sabato 31 marzo 2012

AUTODAFE’ : Croce e le radici abruzzesi

AUTODAFE’ : Croce e le radici abruzzesi

Di fronte alla multiforme e complessa eredità culturale lasciataci da Benedetto Croce, possiamo ben dire, a mò di premessa giustificativa, che la ricerca delle sue radici sia una questioncina secondaria, se si vuole, ma non di poco conto. Noi crediamo che, in questo come in altri casi analoghi, anche i più piccoli tasselli, se messi al posto giusto, contribuiscano a ricomporre il complicato mosaico di una personalità, la cui grandezza si misura dall'insieme della figura, senza dubbio, ma può trasparire anche da singoli particolari. Lo stesso Croce, in fondo, pur immerso nelle intricate problematiche dello spirito, non ha disdegnato di cimentarsi su tematiche di minore rilevanza, dimostrando COSI che anche le piccole cose sono degne di estrema considerazione. Si pensi ad esempio, alle monografie che egli ha voluto dedicare ai "due paeselli d'Abruzzo" che si portava nel cuore, Montenerodomo e Pescasseroli, pubblicate in opuscolo e poi aggiunte in appendice ad una delle sue opere maggiori, la Storia del regno di Napoli (1925). Le due monografie, piccole cose - ripetiamo - rispetto alla sua produzione complessiva, davvero monumentale per vastita e profondità, ven¬gono solitamente citate non solo come modelli di ricerca storica del genere municipale o provinciale, ma anche, e diremmo soprattutto, perche sono di
per se una indiscutibile testimonianza d'amore per la propria terra d'origine e contengono, pertanto, le motivazioni interiori che ci consentono di risalire alle sue radici abruzzesi.
La monografia su Montenerodomo s'intitola esattamente Storia di un comune e di due famiglie. Dedicandola al cugino Vincenzo Croce, l'autore dichiara di voler COSI assolvere ad "un vecchio debi¬to", assunto in cuor suo da gran tempo, fin da quando venne
"ripensando ai comuni ricordi, alle immagini dei nostri maggiori e alla terra da cui prendiamo origine". Ricostruita meticolosamente la storia, avviandosi alla conclusione lascia intendere chiaramente di aver soddisfatto un suo antico desiderio col risalire, lungo tutto l'albero genealogico, ai suoi antenati e, ancor più, d'essersi impegnato a " ritrovare nel fondo del suo essere qualcosa che lo ricongiungesse a loro, una regola, un istinto, una passione, un palpito",
ma riusciva ad ottenere soltanto "una consapevolezza debole, intermittente e sfuggevole, laddove ritrovava prontamente quando lo congiunge, con tanta molteplicità di legami e con tanta prepotenza, al vivo presente". Di qui, nel profondo dell'anima sua, un senso di smarrito stupore, che sarà bene cogliere dalle sue stesse parole: "E pensavo non senza malinconia (COSI mi pareva a volte di essere straniero e diverso), che forse l'uomo, piuttosto che figlio della sua gente, è figlio della vita universale, che si attua di volta in volta in modo nuovo; piuttosto che filius loci, è filius temporis". Non voleva essere questo, ovviamente, un negare o rinnegare i rapporti con la propria terra e con la propria gente, ma piuttosto un riconoscere come preponderante il fattore temporale o epocale nella formazione dell'uomo. Una verità, questa, divenuta quasi assiomatica nella credenza comu¬ne, in considerazione della peculiarità
esistenziale che la diversità delle ere storiche ha comportato e comporta nel cammino della civiltà.
Più varia e più ricca di argomentazioni appare la seconda mono¬grafia su Pescasseroli, dedicata ad un altro cugino, Erminio Sipari, del ramo materno. Ricostruita dapprima la storia del comune dal medioevo all' 800 (l'età feudale, le signorie degli Avalos e i De Sangro, la fine della feudalità e l'avvento della nuova borghesia), il Croce poi si sofferma, in un lungo capitolo, su quelle che chiama le "memorie domestiche" e si abbandona a questa confessione:" ... leggendo nei libri parrocchiali e nei registri dello Status animarum i nomi e le date (che riporta integralmente) ... sento i documenti toccarmi ora come cose vive, vedo risorgere immagini e ricordi della mia fanciullezza". A quel punto, con particolare tenerezza rievoca la figura della nonna e della madre, con i loro racconti "di cacce avventurose, d'incontri con briganti, di terrori, di pericoli scampati". Le descrizioni dal sapore favolistico trovavano un terreno fertile nel suo animo, per via delle avide letture di "romanzi storici di costume medioevale e feudale e di imprese guerresche", fornitigli dalla madre, che in abbondanza ne leggeva per suo conto, "nelle sere di inverno accanto al fuoco". La perdita della nonna "in età ancor giovane" gettò la famiglia in una cupa desolazione: delle quattro figlie, due presero il velo monacale, un'altra si ritirò in convento senza prendere i voti; solo l'ultima nata, Luisa, si sposò e sarà madre di Benedetto.
Dei due figli maschi, Francesco e Carmelo, il primo, sui venti anni, mentre studiava giurisprudenza a Napoli, pubblicò un volumetto di poesie, de intonazione tardo-romantica, in cui "ricordava il suo paese, la casa, la madre, le sorelle, la libera vita per i campi e sulle montagne". Rileggendo questi versi a distanza di molti anni, il Croce, divenuto ormai critico esigentissimo e dai più temuto, li ascrive ai "luoghi comuni della letteratura del tempo", ma attribuisce al "romantico adolescente" la capacità di riecheggiarli "con tanta fede e con tanta candidezza, che fanno bensi sorridere, ma non dispiacciono, e quasi quasi piacciono". Il giovane poeta, fatto-
si adulto, sarà sindaco di Pescasseroli e, nell'intento di illustrarne l'impegno amministrativo, il Croce ripassa dalla "memoria di famiglia alla storia civile", indugiando sulle condizioni dei contadini, sul fenomeno del brigantaggio, sulla prima emigrazione dell'Italia post-unitaria, sulla conversione al protestantesimo degli emigrati di Pescasseroli in America e sull'eco che se ne ebbe in una ode di un poeta popolare, ispirata al "contrasto di due comari, l'una delle quali ha il marito cattolico e l'altra evangelico, nell'occasione che il sindaco aveva ordinato di adibire la vecchia chiesa si Sant'Antonio a uso di scuola".
Il poeta popolare si chiamava Cesidio Gentile e il Croce gli dedica un intero capitolo della monografia, intitolato Un pastore poeta. Dal profilo che ne traccia con particolare interesse, si comprende che il grande critico ne seguì le vicende con sincera simpatia, dandone alcuni dettagli che gli parvero degni di attenzione, come questi: avviato al mestiere fin da ragazzo, apprese da se a leggere e a scrivere, fino a comporre per tutta la vita versi "in tutti i metri, di tutti i generi e su tutti gli argomenti, politici, morali, religiosi, satirici, burleschi, narrativi, epici, autobiografici. Uomo "onestissimo", lo chiamavano "jurico", ossia "cerusico, perché suo nonno era stato un pastore molto noto come medico di uomini e di animali"; sempre "travagliato dalla sfortuna", fu ben voluto da tutti che i suoi scritti passavano di famiglia in famiglia e perfino "per gli stazzi dei pastori" (l'autore di queste copie note ha potuto leggerne qualche copia degli originali, custodita ancora dai nipoti). Gli argomenti trattati da [urico erano i più disparati, ma concernevano in particolare modo le "vicende municipali, morali e sociali" del paese e, soprattutto, la vita pastorale, descritta con stretta aderenza alla realtà, fatta spesso "di bufere e di geli e di disastri e d'incontri con lupi e orsi".
Può sorprenderei il fatto che un critico di COSI alta levatura come Benedetto Croce, che era stato severo perfino con Dante e Leopardi e con Pascoli e d'Annunzio, si sia degnato di prestare ascolto ad un poeta pastore, che gli sembrava avesse "Ietto moltissimo" (addirittura Omero e Dante, Tasso e Ariosto), pur senza padroneggiare la lingua, tanto che scriveva "con fantastica ortografia, di pronuncia dialettale". A liberarci dalla sorpresa valga la confessione conclusiva dello stesso Croce: "E a me è piaciuto dare notizia particolare di questo poeta pastore - che richiama alla memoria un altro dello stesso mestiere, nato tre secoli fa poco lungi da Pescasseroli, Benedetto di Virgilio di Villetta Barrea, pastore e bifolco dei padri gesuiti, e compositore di poemi sui loro santi, - perche i suoi versi serbano una forte impronta paesana, e anche perché offrono un esempio del come si formano le storie, le leggende, i contrasti diffusi tra il popolo, per opera di semiletterati, che fan quasi da mediatori tra la letteratura colta e i sentimenti e concetti popolari". Il capitolo finale della monografia riguarda il "presente" di Pescasseroli, cioè i primi anni del '900, nel corso dei quali le condizioni del paese sono divenute "prospere per noti benefici arrecati dall'emigrazione, e poi anche per l'elevamento dei lavoratori agricoli" come pure dei pastori, la cui attività è rimasta la principale della popolazione. L'autore finisce con l'auspicare che, con l'istituzione del parco nazionale come ente autonomo a spese dell'associazione Pro montibus (di cui si era fatto promotore il cugino ing. Erminio Sipari), Pescasseroli potrà aspirare a diventare una "stazione climatica" e affrontare i problemi della nuova vita che si sta già profilando: "problemi di accresciuto benessere, di progredita civiltà, e ben più alti di quelli nei quali si trascinò per secoli la sua vita di piccolo paese feudale, sperduto tra le montagne e quasi inaccessibile".
