/i]”.

Vengono rinvenuti tredici tedeschi morti e il diario racconta come si provvede alla loro sepoltura. E racconta anche “[i]la notte sul 21 sempre in piedi in postazione e sempre in allarme vicino al telefono da campo. La sera del 21 alle ore 19, cambio con i cinesi ed indiani che prendono le nostre posizioni. Verso le ore 22 raggiungo, attraverso Monte Mauro con venti centimetri di fango e grandi fossi e ripide discese, la Villa Spada con i miei mitraglieri e i mortaisti[/i]”.

E così, puntuale, quasi minuto per minuto, procede la sua cronaca di guerra. Quando liberano un paese, c’è la popolazione che li accoglie, li “[i]ospita con affetto[/i]” e “[i]ammirazione[/i]” e offre loro “[i]ristoro e conforto[/i]”. Si tengono, nelle case, persino feste danzanti, e vi vengono “[i]invitati con intenso calore”.

La resistenza a Sulmona

A Sulmona la "resistenza" si identificò sostanzialmente con l'aiuto dato ai prigionieri di guerra. Fu la “Resistenza umanitaria”, espressione di solidarietà umana e cristiana. Non fu, dunque, un fenomeno esplicitamente politico. Fu resistenza anti-fascista perché anti-tedesca. E fu antitedesca e antifascista perché esercitata in difesa della dignità umana, contro ogni forma di oppressione, di violenza, di sopraffazione, di disprezzo della vita. Soprattutto con la guerra la gente entrò in contatto con la politica. E fu la guerra in casa a svelare il vero volto del fascismo.

A Sulmona, il dentista Mario Scocco, Roberto Cicerone detto “Pazzone”, Vincenzo Pistilli, Iride Imperoli Colaprete, i fratelli Oscar e Carlo Autiero e altre persone del popolo avevano organizzato l’assistenza alle centinaia di ex-prigionieri, nascosti nelle case o nelle cantine, soprattutto al Borgo Pacentrano, abitato da contadini, cementato da vincoli di parentela e di solidarietà.

Gilberto Malvestuto fu il primo ad entrare a Bologna al momento della liberazione della stessa con la battaglia di Porta Lame. Questa battaglia costituisce un episodio significativo nell'ambito della Resistenza italiana ed è una delle battaglie più importanti che hanno avuto luogo in un centro urbano in Italia in quel periodo. Venne combattuta il 7 novembre 1944 nei pressi di Porta Lame a Bologna e vide impegnati da una parte contingenti provenienti dai distaccamenti della 7ª GAP e dall'altra forze della Repubblica Sociale Italiana e tedesche. Nonostante la superiorità di queste ultime, i partigiani riuscirono a sfuggire al progressivo accerchiamento delle proprie postazioni provocando poi numerose perdite tra le file nemiche.

Malvestuto con il suo intervento - come si legge sul sito ufficiale della Fondazione Maiella - non solo rende la giusta parte all’Abruzzo nella memoria collettiva della guerra di Liberazione italiana sintetizzata dal volume, ma mostra una lucidità e una determinazione fuori dal coro. '[i]Noi non portavamo nomi di battaglia, essendo inquadrati fin dai primi momenti nei reparti ufficiali dell’Esercito Italiano. Il principe di casa Savoia ci corteggiava, ma non abbiamo mai ceduto alle lusinghe. Repubblicani non avevamo le stellette sulla divisa, ma il tricolore sul bavero [. . .] In mezzo al disastro andavamo avanti: tra le bombe, i rumori, la fame, la miseria e la gente nascosta negli anfratti. La paura ci accompagna[va] sempre, ma il desiderio di cambiare era così grande che non ci si pensava per niente'”.

La liberazione dell’Aquila

Il 13 giugno 1944 avvenne anche la liberazione dell’Aquila dalle truppe d’occupazione naziste che, nei giorni appena precedenti, avevano operato la strage di Filetto (7 giugno, 17 morti) e quella di Onna (11 giugno, 17 vittime), mentre il 23 settembre 1943 avevano fucilato e sepolto i 9 giovani Martiri Aquilani.