Le monografie di cui si è fatto cenno, sarà bene ricordarlo, recano rispettivamente le date dell'agosto 1919 e del novembre 1921. Benedetto Croce stava raggiungendo il culmine della sua notorietà di filosofo e critico letterario, avendo già pubblicato alcune delle sue opere maggiori: Estetica, 1902; Logica e Filosofia della pratica, 1908; Problemi di estetica, 1910; Saf!j!,i sulla letteratura italiana del Seicento, voI. I, 1911; La letteratura della nuova Italia, 6 volumi a partire dal 1914; Teoria e storia della storiografia, 1917; Nuovi saf!j!,i d'estetica, 1920; La poesia di Dante, 1920; e altro ancora. Con una produzione COSI intensa e prestigiosa al suo attivo, non è da credere che egli intendesse, con i due piccoli lavori, rendere un omaggio puramente formale alla memoria dei suoi avi, paterni e materni. Nelle sue parole, infatti, si avverte spesso un "palpito" che è tipico di colui che ricerca e scopre le proprie lontane radici e se ne sente ben fiero, nel suo intimo, anche se le vicende della vita lo hanno portato altrove fin dall'adolescenza (prima a Roma, com'è noto, per gli studi; poi a Napoli, dove si stabilisce con la famiglia e resterà fino alla morte). Per rimuovere ogni dubbio in proposito, ci sovviene un documento di straordinaria rilevanza, dello stesso anno 1921: il discorso che il Croce pronunciò agli "amici di Pescasseroli" in occasione di una sua visita al paese natio, programmata e rinviata più volte nel timore che il paese reale non corrispondesse a quello sognato con i racconti della mamma. Stranamente, anche da adulto, egli aveva continuato a immaginare Pescasseroli come "un paese di fiabe", in cui appariva dominante la figura di sua madre. Ma poi, ricostruendone la storia, aveva superato il divario tra sogno e realtà, convincendosi che il paese non poteva essere "un semplice oggetto di fantasticherie". Vissuto per decenni a Napoli, "il figliuolo dei monti" si era fatto "napoletano", assimilando modi e comportamenti di quella popolazione. Eppure, nel profondo del suo essere qualcosa richiamava le antichi radici. Illuminanti, a tale proposito, le ultime parole del discorso, che vogliamo riportare integralmente: "A Napoli ho svolto la mia attività di uomo di studio, tra compagni carissimi e giovani che mi si son fatti spontanei discepoli. Eppure io ho tenuto sempre viva la coscienza di qualcosa che nel mio temperamento non è napoletano. Quando l'acuta chiaroveggenza di quella popolazione si cangia in scetticismo e in gaia indifferenza, quando c'e bisogno non solo d'intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà ferma e di persistenza e resistenza, io mi son detto spesso a bassa voce, tra me e me, e qualche volta l'ho detto anche a voce alta: - Tu non sei napoletano, sei abruzzese! - e in questo ricordo ho trovato un po' d'orgoglio e molta forza."
A supporto di quel discorso, citato un po' da tutti, che si potrebbe sospettare come dettato dalla circostanza della visita e dall'accoglienza festosa avuta dai compaesani, c'e un documento finora sconosciuto ai più perche pubblicato da qualche anno in un giornale di provincia ("Vasto Domani", dicembre 1993), cìoe lontano dai circuiti della grande diffusione. Si tratta di una lettera personale, scritta a Sorrento il 4 agosto 1944 e indirizzata ad un amico vastese, il dott. Tommaso Bile, tornato dal Venezuela in Italia. Leggiamo un paio di brevi passi attinenti al tema che qui ci sta a cuore: "Carissimo sig. Bile, Ella torna negli Abruzzi e io vorrei che portasse il mio saluto non solo agli amici che ho cola, ma agli Abruzzesi tutti. Abruzzese io sono, ma non solo per padre e per madre, ma per essere nato sopra una delle vostre montagne, a Pescasseroli, e per avuto i miei antenati, e ancora oggi i miei parenti, in un altro paesello, anche esso su una altura, Montenerodomo, che, rimasto sempre intatto da guerre nei secoli, ora la rabbia tedesca ha raso al suolo, facendo saltare con le mine la nostra antica casa, che era la più bella in quel luogo." Ricordato, poi, di aver avuto "vaghezza di rintracciare la storia" della sua famiglia con le monografie sopra citate, continua in questi termini:
"Come vede, mi son lasciato andare con Lei a ricordi a me cari, e forse anche troppo divagato; ma volevo dirle che, di sopra tutti questi ricordi, e in me grande la stima per la gente di Abruzzo, per la robustezza e insieme l'equilibrio del suo intelletto, per la rettitudine del suo animo, per la semplicità del suo costume, e vedo in essa una forma benefica nel presente e nell'avvenire." E siccome si era nell'agosto del 1944 (da un paio di mesi era caduto il fronte di guerra Cassino - Ortona e l'Abruzzo, insieme al Lazio e Roma, si era appena liberato dall'occupazione tedesca), il Croce esorta il popolo abruzzese a battersi per un radicale rinnovamento dell'Italia e dell'Europa:" E per quest'alta idea che io ho degli Abruzzesi, auguro di tutto cuore che essi apportino il loro energico contributo nella presente gravissima e dolorosa condizione della nostra Italia, che dobbiamo salvare, e salveremo, per la nuova età che ora si apre della nuova vita europea e mondiale. Bisogna dunque che essi accolgano in se la passione politica, per aspro che sia il travaglio, e accettino i doveri che ne derivano." La lettera, come si e detto, e del 1944: Benedetto Croce ha 78 anni ed ha deciso di impegnarsi nella politica tra la file del ricostituito Partito Liberale (di cui sarà presidente), "perche - scrive - altrimenti la mia coscienza mi rimproverebbe". Ebbene, richiamarsi alle radici abruzzesi, in un momento COSI doloroso per la storia d'Italia, non può non avere qualche significato. Ma c'e di più,a sostegno del nostro assunto. E infatti, nel 1948, quattro anni prima della morte, il Croce torna sull'argomento un pò di sfuggita, ma in termini più perentori: in una breve monografia su Petronilla Paolini Massimi, nota in Arcadia col nome pastorale di Fidalma Partenide, contesta la sua denominazione ufficiale di "poetessa romana" e ne rivendica l'origine marsicana. Sarà opportuno riferirne le parole testuali, a scanso - come si suoi dire - di ogni possibile equivoco: "Di recente ( ... ) la Petronilla Paolini Massimi e stata notata e distinta per certa sua sincerità e virilità tra le altre rimatrici arcaiche, con le quali andava alla rinfusa. Il Filicaia l'aveva denominata la poetessa romana, e così si ripeteva generalmente, ma era veramente abruzzese, anzi mia compaesana, della Marsica, della famiglia Paolini di Magliano, feudataria di Ortona e di Carrito, ed era nata nel 1663 a Tagliacozzo capoluogo di un feudo dei Colonna." Crediamo, a questo punto, che vi siano ragioni più che sufficienti per correggere o almeno integrare la qualifica corrente del Croce "napoletano" con quella di "abruzzese-napoletano": abruzzese di nascita (e non solo, come si e visto), napoletano di adozione.
E qui ci sia consentito di insistere: richiamandoci alla nostra premessa, ripetiamo che si tratta di una questioncina apparentemente marginale, rispetto ai grandi temi e problemi che l'eredità crociana solleva: si pensi, fra tutti, al rapporto arte-società nel segno della controversa "intuizione pura"; alla filosofia come "scienza dello spirito", in opposizione al predominio delle "scienze positive"; si pensi ancora alla storia come in eludibile e inarrestabile processo della libertà; alla estrema confluenza degli ideali e degli eventi umani nella visione di quello che lo stesso Croce chiamo "storicismo assoluto"; si pensi, infine, alla sua fede sicura in una democrazia pluralista e alla prospettiva di un assetto europeo in senso federalista; all' ammissione in tarda età, e perciò suscitatrice di commenti non sempre benevoli, del "perche non possiamo non dirci cristiani".
Queste, senza dubbio, e molte altre ancora, sono le vere questioni inerenti al pensiero di Benedetto Croce. E tuttavia noi riteniamo nè inopportuna nè insignificante la ricerca delle sue radici abruzzesi, se e vero, come crediamo di aver dimostrato, che esse vanno ben oltre il dato puramente anagrafico in quanto e lo stesso Croce che a distanza di molti anni, le riscopre e le ribadisce con "orgoglio" esaltando, della gente abruzzese, alcune doti che certamente ritrovava in se stesso e cìoe: la "volontà ferma", la "persistenza" e la "resistenza" di fronte alle difficoltà della vita; inoltre, la "robustezza e insieme l'equilibrio" dell'intelletto; infine, la "rettitudine" d'animo e la "semplicità" del costume.
Non sono queste, a ben riflettere, doti di poco conto, che si possano esibire solo in momenti occasionali della vita; sono, al contrario, doti che suggellano in modo in modo permanente degli uomini nel fluire ordinario del tempo, e tali - in ogni caso - da contraddistinguere il cammino della civiltà di tutto un popolo.