. . Cittadini, la soldataglia tedesca, nel disordine della disfatta, dopo aver offerto l’ultimo spettacolo della sua selvaggia ferocia, ha lasciato la nostra Città. Le truppe Italiane e Alleate, circonfuse dell’aureola della Vittoria, sono, trionfatrici, nell’Aquila . . . accogliete con dignitoso ed acceso entusiasmo le Truppe liberatrici . . ”

Con queste parole - riportate in un manifesto del 14 giugno ’44 - il commissario prefettizio al comune aquilano Stanislao Pietrostefani invitò ad accogliere gli Esploratori della divisione paracadutisti “Nembo” e le formazioni Alleate (americani e inglesi), che erano stati preceduti, il 13 giugno di setttanta anni, fa da due motociclisti: un ufficiale irlandese e un bersagliere italiano.

Nel territorio dell’Aquila operò la banda della "Duchessa", nella zona tra Lucoli e Tornimparte, comandata da Luigi Marrone, un tenente medico reduce dalla Jugoslavia; essa ebbe l'appoggio della Guardia di Finanza dell'Aquila, che forniva assistenza con rifornimenti di viveri e con l'aiuto ai feriti.

La banda era formata da persone locali e da ex prigionieri inglesi e slavi. Insieme con la banda "Gio. Da" (dalle iniziali del comandante Giovanni de Acutis, poi detta "Giulio Porzio") la "Duchessa" fu protagonista dell'unico scontro in campo aperto con i tedeschi: la battaglia avvenne il 12 giugno 1944 a passo Malito, nella strada tra Corvaro e Sella di Corno, e comportò l'uccisione di Giulio Porzio - uno studente romano di Medicina- e di una ventina di soldati. Questo schieramento non era politicamente inserito, ma entrò a far parte del raggruppamento "Bande Gran Sasso", sostenuto dallo Stato Maggiore dell'Esercito, rifugiatosi nel Vaticano: per questo venne equiparato ad un battaglione. Nella stessa area operava la banda "Colle della Sentinella".

Ai confini con l'Aquilano, a Borbona, era presente anche un altro piccolo gruppo, la banda "Troiani", dal nome del fondatore, Pio, e di cui facevano parte, tra gli altri, il figlio Walter, il fratello Luigi con suo figlio Guido. La "Troiani" si dedicava principalmente all'assistenza dei rifugiati in quella zona. Il 4 aprile 1944 a Posta vennero catturati dai nazisti e dai fascisti Guido, Luigi, Pio e altri due componenti; la fucilazione avvenne il giorno seguente. Dopo la guerra ai tre Troiani vennero conferite le medaglie d'oro e d'argento alla memoria.

Nella Marsica inizialmente la costituzione di bande partigiane fu affidata al comunista Bruno Corbi, liberato nell'agosto '43 dal carcere dove era detenuto per una condanna a diciassette anni per attività antifascista. Corbi e numerosi altri vennero arrestati a causa di spiate di delatori, quindi incarcerati e torturati a L'Aquila. La formazione maggiore ere la "Marsica", ma operavano anche gruppi di minore consistenza come la banda "Ombrone" (che nel gennaio 1944 si fuse con la "Marsica") e la "Bardo", operante nella zona di Sante Marie. Data l'importanza strategica della Marsica, basti ricordare le decine di bombardamenti subiti da Avezzano, la lotta resistenziale fu accanita e feroce, con diversi morti ed eccidi efferati, come ad esempio quello di Capistrello.

L’eccidio di Onna

]L’esercito tedesco, preso atto dell’armistizio firmato dall’Italia con gli Alleati, invase la penisola. Proprio in Abruzzo fu creata la cosiddetta linea Gustav, sulla quale si combattè nell’inverno del 1943 e nella primavera del 1944. Onna fu individuata dall’esercito tedesco come sede di una compagnia di sussistenza. Nel palazzo Pica Alfieri (oggi distrutto dal terremoto) furono realizzati i forni dove veniva cotto il pane da inviare al fronte, nella zona di Castel di Sangro. Tutti i testimoni raccontano come la convivenza fra i tedeschi e la popolazione onnese fosse stata per circa 8 mesi tutto sommato buona, priva di episodi violenti. Quando, dopo la battaglia di Cassino (ricordata anche per il bombardamento da parte alleata della storica Abbazia) la linea Gustav fu sfondata, l’esercito tedesco iniziò la ritirata verso nord. I testimoni ricordano che da fine maggio a Onna ogni giorno si fermavano decine di soldati della Wermacht per rifocillarsi e poi riprendere di notte la marcia. Nel corso della ritirata spesso venivano requisiti animali, cavalli in particolare, per il trasporto di armi e masserizie. Il mattino di venerdì due giugno 1944 due soldati tedeschi requisirono i cavalli di Silvio Papola che erano al pascolo nella zona di Masergi, guardati a vista dal figlio Mario Papola. Mario saltò su una bicicletta e corse ad avvertire il padre che era in paese insieme alla figlia Cristina, che all’epoca aveva 17 anni. Fu proprio Cristina, ricordata come ragazza dalla forte personalità, a convincere il genitore e il fratello a recarsi a palazzo Pica Alfieri, dove i cavalli erano stati portati, per farseli riconsegnare. I tedeschi intanto avevano requisito altri cavalli fra cui quelli di un giovane onnese. Anche lui corse a palazzo Pica Alfieri per riavere indietro i suoi animali. Arrivò prima della famiglia Papola, ebbe una discussione con un militare tedesco, ci fu uno scontro fisico e nel parapiglia partì anche un colpo di pistola. Non ci furono né morti e né feriti, ma i tedeschi misero in giro la voce che un loro militare era deceduto. Scattò dunque, immediata, la vendetta. Il giovane si era dato alla fuga ed era sparito nelle campagne (più tardi si recherà con i partigiani sul Gran Sasso). I militari se la presero allora con la famiglia Papola. Silvio e Mario si infilarono in una stalla e per poco non furono colpiti da una raffica di mitra.

Cristina fu catturata, spinta e malmenata lungo le strade del paese con l’obiettivo di farle dire il nome di quel giovane che aveva osato ribellarsi al sopruso. Cristina non parlò e, mentre faceva notte, fu raggiunta da due colpi di pistola al petto. Crollò senza vita al Pinnerone, all’incrocio fra via dei Martiri (allora via del Fiume) e via dei Calzolai dove oggi il terremoto ha cancellato tutto.

La ragazza di 17 anni fu la prima vittima di quei giorni di follia. Ma la sete di sangue evidentemente non era stata soddisfatta. Nove giorni più tardi i tedeschi, che il 7 giugno avevano dato fuoco al paese di Filetto e ucciso 17 persone, pianificarono la strage di Onna. L’operazione fu con molta probabilità condotta dagli uomini della 114 divisione cacciatori comandata dal generale Hans Boelsen.

L’obiettivo strategico era quello indicato dal generale Kesserling, comandante supremo dell’esercito tedesco in Italia, in una direttiva del 7 aprile 1944 con la quale si invitavano i sottoposti a usare il pugno di ferro contro le popolazioni civili che si dimostravano ostili o che aiutavano i partigiani in montagna fornendo loro viveri e materiali. Secondo la logica nazista gli onnesi erano colpevoli sia perché uno di loro si era ribellato (la vicenda dei cavalli) e sia perché da Onna partivano aiuti a quelli che loro definivano ribelli. Intorno alle 17 di una domenica calda ma piovosa Onna fu circondata. Venti uomini furono catturati e portati in una zona all'ingresso del paese (dove oggi ci sono le macerie della scuola elementare). Il prezzo della loro liberazione doveva essere la consegna di quel giovane ribelle. Ma in realtà la richiesta era solo una scusa. La strage ci sarebbe stata comunque. Le donne del paese per salvare i loro uomini condussero dai tedeschi la madre e la sorella del «ricercato». Anche loro furono unite al gruppo delle persone da fucilare. L’esecuzione avvenne nell’abitazione di Biagio Ludovici. La casa fu fatta crollare con le mine.

Altre dieci abitazioni, individuate grazie alla complicità di esponenti del fascismo locale, furono distrutte.

I tedeschi lasciarono a Onna vittime e macerie[/i]”.

Con il ricordo dell’eccidio di Onna e del sacrificio dei nove martiri aquilani termina questa breve ricostruzione dei fatti che portarono al 25 aprile.