Vittorio Esposito Croce e le sue radici abruzzesi   Regione Abruzzo   luglio agosto 2003

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 31 marzo 2012

SILLABARI : Spreco

SILLABARI  : Spreco

Scrive Dario De Vico su Il Corriere della sera del 30 marzo  in   “Il precipizio è ancora lì”:
“Ci consideravamo in salvo e invece non lo siamo affatto. In estrema sintesi è quanto sta avvenendo in queste ore sui mercati finanziari. Lo spread tra Btp e Bund tedeschi in poco tempo è risalito di 50 punti tornando a quota 340 e quel che è peggio il pendolo si è mosso con la rapidità dei giorni dell'incubo. Il vantaggio, seppur relativo, che avevamo conquistato sulla Spagna si è ridotto a 23 punti. La Borsa di Milano ieri ha lasciato sul terreno il 3,3% ed è stato il maggior ribasso europeo della giornata. Eravamo convalescenti, ci siamo descritti come guariti anzitempo e invece siamo costretti ad arrenderci alla cruda verità: siamo ancora malati. E quel che è più grave siamo ricaduti nei vecchi errori, appena il burrone ci è sembrato più lontano tutto è tornato come prima.
Abbiamo rimontato il vecchio teatrino e ognuno ha ripreso in mano quasi in automatico lo stanco copione di sempre. Il giudizio delle forze politiche si è fatto irridente nei confronti dei mercati dimenticando che abbiamo metà del nostro debito collocato all'estero e dobbiamo comunque nei prossimi mesi rinnovarlo. Il dibattito sulla riforma del lavoro è diventato rissoso e la scelta di usare lo strumento del disegno di legge è stata letta come un segno di debolezza del governo e la soluzione più favorevole alle imboscate e alle lungaggini parlamentari. Si è ricreata nei partiti e nelle forze sociali una sindrome del «liberi tutti», l'interesse generale è sparito dai monitor e si è tornati a sostenere le posizioni più intransigenti o comunque inconciliabili tra loro. La responsabilità è stata messa da parte e la rimozione è stata giustificata con l'imminenza delle Amministrative in una manciata di città! Ma attenzione, il nostro tasso di affidabilità internazionale non è ancora tanto diverso da quello di Atene, Lisbona e Madrid. E se solo il vento dell'inflazione dovesse tornare a spirare, anche solo debolmente, la Bce si vedrebbe costretta a restringere la liquidità piuttosto che allargarla come ha fatto nelle settimane scorse.”
Il teatrino  delle tre Italie . Quella legale che paga le tasse. Quella illegale  che non le paga. Quella criminale. In queste tre Italie  il lupo  perde il pelo ma non il vizio  e chi va con lo zoppo impara a zoppicare. Si tratta del comportamento della politica e del governo tecnico.  La prima. Anzi i primi, intesi come i politici,una volta allontanatisi dal ciglio del precipizio  si comportano come se nulla fosse accaduto o stesse per accadere ( perché può accadere ancora di tutto ). Diciassette anni di questo comportamento e nemmeno la mala parata riesce a  far voltare pagina a questo paese.
Stiamo scherzando con il fuoco . “Stiamo “ perché sembra che una parte di questo paese non ha capito o fa finta di non capire  deliberatamente .  E’ ora di voltare pagina  veramente perché non ci si può permettere collusioni  affari collusi con la politica ,malagente ,corruzione,  tutto intrecciato in un unico inestricabile groviglio.  Non possono più andare a braccetto politici, escort, faccendieri  ,bustarelle, finanzieri poco accorti . Non appena  si allenta la guardia ne accadono di peggio. E dunque anche lo stesso governo tecnico  fino ad ora parco e morigerato ha allentato   la guardia. E il Presidente è stato costretto a tornare sui suoi passi  con una lettera  al Corriere della sera in cui spiegava che  il suo riferimento a politici impopolari e a una politica  disastrata  in fondo non era proprio quello che pensava del tutto .All’interno di uno spreco dal quale anche lo stesso governo tecnico non è esente come non lo è assolutamente la politica  che ha retto le sorti di questo paese.
Lo spreco è lo spreco  della persona in quanto  bene in se stessa , lo spreco della vite in quanto  uniche e irripetibili , lo spreco di una cultura mortificata  e distrutta. Ecco dunque  i suicidi degli  imprenditori ,il precariato, la sofferenza  di chi vede  nel proprio orizzonte disinteresse  da parte dello stato  e della stessa comunità a cui appartiene.

E continua De Vico : “ Come non bastasse, nella stessa giornata di ieri ( 29 marzo )  il ministro Corrado Passera, prima in mattinata ha parlato di una recessione che ci avrebbe accompagnato per tutto il 2012 e poi in serata si è corretto. Lo stesso responsabile dello Sviluppo economico ha spiegato, nel corso dell'audizione parlamentare della mattina, che «si è creato un vero e proprio credit crunch». Peccato che lo stesso Passera, non troppi mesi fa (il 22 agosto 2011) al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, quando indossava la grisaglia da banchiere avesse dal palco scandito l'esatto contrario: «Non vedo attitudine o rischio di credit crunch ». A quale dei due Passera dobbiamo credere, al ministro o al banchiere?
Nell'attesa di sciogliere il rebus le rappresentanze degli imprenditori e degli artigiani continuano a denunciare come le iniezioni di liquidità a basso costo decise da Francoforte non siano arrivate alle aziende. Segnalano che nei giorni scorsi presentando i loro bilanci gli istituti di credito sono stati quantomeno evasivi sul tema. Secondo i dati elaborati dalla Cna, il 24% delle imprese che ha ricevuto cartelle esattoriali da Equitalia vanta crediti nei confronti della pubblica amministrazione ma non ha la possibilità di compensarli e quanto ai pagamenti in ritardo cronico non c'è ancora sul tavolo del governo uno straccio di soluzione. Sommando tutto viene da fare una considerazione amarissima: se esistesse lo spread della serietà correrebbe, purtroppo, più veloce di quello dei Btp.”

Eremo Via  vado di sole  , L’Aquila, sabato  31 marzo 2012

giovedì 29 marzo 2012

AUTODAFE' : Giocando con il velo di Maya

AUTODAFE'  :  Giocando con il velo di Maya

Vi è mai capitato di svegliarvi e di trovarvi negli occhi brandelli di sogno?
Immagini nitide che se stropicci il naso contro il cuscino rimangono comunque lì, a sussurare con insistenza la loro verità, la loro evidente realtà?
Che fare, allora? Se vi chiamaste Chuang-tzu, dopo una densa notte in cui eravate farfalla-danzante-del-colore-dei-sogni-e-dell’arcobaleno, al risveglio non sapreste più se siete uomini che hanno sognato di essere farfalla o farfalle che si sognano uomo.
La favola del filosofo d’Oriente che si pensò farfalla viene evocata durante un memorabile ciclo di lezioni sulla natura della parola poetica (sono gli anni ’60 del secolo scorso, ci troviamo ad Harvard) dall’argentino Jorge Luis Borges (1, pag. 32).
Per tutta la sua vita di uomo e di scrittore Borges non fece altro che domandarsi se fosse uomo o farfalla; ma fu l’interrogarsi di un poeta, non di un filosofo. Vediamo perché.
C’ è un racconto di Borges, nell’antologia Finzioni (2, pag. 36), in cui il protagonista impegna la sua intera esistenza in un esperimento poetico che sembra varcare i limiti di ciò che è razionale lecito all’uomo: poichè ogni uomo dev’essere capace di ogni idea (2, pag. 46), l’artista Pierre Menard sogna di scrivere una seconda volta il capolavoro di Cervantes, di creare un’opera identica all’originale rimanendo però Pierre Menard, senza perdere nulla della sua individualità. Menard ha in fondo intuito la verità del filosofo Schopenhauer: sa che ogni essere umano è in potenza ogni altro, in quanto in grado di travalicare la sua finitezza che è un carcere di determinazioni, di “qui”, “ora” e di “perché”; l’ha intuito, ma si rifiuta di limitarsi a un tentativo di  dimostrazione teologica o metafisica. La differenza è questa – scrive Borges/Menard (2, pag. 41) – che i filosofi pubblicano in gradevoli volumi le tappe intermedie del proprio lavoro, e io ho risoluto di cancellarle.
Gli otto racconti che compongono la prima sezione di Finzioni (intitolata Il giardino dei sentieri che si biforcano) sono l’esplicitazione poetica dei dubbi “metafisici” dello scrittore riguardo al reale; si tratta dell’aspirazione “menardiana” a pensare vivendo e a vivere il pensiero nella scrittura.
Ma cos’ è per Borges finzione?
Se ascoltiamo alle parole di un critico letterario che lo conobbe in vita, Domenico Porzio, scopriamo che per Borges non si dà altra letteratura che non sia fantastica: lo stesso tentativo naturalistico di afferrare una realtà che non esiste (che non esiste in quanto non può essere oggetto di una conoscenza certa da parte dell’uomo), per trasferirla nell’inesistente realtà della pagina mediante l’uso di una scrittura soggettiva, è un’operazione “fantastica” (3, pag. xc).
“Finzione” è dunque ogni forma di scrittura. In questo senso (che rispecchia l’origine etimologica del termine: dal latino fingere, plasmare) “finzione” è ogni creazione umana di un poeta-artefice, condannato al grido universale che rivive il protagonista del racconto borgesiano L’Aleph (4, pag. 897): Arrivo, ora, all’ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia?
“Finzione” è il linguaggio, è l’universo di teorizzazioni sull’Universo che da esso scaturisce: È arrischiato pensare che una coordinazione di parole (altra cosa non sono le filosofie) possa somigliare all’universo scrive il poeta, in un saggio appartenente alla raccolta Altre Inquisizioni, dall’originale titolo Metamorfosi della tartaruga (5, pag. 114). O, con formula più sintetica, in altro luogo fa balenare il dubbio che la metafisica sia un ramo della letteratura fantastica (6, pag.16).
Ma se ogni sforzo conoscitivo, ogni tentativo di costruzione sistematica di una teoria sul reale, e infine ogni creazione letteraria non può dar vita che ad un moltiplicarsi di finzioni; se per quanti sforzi noi facciamo rimaniamo comunque intrappolati nell’immanenza (nel nostro essere-al-mondo, nel nostro essere per natura finiti) di uno scetticismo che nega la possibilità di uscire dalla parvenza (il “velo di Maya” che per Schopenauer ci impedisce di conoscere la realtà) perché dovremmo continuare a domandarci se siamo uomini o farfalle?
Perché Jorge Luis Borges ha continuato a scrivere?
La risposta è che, paradossalmente, costruire parvenze, “ficciones” (giocare in fondo un gioco in cui letteratura e metaletteratura sono una cosa sola), è forse l’unico strumento per sfiorare la verità più profonda del nostro essere uomini … l’unico modo per non abdicare ai noi stessi e alla nostra infinita ricerca! Non è un caso che i protagonisti dei racconti de Il giardino dei sentieri che si biforcano sono volti senza tregua alla creazione di mondi fittizi: il pianeta Tlön, governato dalla legge idealistica secondo la quale l’esistenza del mondo reale è subordinato alla sua percezione da parte di un soggetto (6, pag. 7); l’istituzione della Lotteria, tentativo di “interpolazione del caso” (7, pag. 59) in un universo ordinato dal vincolo di causa-effetto; per non parlare più in generale delle innumerevoli creazioni letterarie (frutto di uno sperimentalismo che assomiglia ad una febbre mitopoietica) che popolano, in un continuo gioco di rimandi interni e di note dalla calcolata ambiguità interpretativa, le otto “finzioni”.
“Il più grande incantatore (scrive memorabilmente Novalis) sarebbe quello che s’incantasse al punto di prendere le sue stesse fantasmagorie per apparizioni autonome. Non è questo il nostro caso?” Io credo che sia così. Noi (l’insidiosa divinità che opera in noi) abbiamo sognato il mondo; l’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, onnipresente nello spazio e fisso nel tempo; ma abbiamo consentito alla sua architettura interstizi tenui ed eterni di assurdo per sapere che è falso"