Una data che però suscita ancora pareri contrastanti nel nostro paese per le diverse opinioni che vengono espresse e per le diverse ricostruzioni che di quegli avvenimenti sono state fatte in questi settanta anni che appunto ci separano da quella data.

Probabilmente uno degli equivoci che alimenta polemiche e a volte contrasti ancora aspri sta nel fatto che si è ritenuto il 25 aprile festa dei partigiani, mentre essa è in realtà la festa della liberazione sì ma anche e soprattutto della libertà e della democrazie. Riconquistate da un popolo, quello italiano; quindi una festa di popolo.

Una liberazione dal fascismo e dalla occupazione nazista grazie soprattutto all’intervento degli eserciti alleati seppure affiancati dalle formazioni partigiane e con la collaborazione delle comunità locali. Eserciti alleati che nelle operazioni di guerra lasciarono migliaia di morti, feriti e dispersi.

Festa di popolo che è festa per la nascita di una nuova nazione attraverso il riscatto morale, la ricostruzione e l’adozione di una carta costituzionale le cui origini vanno cercate, come scrive Pietro Calamandrei, proprio sulle montagne che avevano accolto i partigiani: “[i]Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati: dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì con il pensiero, perchè lì è nata la Costituzione! Dietro a ogni articolo della nostra Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta”.





 

mercoledì 15 aprile 2015

Ad ovest di Santa Barbara


 

di Valter Marcone

"Santa Barbara amore mio" è il titolo della mia prima raccolta di poesie, pubblicata tanti anni fa.
Quando negli anni ottanta dello scorso secolo sono venuto a vivere a L'Aquila, dopo un breve soggiorno a via Acquasanta ho trovato casa a Santa Barbara. E lì, pur con qualche spostamento, sono rimasto ad abitare fino al giorno del terremoto. Un quartiere che per me è divenuto, nel tempo, il territorio dell'anima, l'immagine speculare di una città.

Il primo insediamento moderno, popolare, a ridosso del centro storico, con esigenze, bisogni e necessità che erano quelli di chi ci abitava. Mezzi di trasporto pubblici, verde attrezzato, traffico da controllare, servizi. Ma anche un incontro di umanità alla periferia di un centro storico (passando per via Roma si raggiungono a piedi i Quattro Cantoni in dieci minuti), una periferia con storie di periferia che possono apparire a volte di confine.

Il blog http://osservatoriodiconfine.blogspot.it/ è nato molti anni dopo grazie però a quella esperienza, nel tentativo di recuperare un mondo che andava scomparendo. Dopo trenta anni, alla fine del primo decennio del duemila, Santa Barbara era un altro quartiere.

Dopo il terremoto sono tornato più e più volte a Santa Barbara e nel silenzio delle finestre buie dei suoi edifici e delle sue strade, a volte ingombre di suppellettili abbandonate, ho riascoltato tante volte quelle voci, quei suoni, quei rumori che ne avevano fatto un quartiere vivo, ricco, una terra alle soglie del cuore, una terra a volte disarmonica eppure piena di accordi ancora vibranti, malgrado lo sconsolato sfacelo operato dal terremoto sui suoi muri, le sue porte, le sue finestre, i suoi giardini inselvatichiti, i suoi pavimenti e tetti schiantati.

Oggi Santa Barbara è stata quasi interamente ricostruita. Dalle voragini degli abbattimenti sono risorte quelle abitazioni, quelle piazzette, quei luoghi che parlano però un altro linguaggio. Sono in sostanza l'immagine anticipata di quello che sarà il centro storico ricostruito dell'Aquila.

Io non tornerò a vivere a Santa Barbara, come molti aquilani non torneranno a vivere a L'Aquila. "Ritorno a Santa Barbara" è dunque un ideale cammino, seppure per momenti e per immagini, per arrivare, con le poesie che saranno pubblicate nelle prossime settimane, ad un nuovo anniversario della data del terremoto nella speranza che siano semi e radici per guardare avanti ma anche per voltarsi indietro e aiutare chi si è attardato, chi non ce la fa, chi ha paura e chi è sfiduciato a riguadagnare il cammino. Che la strada si fa camminando.