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, giovedì 29 marzo 2012

BIBLIOFOLLIA : La biblioteca teatrale Burcardo

BIBLIOFOLLIA : La biblioteca teatrale Burcardo

Era l’anno 1997 .Ecco la cronaca di una riapertura .
“Finalmmente  ha riaperto: sette anni per raccogliere i fondi e quattro per i lavori. Oggi,però, dopo questo lungo e faticoso iter, Roma ha di nuovo la sua prestigiosa biblioteca teatrale del Burcardo, tra le più importanti in Italia del settore. II risultato è straordinario. Il palazzetto tardogotico, in via del Sudario 44, alle spalle di piazza Argentina, di proprietà del Comune, è stato completamente restaurato dalla Siae (la Società autori ed editori lo ha in uso dal 1926), che lo ha trasformato in un raffinato e colto luogo di studio e di consultazione, degno di una capitale europea.
«Un centro capace non solo di archiviare e conservare i tesori della tradizione, ma di produrre cultura contemporanea», ha detto il direttore generale della Siae Francesco Chirichigno, mentre il presidente Luciano Villevieille Bideri ha ricordato come si è formata la straordinaria raccolta del Burcardo il cui nucleo centrale deriva principalmente da lasciti. Primo fra tutti il fondo Luigi Rasi, famoso attore e collezionista di fine Ottocento, al quale ne sono seguiti molti altri oltre, naturalmente, acquisizioni e doni. Un lungo elenco che comprende i costumi di scena e gli oggetti di Petrolini, i copioni napoletani dell'Ottocento e del primo Novecento di Minichini, Petito e di Eduardo Scarpetta.
E' un archivio che raggiunge i quarantamila volumi, di cui 252 cinquecentine, duemila copioni, mille libretti (alcuni con dediche di maestri celebri), una collezione di autografi che conta 25.000 lettere scritte da 1.500 protagonisti del mondo del teatro, della musica e delle lettere; ventinovemila fotografie, anche rarissime. Tra i 4.600 dipinti, un ritratto di Pirandello firmato Primo Conti, tra le caricature, 400 pezzi di Onorato. Nella sezione libri si trova un'edizione in latino delle commedie di Plauto, stampata a Venezia nel 1511, alcune preziose edizioni settecentesche di opere del Goldoni acquarellate. In una vetrina del rinato museo si possono ammirare una serie di splendide marionette cinesi del XVIII secolo e alcuni pupi siciliani nelle classiche armature dorate.
«In anni recenti», ha sottolineato ancora Villevieille Bideri, «sono pervenuti i circa tremila volumi appartenuti a Carlo Emilio Gadda, i copioni di Eduardo De Filippo, di Cesare Giulio Viola e di
Luciano Mondolfo». Materiale preziosissimo.
Un posto speciale è stato riservato alla biblioteca di Gadda: due sale del seminterrato dove si trova la sala multimediale. Qui è stato riportato alla luce un pozzo di epoca romana e il pavimento originale del 1100. Di particolare importanza la scoperta di un affresco della fine del Quattrocento che rappresenta la città di Gerusalemme. Tra le curiosità, il ritrovamento dei resti di passaggi segreti che sfociavano nello spazio ora occupato dai camerini dell'attiguo Teatro Argentina.
Anche la storia del palazzetto del Burcardo ha un suo fascino e per gli appassionati di antichità romane rimane fonte di interesse. Fu, infatti, un vescovo tedesco, Johannes Burckardt, a farlo costruire a cavallo tra il Quattro e gli inizi del Cinquecento. Nato a Strasburgo, il prelato si trasferì a Roma nel 1479. Entrato al servizio del soglio pontificio nel periodo di maggiore sfarzo, diventò cerimoniere di ben quattro pontefici fra cui papa Alessandro VI. Dall'edificio si elevava una torre, forse preesistente, che avrebbe dato il nome all'intera zona sulla quale fu trovata l'iscrizione "argentina". Questo aggettivo deriva dal nome antico di Strasburgo, Argentoratum, probabilmente perché Burckardt usava far seguire al proprio nome la qualifica di episcopus argentinensis. Furono i Cesarini, proprietari dell'intera zona, a prendere possesso dell'edificio alla morte del vescovo e ne cambiarono la fisionomia. Purtroppo l'attuale Palazzetto del Burcardo è un pallido ricordo di ciò che fu: i numerosi rimaneggiamenti, gli sventramenti dovuti alla costruzione del teatro Argentina, ne hanno cambiato l'aspetto. Tuttavia, per i romani e per Roma, la sua ristrutturazione e il nuovo allestimento della biblioteca (la Siae ha aperto anche un sito Internet) rappresentano una bella conquista.

Giuseppina Rocca  “A come Amleto Z come zio Vania: riapre, restaurato, il Burcardo  Il Messaggero  17 dicembre 1998

Eremo Via vado di sole, L'Aquila giovedì 29 marzo 2012

martedì 27 marzo 2012

GRAFFITI : Buchi neri

GRAFFITI  : Buchi neri

Otto aree di spreco. Otto buchi neri da cui è afffitta l'Azienda Italia. Emergono dal voluminoso documento della Commissione guidata da Piero Giarda, che è stato consegnato al ministro dell'Economia Tremonti, le indicazioni per la manovra da 40 miliardi che sarà varata a fine mese. Sanità, scuola, università, investimenti pubblici, i settori radiografati: la spesa cresce e i denari potrebbero essere utilizzati in modo più efficiente. Solo la dinamica delle pensioni sembra tenere nel decennio 2000-2009 dopo il boom del passato.
«Una tassonomìa per gli interventi di governo della spesa pubblica», si intitola l'introduzione che dietro un linguaggio elegante, corroborato da una mole di dati e , tabelle, mette nel mirino le aree di inefficienza e le falle della finanza pubblica italiana.
Gli sprechi del primo tipo riguardano le «applicazioni di un fattore produttivo in misura eccedente la quantità necessaria . Caso citato: due impiegati fanno un lavoro per cui uno solo sarebbe sufficiente. La seconda categoria di sprechi, individuata dalla Commissione,è il caso in cui lo Stato paga più del valore di mercato. Un esempio frequente? Lo stesso medicinale ha spesso un prezzo differente da Asl aAsl.

La terza area di spreco è senza appello: «Adozione di tecniche di produzione sbagliate e dunque produzione a costi superiori al costo necessario». La sentenza della Commissione non va per il sottile: lo Stato italiano ha la tendenza «inarrestabile» a utilizzare tecniche di produzione con molta manodopera e pochi macchinari. La quarta reprimenda, si collega alla terza: i servizi pubblici in Italia impiegano modi di produzione «antichi e chiaramente più inefficienti e costosi di quelli che avrebbero utilizzando tecnologie più avanzate e innovative». Un paese che procede come un dinosauro in JurassicPark.
Ma anche un paese dove la pubblica amministrazione non si parla - questa è la quinta area di spreco. L'esempio viene da sanità, istruzione e università. «L'esperienza mostra – sentenzia il rapporto - che le decisioni di spesa su questi tre grandi e importanti comparti non prevedono il criterio di valutazione comparata dei benefici associati all' aumento o alla contrazione della spesa in un settore rispetto all'altro». Segnalano poca lungimiranza gli sprechi del «tipo 6» e del «tipo 7»: i benefici futuri non vengono  rapportati ai costi come è avvenuto negli Anni Novanta con l'Alta velocità ferroviaria e non si conosce la dinamica della spesa in termini reali in rapporto ai servizi prodotti.
Infine lo spreco dell' ottavo tipo che va a colpire al cuore il  nostro sistema di Welfare: «Le politiche di sostegno dei redditi degli individui o delle famiglie bisognose possono generare disincentivi che riducono la crescita dell' economia e trasformano le condizioni temporanee di bisogno in condizioni permanenti di dipendenza». Un j'accuse all' assistenzialismo.
Se queste sono le linee guida di intervento, tre séttori - sanità, scuola e università  vengono scandagliati a fondo. In primo piano la spesa sanitaria: tra il2006 e il 2009 la spesa è cresciuta del 12,9%.contro  un incremento del Pil dello 0,8.
Spicca la crescita del 4,1% della spesa per prodotti farmaceutici, e quella  del 17,6%per1'acquisto di beni e servizi.
L'assegno che lo Stato ogni anno paga per l'istruzione scolastica è pari a 42 miliardi, in termini assoluti non è tra le  più alte dell'area Ocse, ma se si guarda la spesa per il personale ci si accorge che assorbe 1'81,5% del totale contro il 79,2 dei paesi maggiormente industrializzati. E in Italia gli studenti per classe sono meno che altrove: 21 nel nostro paese per la scuola secondaria, 23 in Inghilterra, 24,7 in Germania, 23,2 nella media Ocse.

Fonte Roberto Petrini  Opere supercostose ,farmaci fuori mercato , ecco gli otto grandi sprechi della spesa pubblica. La Repubblica 20 giugno 2011

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 28 marzo 2012

SILLABARI : Biopolitica

SILLABARI  : Biopolitica


Che la democrazia contemporanea sperimenti qualcosa di più che una semplice battuta di arresto - una vera e propria malattia che ne blocca la crescita e ne riduce le potenzialità - è sotto gli occhi di tutti. Una serie di libri recenti, tra i quali il dialogo di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky sulla felicità della democrazia (Laterza), ne indaga genesi e fenomenologia, dal punto di vista dello scarto vistoso tra enunciazione dei principi ed esiti conseguiti. .
Se compito primario della democrazia, uscita vittoriosa nello scontro con i totalitarismi, era l'allargamento della partecipazioni dei cittadini al governo della cosa pubblica, non si può dire che quest' obiettivo sia stato raggiunto.
Al contrario ciò che oggi si registra è una progressiva spoliticizzazione tendente a degenerare, in contesti istituzionalmente fragili come quello italiano, verso forme di populismo regressivo (si veda a riguardo il volume collettaneo La democrazia in Italia, Cronopio).
Ciò detto, resta aperta un'altra domanda di fondo, forse ancora più spinosa perché non riguarda tanto la degenerazione della democrazia, quanto la sua grammatica costitutiva. Ci si può chiedere se non sia proprio questa ad essere entrata in dissonanza con la mutazione profonda che, almeno a partire dalla seconda metà del secolo scorso, coinvolge non soltanto la forma, ma la materia stessa della politica. Mi riferisco a quel salto di paradigma, identificato per primo da Michel Foucault
con il termine di "biopolitica", ricostruito nella sua storia recente e nei suoi effetti di senso da Laura Bazzicalupo in un saggio omonimo (Biopolitica. Una mappa concettuale, Carocci 2010).
Di cosa si tratta? Del fatto che, nelle sue dinamiche, sempre più il potere si rivolge direttamente alla vita biologica degli individui e delle popolazioni. Naturalmente la conservazione e lo sviluppo della vita ha costituito fin dall' origine la cornice e l'obiettivo della politica. Ma con la differenza decisiva che, mentre nella prima fase . della modernità il rapporto tra politica e vita passava per tutta una serie di mediazioni istituzionali; da un certo momento in poi quei filtri sono venuti meno. Da allora il centro della sfera politica, come anche la scena dei media, è stato occupato dalle vicende del corpo - prima confinate nell'ambito della sfera privata, se non nell' ordine della natura - con le conseguenze ambivalenti su cui ha richiamato recentemente l'attenzione Massimo Recalcati .
Ora il problema è che, almeno nella sua forma classica, la democrazia è stata pensata al di fuori di queste coordinate e anzì, per certi versi, in contrasto con esse. Dovendo riscattare
l'eguaglianza dei cittadini dalle rigide distinzioni di ceto e di  censo dell'antico regime, essa ha fatto necessariamente riferimento ad un soggetto puro, astratto da ogni determinatezza concreta, inteso come centro di imputazione formale di diritti e doveri uguali per tutti. E' inutile dire come questa opzione abbia costituito un passaggio essenziale nella civilizzazione umana, di cui è necessario custodire ad ogni costo il nocciolo progressivo. Ciò non toglie che l'universalismo democratico  evidenzi un limite rispetto alla particolarità di condizioni, fisiche e sociali, irriducibili alla fìgura stilizzata della persona giuridica.
Come può, una teoria come quella democratica, incardinata intorno al perno dell'eguaglianza formale, fare fronte ai bisogni e alle esigenze di segmenti socio-culturali non omologabili in una cornice unitaria? Se spostiamo l'attenzione dall'Europa agli Stati Uniti certo non meno democratici di noi - tutte le culture politiche progressiste chiedono il rispetto delle differenze con l'argomento, difficilmente confutabile, che un'uguaglianza davvero giusta non è quella che parifica astrattamente condizioni diverse, ma quella che, al contrario, le compone in un mosaico capace di tenere conto, e anzi di valorizzare, tale diversità. Allo stesso modo immaginare di trattare i profughi che si ammassano alle nostre frontiere con i criteri, necessariamente formali, delle giurisdizioni dei singoli Stati ) con una normativa valida in ogni contingenza, ci fa perdere il contatto con la concretezza drammatica della questione.

Anche da questo lato comprimere la realtà eccedente dei. corpi viventi nella griglia omologante del soggetto giuridico significa spingerli in una zona di nessuno da cui rischiano di non avere scampo. Non è un caso che, nonostante le più nobili intenzioni di coloro che ne fanno uso, la nozione di "persona", dalla sua genesi romana fino a tempi non troppo remoti, ha costituito un dispositivo escludente rispetto ad esseri umani tenuti fuori da suoi confini appunto perché dichiarati non completamente tali  persone potenziali, semi-persone o addirittura non-persone.
E' vero, come ha ricordato in più occasioni Stefano Rodotà, che è in atto un processo di "costituzionalizzazione della persona", orientato a spezzare il guscio dell' astrazione giuridica a favore di una presa in carico di differenze irriducibili, secondo il dettato delle più avanzate costituzioni democratiche, compresa quella italiana. Nella stessa direzione  la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea assegna un rilievo alla condizione specifica dell'infante, dell'anziano, del portatore di handicap, sciogliendo l'indifferenza della norma in una nuova dialettica tra uguaglianza e diversità. Ma si tratta di un percorso appena avviato, che richiede la costruzione di un lessico politico capace di abbandonare, superandole in una nuova sintesi, le dicotomie moderne tra pubblico e priva.to, persona e corpo, natura e storia .

Roberto Esposito  : Corpi contemporanei e vecchie democrazie  La Repubblica 22 agosto 2011

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 28 marzo 2012

lunedì 26 marzo 2012

ET TERRA MOTA EST : La ferita che resta e quelli che non se ne vanno

ET TERRA MOTA EST  :  La ferita che resta e quelli che non se ne vanno



C’era una volta una città che non era una città, ma un ventoso altopiano a 800 metri d’altezza, con un declivio sulla sponda sinistra dell’Aterno, che sgorga non lontano da esso, e poco dopo la sorgente è già impetuoso e pronto ad attraversare l’Abruzzo.
È così dalla creazione, quella piana col declivio, e tale resta fino alla metà del XIII secolo. Per la verità è così bella, col fiume in mezzo, che già vari secoli prima di Cristo sorge qui una capitale dei Sabini, Amiternum, patria di Sallustio, della quale restano imponenti rovine. Conquistata da Roma al tempo delle guerre sannitiche, l’area comincia a gravitare intorno all’Urbe, cui è vicina. Nel 211 a. C. ci passa Annibale e 22 secoli dopo, da uno sbanco di terra, riemerge intatto lo scheletro di uno dei suoi elefanti, ricostruito e ospitato nel museo nazionale, che la città–non–città si è data. Solo che i suoi abitanti non si contentano di un elefante di Annibale, lo vogliono molto più antico, di migliaia d’anni, quando l’altopiano era una savana quasi africana, in modo da potersi chiedere, come Hemingway per il leopardo tra le nevi del Kilimangiaro, cosa ci facciano le ossa di un mammut tra le nevi dell’Appennino.
Poi, alla metà del 1200, ecco che la città, unendo castra e castella, si dà il nome di un grande rapace ch’è tutt’un programma, quanto a regalità e forza, di ciò che la città intende diventare: chiama se stessa l’Aquila. E diventa ricca, commerciando con mezz’Europa in lane, stoffe, ori, argenti, smalti e manufatti. Diventa bellissima: siccome è il tempo in cui lo spirito dell’uomo desidera elevarsi in cuspidi, pinnacoli e merlettate punte in pietra verso l’Alterità – per penetrare l’azzurro e far sentire la sua voce, de profundisin excelsis – si trasforma in una meraviglia gotica.
Ma l’altopiano sorge tra due direttrici di moto della terra che i sismologici chiameranno, secoli dopo, faglie. Nel 1703 le faglie si muovono, molto, e tutta la meraviglia gotica se ne viene giù, sbriciolandosi. L’Aquila stringe le ali. È ferita. Si fa curare dall’azzurro e dal vento. E in 50 anni risorge splendida, barocca. Ridiventa florida. È capoluogo d’Abruzzo.
Nel XX secolo si dota di università, e qui accade una cosa bellissima: la severa città, dal combattivo nome di rapace, si addolcisce e apre le ali, a ospitare decine di migliaia di giovani, che sciamano dopo le lezioni tra le sue antiche vie, piazze, chiese e architetture. È, per eccellenza, una città universitaria. Ma il 6 aprile 2009 le faglie tornano a muoversi, la città crolla in parte o diventa insicura, inagibile, inabitabile. Parecchi studenti muoiono.
L’Aquila pare svuotarsi di giovani, non essere in grado di trattenerli, mentre si va riempiendo di transenne, ponteggi, tiranti, fasce e gli abitanti migrano nelle circostanti new town. Ma l’impressione è fallace. Con la ripresa dell’anno accademico si vede una cosa insperata, che prevale su tante altre, brutte bruttissime, come le speculazioni, i furti e, peggio di tutte, sulla sensazione di abbandono, denunciata dal popolo delle carriole, che si è ritrovato da solo, dopo le promesse e le lacrime a uso telecamere e dopo i trionfalismi di un’annunciata, troppo rapida rinascita: succede che gli studenti non se ne vanno, si riscrivono all’università per il 2009–2010. E non si limitano a guardare, dalle new town, la città. Piano piano ci rientrano, portandosi dietro gli scioccati abitanti. Tornano nei pochi bar aperti. Ricominciano a sciamare lungo le strade e piazze, sin dove possono. Si riprendono i loro luoghi. Si riprendono la città.
La perlustrano come facevano prima del terremoto. L’assaltano amorosamente, la penetrano, la rimpiangono ma non la piangono, perché si piange qualcosa che si ama solo quand’è perduta, e la città non lo è.
L’Aquila non è perduta. È solo transitoriamente retratta e sottratta, come fa sempre, per un po’, dopo i terremoti. I giovani lo sentono. Soprattutto gli studenti non aquilani, divenuti cittadini di una città–non– città mondiale, simbolo della fragilità e precarietà proprie della bellezza.
Perché non se vanno, aquilani e non–aquilani, giovani e vecchi, dall’Aquila? È facile rispondere: perché una città sana e integra, com’era una volta, la si vive, semplicemente, ma la si dà anche un po’ per scontata. Mentre una città che si è rischiato di perdere la si tesaurizza, la si cura, la si protegge e ci si stringe ad essa, dicendosi fortunati di averla conservata. E levando un ringraziamento a quella Alterità da cui unicamente può venire la forza per fronteggiare il presente. Perché l’Aquila ferita la si ama molto di più.
 Fonte  Giovanni D’Alessandro, da Avvenire, 19 mar.2012