Ad ovest di Santa Barbara

Ad ovest di Santa Barbara
ci sono le colline e poi le montagne;
sono venute anche qui
a visitarci le nuvole di Santa Barbara
e mentre mandiamo baci all'aria
diventano un'anima bianca
vestita di bianco con la sua profonda
profonda solitudine dentro.
Sono tornato a Santa Barbara
con una preghiera dentro al cuore,
diceva: dove posi i piedi tu
possa germogliare il colore dell'aria,
il sapore del vento, il calore
della nostra utopia. Se non disegni
la storia oggi non avviene domani.
Santa Barbara è tutta illuminata
nel recitativo delle cose
trattenute come le note dal pedale
d'un pianoforte e se la vita
mi ha trasformato in un vagabondo
a Santa Barbara ritorno
per camminare le alte montagne
le lune e il sole e imparare
a scrivere di nuovo le parole
prato, verde, cicale
per far entrare il giardino nel cielo.
Santa Barbara ti senti forse
una città, una strada?
Tu sei una soffice vela
qualcosa di rosa nei muri
ora raddrizzati, vestita da sposa
da sposa vestita,
smetti però di trasalire dentro, dentro
di te un brivido
per le parole senza tremito
dentro di te deprecazioni di scoperte,
quelle del cuore. Il cuore
sa lui di me
e di te Santa Barbara.

sabato 4 aprile 2015

Dario Antiseri Il sapere umanistico salverà le democrazie




Nonè vero che gli ingegneri possono fare a meno di filosofia, arte e letteratura:a volte un romanzo fa capire più cose di una formula scientifica

Ben pochi, ai nostri giorni, abbracciano ancora il pregiudizio del più rozzopositivismo, stando al quale le discipline umanistiche, diversamente dallescienze naturali, non sarebbero affatto in grado di offrire autenticheconoscenze, nel senso che esse consisterebbero unicamente in cumuli di vuotaretorica o in espressioni di passioni scritte al verbo indicativo. E, tuttavia,come è apparso anche dai recenti «processi al Liceo classico», un’altrainsidiosa e apparentemente convincente accusa è stata sferrata contro lediscipline umanistiche e, di conseguenza, contro una presunta e dannosainattualità del Liceo classico: certo, le discipline umanistiche offronoconoscenza, solo che si tratta di «conoscenza superflua».


                                                                                                             --ooOoo--

L’accusaè pur grave, ma è essa anche valida? Nel suo recente lavoro Non per profitto.Perché le democrazie «hanno bisogno» della cultura umanistica, Martha Nussbaumfa presente che «non c’è nulla da obiettare su una buona istruzionetecnico-scientifica». Ma subito dopo confessa di sentirsi preoccupata per ilfatto che «altre capacità altrettanto importanti stiano correndo il rischio discomparire nel vortice della concorrenza: capacità essenziali per la salute diqualsiasi democrazia al suo interno e per la creazione di una cultura mondialein grado di affrontare con competenza i più urgenti problemi del pianeta». Etali capacità – ella prosegue – «sono associate agli studi umanistici eartistici: la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere ilocalismi e di affrontare i problemi mondiali come "cittadini delmondo"; e, infine, la capacità di raffigurarsi simpateticamente lacategoria dell’altro ».

Da qui, l’imprescindibilità, nella formazione dei giovani, dell’insegnamentodella filosofia, della storia e della letteratura. «Ciononostante – annotaamaramente la Nussbaum – gli studi umanistici, l’arte e persino la storiavengono eliminati per lasciar spazio a competenze che producono profitti chemirano a vantaggi a breve termine». Solo che, «quando ciò avviene, le stesseattività economiche ne risentono, perché una sana cultura economica ha bisognodi creatività e di pensiero critico, come autorevoli economisti hannosottolineato». E tra questi – e non è il solo – c’è il premio Nobel perl’economia Edmund S. Phelps, il quale soltanto pochi mesi fa ha ribadito che«le economie oggi mancano di spirito di innovazione.