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, lunedì 26 marzo 2012

ET TERRA MOTA EST : Smart cities

ET TERRA MOTA EST   : Smart cities


Per Michele Vianello, direttore generale di Vega Park: “ la città intelligente è un luogo dove le persone hanno a disposizione in modo diffuso, condividendola e implementandola, la conoscenza.”
Il mio è il sogno di una città intelligente. Finalmente il Governo affronta in modo non episodico il tema delle città intelligenti. Così ha annunciato il ministro Profumo.
Bene, era ora.
Volutamente non uso il termine smart cities.Se guardate sui motori di ricerca i concetti a cui è associato il termine smartcities (nelle sue diverse declinazioni), trovate prodotti e vendors.  Cosa intendiamo per intelligenza in una città?
A me piace molto dare questa definizione: la città intelligente è un luogo dove le persone hanno a disposizione in modo diffuso, condividendola e implementandola, la conoscenza. In fin dei conti, il web oggi custodisce infinite quantità di conoscenza.
La conoscenza è figlia dei nostri dialoghi e delle nostre attività in rete. Quando utilizziamo Twitter o Facebook per parlare tra di noi della nostra città generiamo conoscenza, quando postiamo un video su You Tube generiamo conoscenza. E così, quando partecipiamo alla stesura di una voce su wikipedia generiamo conoscenza. Rifletteteci bene, anche il contatore automatizzato usato da Enel per verificare l’uso di energia nella nostra abitazione genera conoscenza. Il limite, semmai, è che questa conoscenza non è condivisa.
Questa visione umanistica (olistica)restituisce alla figura umana un ruolo centrale nella città intelligente. Posso sembrare pedante,ma l’idea di città intelligente che si è consolidata è figlia dell’attività dei vendors di prodotti IT.
La città intelligente non è software e hardware, non è un assemblaggio stocastico di “innovazione”.  La città intelligente è il luogo dove gli esseri umani usano consapevolmente (perché la consapevolezza è una facoltà che appartiene solo al genere umano) software e hardware, attingono alla conoscenza condivisa, generano essi stessi conoscenza. La città intelligente è un luogo di governance molto forti. Uso il termine governance perché l’innovazione-veloce e disruptive nell’epoca del web- va governata e pianificata.
I processi di innovazione in un ambiente urbano hanno come protagonisti svariati soggetti sia pubblici che privati. Ecco perché uso il termine governance, un’entità, una condizione figlia di processi di condivisione, di capacità di previsione, di volontà di favorire il nuovo. Che cos’é il cloud computing in una città intelligente. Una semplice repository di dati? Io preferisco parlare di “social cloud”- il cloud computing di una città intelligente – come luogo in cui piattaforme di crowdsourcing mettono in relazione dati che provengono da fonti diverse generando una ricca catena di valore sociale ed economico.
La città intelligente è un luogo dove dati cartografici digitalizzati vengono “mesciati” (mashup)con le notizie rilevate da un sensore della qualità dell’aria rilevate dal nostro iPhone. Questi dati“arricchiti” vengono a loro volta mesciati con i nostri commenti su Facebook, vengono taggati su Flickr. La conoscenza così arricchita e resa disponibile (un cloud pubblico) è la base perché la governante attui scelte consapevoli e condivise.
Cosa c’entra tutto ciò con le scelte che dovrà attuare il ministro Profumo, si chiederanno i più?
Temo fortemente che una visione tutta “macchine” e “software”come quelle oggi prevalenti ci potrebbe indurre in errori grossolani.  Vedo quindi finanziare produzioni di sensori, un pò di QRcode, hot spot wifi.
Ovvioche c’é un disperato bisogno di favorire lo sviluppo di una spesa e di una produzione IT.
Figuratevi se non ritengo necessario- improcastinabile – un investimento massiccio per infrastrutturale le aree urbane. Personalmente non andrei mai ad abitare in un luogo dove non ci sono le condizioni infrastrutturali per essere collegati al web. Ma ciò non sarà mai sufficiente per dire “questo è un ambiente urbano intelligente”. La città intelligente è il luogo che cambia il nostro modo di vivere. Se la conoscenza virtualizzata è diffusa ed accessibile viene meno una delle costanti della città contemporanea. Mi riferisco alla contestualizzazione dei luoghi e del tempo. Oggi, l’idea di attività lavorativa è legata ad un orario e ad un luogo.
Ma, se la conoscenza è disponibile in ogni luogo, viene meno l’obbligo indissolubilmente a legare spazio e tempo. Le attività possono essere decontestualizzate generando benefici immensi per l’ambiente. Questo è il mio sogno, la mia visione di una città intelligente.
D’altronde le volontà di riforma devono essere sorrette da una visione da “pensieri lunghi”.


Ma forse l’alternativa è quella della creatività delle mani. O per lo meno è una pari dignità di azione che serve a recuperare il senso, il significato e il valore di una città che deve comunque rinascere. 

Si dice che i periodi di grande crisi – economica, culturale, di valori – siano il terreno più favorevole per riflettere e mettere in discussione ciò che a lungo abbiamo dato per scontato. Fra i temi che oggi vengono dibattuti c’è l’idea di creatività. Per anni si è diffusa la tesi per cui una nuova classe creativa fatta di professionisti, intellettuali, artisti e designer avrebbe preso le redini di uno sviluppo economico fondato su un’idea di innovazione più legata alla vita degli uomini e meno a quello di progresso. L’idea di creatività continua a convincere. Il problema è che probabilmente dobbiamo rivedere i criteri con cui comporre la classe dei creativi. Certo, c’è chi lavora con le idee, chi sa comunicare, chi progetta e chi fa calcoli. La novità, che Stefano Micelli racconta nel suo libro “Futuro Artigiano. L’innovazione nelle mani degli italiani”, è che fra i creativi dobbiamo aggiungere anche chi grazie al saper fare manuale è in grado di tradurre queste idee in oggetti grazie a tecniche e gesti ereditati dal passato.
Partendo dagli spunti di Richard Sennet e di Mathew Crawford, autori dei best seller L’uomo artigiano e Il lavoro manuale come medicina dell’anima, Micelli propone il racconto di storie di artigiani italiani che non lavorano nelle botteghe dei centri storici, ma che – al contrario – sono parte integrante del funzionamento di gran parte del Made in Italy, dalle grandi imprese del lusso alla meccanica di precisione, dalla moda alla produzione di macchine utensili.  Il libro propone una carrellata sorprendente di competenze artigiane inserite nella realtà imprenditoriale contemporanea, caratterizzate da capacità di rinnovamento e da una nuova consapevolezza. Nel resoconto di Micelli ci sono anche i piccoli: ci sono i modellisti indipendenti che lavorano per le grandi case di moda, gli artigiani che sostengono il lavoro di progettisti e dei designer, i maestri dell’artigianato artistico. Si può rimanere artigiani e rimanere sul mercato senza crescere in dimensione, dice Micelli, ma la scommessa rimane comunque quella di diventare globali.