I mercati del lavoro non hanno solo bisogno di maggiori competenze tecniche, marichiedono sempre più soft skills come la capacità di pensare in modo fantasioso,di elaborare soluzioni creative per risolvere problemi complessi, di adattarsia circostanze mutevoli e a vincoli nuovi». Ed ecco, allora, che «un primo passonecessario è quello di reintrodurre le materie umanistiche al Liceo e nei corsidi studi universitari. Studiare letteratura, filosofia e storia saràd’ispirazione ai giovani che aspirano a una vita ricca, una vita che permettaloro di offrire dei contributi creativi, innovativi alla società». Viene qui dachiedere a tutti gli scientisti e a quegli economisti nostrani con toga dapubblici ministeri nei processi al Liceo classico: è in errore Phelps? Sonosulla cattiva strada Stati come la Cina e Singapore, dove sono state attuatevaste riforme dell’istruzione tali da conferire maggiore centralità agli studiumanistici sia nell’istruzione di base che in quella superiore? «L’arte e lastoria – ha scritto Ernst Cassirer – sono gli strumenti più validi perun’indagine sulla natura umana. Senza queste due fonti di informazione, checosa si potrebbe conoscere dell’uomo? [...] Sia la storia che la poesia sonoorgani per la conoscenza di sé, strumenti indispensabili per la costituzionedel nostro universo umano».

E, con Cassirer, Noam Chomsky: «Si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomoe sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica». Ladispotica dicotomia tra "cognitivo" (o scientifico) ed"emotivo" (o artistico) è, come ha mostrato Nelson Goodman,semplicemente inconsistente: «L’esperienza estetica e quella scientifica hannoentrambe un carattere fondamentalmente cognitivo». Ebbene, di questo ingentepatrimonio di "conoscenza artistica", della portata formativa della"disputa filosofica", della consapevolezza offerta da quel saperestorico senza del quale non sappiamo chi siamo e come siamo diventati quelloche siamo, ebbene, di tutta questa umana ricchezza intellettuale e moraledobbiamo forse defraudare i nostri giovani e soprattutto quelli che, lasciandoil Liceo scientifico, frequenteranno corsi universitari ad esclusiva improntatecnologica e naturalistica?

È fuor di dubbio vero che non si può essere ricchi e stupidi per più d’unagenerazione, per cui è pienamente giustificata l’attenzione alla ricerca e allaistruzione tecnico-scientifica. Ma poiché «nulla vi è di più pratico che unabuona teoria», sarà bene tener presente quanto ammoniva John Dewey, e cioè che«non ci si guadagna molto a tenere il proprio pensiero legato al palo dell’usocon una catena troppo corta». Da qui una doverosa e attenta riflessione sul dibattutoproblema dei rapporti scuola-lavoro, nel preciso senso che dalla scuola nondovrebbero uscire giovani che abbiano appreso un mestiere, ma giovani che sianoin grado di poter cambiare mestiere. D’accordo, potrà, a questo punto, forsedire anche più d’un incallito "scientista"; solo che costui siaffretterà ad avanzare la proposta che i giovani del Liceo classico venganoalmeno liberati da quella antica e mai scongiurata tortura costituita dalle"infinite" e "inutili" versioni di greco e di latino. Eppure,guarda caso, fu proprio un matematico ed epistemologo come Giovanni Vailati adaffermare che l’insegnamento del latino nelle scuole secondarie italiane«rappresenta una opportunità unica, e della quale avremmo gran torto di nontrarre tutto il possibile partito».

Ma, a parte questa autorevole testimonianza, quanto sull’argomento va fattonotare è che, se sono nel giusto Popper e Gadamer (e non solo loro,ovviamente), allora pratiche didattiche tradizionalmente legate alle disciplineumanistiche come il tema argomentativo, il riassunto, tentativi di storiografialocale e soprattutto le versioni di greco e di latino sono autentico lavoro diricerca, lavoro scientifico in quanto soluzioni di problemi e non esecuzioni diesercizi. E se l’esercizio addestra, è il problema che forma. E, allora, nonsarà che – laddove gli esercizi, per esempio di matematica o di fisica, vengonotante volte camuffati da problemi – in qualche Liceo scientifico della nostraPenisola, l’unica pratica scientifica resta la versione di latino? (D.Antiseri)

Fonte: Avvenire, 5 febbraio 2015

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