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, lunedì 26 Marzo 2012

venerdì 23 marzo 2012

COTTO E CRUDO : I padroni del cibo


 
 
 
 
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COTTO E CRUDO  : I padroni del cibo 
LA TERRA E’ UNO STRANO POSTO  Se la guardate con gli occhi di Raj Patel. Le persone in sovrappeso sono un miliardo, mentre 800 milioni sono quelle che soffrono la fame. Ogni anno le multinazionali del cibo mettono sul mercato 15-20 mila nuovi prodotti alimentari, ma nei paesi in via di sviluppo è in corso un’epidemia di suicidi tra gli agricoltori che vanno in rovina per via dei mercati globali.”Per ogni dollaro speso per promuovere alimenti naturali si spendono 500 dollari per pubblicizzare junk food”, spiega Patel. Ma chi è Patel? E perché è diventato famoso? La risposta (minimalista) è: è un sociologo che si occupa del cibo, globalizzato e non, che mangiamo. Ed è egli stesso un prodotto della globalizzazione.Sua madre viene da una famiglia di impiegati pubblici del Kenya, suo padre dalle miniere delle isole Fiji. Lui è nato a Londra, ha studiato a Oxford, ha lavorato alla Banca mondiale e al Fondo monetario di Washington, esperienza che lo ha trasformato in uno dei più agguerriti critici delle due organizzazioni. Un uomo che conosce l’universo mondo, compresi i sapori e i profumi di quel che si mangia.Oggi Patel insegna a Berkeley, in California, e il libro che ha pubblicato, ‘Stuffed & Starved’ (rimpinzati e affamati), in uscita in Italia da Feltrinelli con il titolo ‘I padroni del cibo’, è un bestseller, ed è diventato un testo chiave, lodatissimo anche da Naomi Klein, per tutti quelli che indagano su che cosa sta succedendo al cibo che mangiamo. O meglio, per tutti coloro che sono convinti che è il cibo la chiave del potere (economico, culturale, politico) nel XXI secolo.
L’INTUIZIONE CHE HA PORTATO PATEL A UN TALE SUCCESSO E’ SEMPLICE
Il peccato capitale della nostra economia è avere dimenticato che il cibo non è una merce come le altre . Il cibo è prima di tutto cultura, e lo è per diverse ragioni tutte ugualmente importanti: perché al cibo sono legate tradizioni culinarie antiche, sapori e odori che fanno parte del sentire collettivo, dell’identità e della geografia stessa, ma anche perché l’agricoltura è il necessario complemento di questa tradizione e rappresenta il motore fondamentale delle economie regionali, specie nei paesi poveri.Già il movimento dei no global, di cui Patel fa parte, fino dagli esordi, aveva provato a lanciare questa operazione culturale alla fine degli anni Novanta. Quel movimento, in Occidente, è stato spazzato via dall’11 settembre, dopo una fiammata tra il 1999 e il 2001, da Seattle a Genova. Ma quelle idee hanno continuato a scavare, e in questi ultimi anni la discussione sul ruolo del cibo ha assunto importanza centrale.E non si tratta solo di militanti. Per capire il ruolo che il cibo, dalla sua produzione e fino al nostro modo di stare a tavola, ha assunto nel nostro immaginario, basti citare alcuni film di questi anni: da ‘Supersize Me’, denuncia del fast food di Morgan Spurlock, a ‘Sideways’ di Alexander Payne in cui fare e gustare lentamente il vino è associato all’idea dell’amicizia, a ‘Couscus’ di Abdel Kechiche dove l’ottima cucina rende possibile l’integrazione di una famiglia di immigrati in una cittadina francese in crisi.
E POI CI SONO I LIBRI DENUNCIA
Nel 2001 fece scandalo Eric Schlosser con il suo ‘The Fast Food Nation’, che metteva a nudo le miserie delle grandi catene di ristorazione americane. Poi Paul Roberts, con ‘The End of Food’, ha svolto un’inchiesta sulla fragilità della catena produttiva che porta cibo scadente sulle nostre tavole. Michael Pollan (’In Defence of Food: An Eater Manifesto’) si è scagliato contro una cultura alimentare più attenta alla chimica che alla qualità. E Taras Grescoe, in ‘BottomFeeder’, ha raccontato la crisi ecologica del pesce negli oceani.La novità è che Patel mette insieme tutti i pezzi di questo mosaico in una visione unitaria che comprende gli affamati del Terzo mondo e gli obesi di casa nostra, cercando di capire che cosa è andato storto in un mondo in cui la tecnologia potrebbe consentire a tutti di mangiare decentemente e di mantenere la propria identitàl libro di Patel è stato al centro dell’attenzione anche perché ha previsto con anticipo l’aumento dei prezzi degli alimenti dell’inverno scorso. Quell’evento ha indotto molti economisti a ripescare le previsioni catastrofiste di Thomas Malthus sulla possibilità che la produzione di cibo non fosse in grado di tenere il passo della crescita demografica. Malthus scrisse il ‘Saggio sul principio della popolazione’ 210 anni fa e nel frattempo tutti hanno pensato che quel suo testo fosse stato superato dall’innovazione tecnologica e dalla rivoluzione dei trasporti.E invece, all’inizio del XXI secolo, eccolo tornare alla ribalta come il tema centrale dell’umanità. Patel ci rassicura: Malthus aveva torto. Il cibo non manca, a soffrire di fame sono i poveri che non possono procurarselo, dice, ma per affrontare la questione della miseria bisogna incoraggiare i governi a difendere l’agricoltura anziché obbligarli a distruggerla. Per farlo basterebbe invertire le priorità: capire che il libero mercato dei prodotti alimentari è “una menzogna che ci viene venduta per ragioni propagandistiche”.
IN REALTA’ NEGLI STATI UNITI E IN EUROPA
Le grandi aziende agricole hanno accesso a enormi sussidi da parte dello Stato. Così, quando la Banca mondiale e la World trade organization obbligano i Paesi poveri a liberalizzare i loro mercati, intere culture e modi di vita vengono spazzati via. A maggio Patel, nel corso di un’audizione al Congresso Usa, ha definito lapolitica della Banca mondiale “ignominiosa”. E ha ricordato il caso del Ghana, dove negli anni ‘90 la produzione di riso copriva l’80 per cento dei consumi interni e quella di pollame il 95 per cento. Dopo la liberalizzazione imposta dalla Banca mondiale le produzioni locali sono crollate rispettivamente al 20 e all’11 per cento.E qui si arriva all’altro corno del dilemma: se ci sono tanti affamati, come mai ci sono anche tanti obesi? Semplice, perché la politica che porta una parte del mondo alla fame è nata nell’unico paese dell’universo, gli Usa, che non ha una tradizione alimentare e considera un’assurdità passare troppo tempo a tavola.
SI E’ INSOMMA OBESI PER MANCANZA DI CULTURA
Di identità, perché si ignorano quei gusti che altrove sono l’espressione del territorio e della geografia. Oltre un terzo degli americani non ha la più pallida idea della provenienza di ciò che mangia. Il 20 per cento delle decine di milioni che ogni giorno si nutrono di fast food lo consumano in automobile. Quella cultura ha fatto proseliti e nel mondo la grande M della McDonald’s è oggi un simbolo più conosciuto della croce cristiana.Fame e obesità sono due fenomeni contigui e persino negli Stati Uniti questa prossimità è evidente. Qui ci sono 35 milioni di persone che talvolta nel corso dell’anno non hanno i soldi per comprarsi da mangiare. Ma in maggioranza sono obese, perché quando hanno i soldi si nutrono di alimenti di scarsa qualità: “E questo accade perché sono subornati da una cultura alimentare che incoraggia a mangiare cibo dannoso, che provoca diabete e malattie cardiache”. Le quattro maggiori multinazionali dell’alimentazione controllano il 50 per cento del mercato alimentare. La sola Unilever controlla il 90 per cento del mercato mondiale del tè.Patel ricompone in un’unica logica le battaglie diVandana Shiva, la militante indiana che non vuole cedere alle multinazionali la sovranità sulle sementi, e quelle di Carlo Petrini, il fondatore dello Slow Food che invoca il controllo delle comunità locali sulla qualità del cibo. Sono passati 20 anni da quando il Nobel Amartya Sen pubblicò il suo memorabile saggio su ‘Libertà e cibo’, sostenendo, contro i liberisti alla Milton Friedman, che la possibilità di procurarsi alimenti decenti va considerata una delle libertà fondamentali dell’uomo. Allora Sen parlava del Terzo mondo. All’inizio del nostro secolo la battaglia economica e culturale per il cibo ci riguarda tutti.
fonte : http://www.ilnuovomondo.it
Redatto da Pjmanc http:/ ilfattaccio
Eremo Via vado di sole, L'Aquila, venerdì 23 marzo 2012