mercoledì 30 marzo 2011

CANZONIERE : I mille di Garbaldi , i mass media e la colonna sonora del risorgimento

CANZONIERE : I mille di Garbaldi , i mass media e la colonna sonora del risorgimento


I manuali di storia raccontano che partirono in mille dallo scoglio di Quarto presso Genova su due navi messe a disposizione da privati , destinazione Marsala in Sicilia.

Probabilmente due carrette del mare, due barconi affollati di camice rosse con qualche fucile e sciabola al comando di Giuseppe Garibaldi. Che poi andava in giro, nelle regioni del mezzogiorno di quella che sarebbe stata l’Italia ma che a quel tempo era il Regno delle Due Sicilie , appunto da Palermo a Teano su una cavalla bianca . Chissà se si era imbarcata anche lei sulle navi di Rubattino o l’aveva cercata e trovata in terra di Sicilia. Una cavalla siciliana. Sta di fatto partirono in mille ed era il mese di maggio dei quel milleottocentosessanta. A dicembre , dopo sette mesi, erano diventati milioni.

Raggiunsero l’armata di Garibaldi anche volontari anche dal Gana. A lui dunque si unirono giovani e meno giovani, ricchi e poveri, nobili e plebei. .Lo raggiunsero materialmente partecipando alle scaramucce e alle battaglie ingaggiate contro l’esercito borbonico ma lo acclamarono e lo considerarono loro capo rivoluzionari dei popoli di tutto il mondo che aspiravano a giustizia e libertà. Questi rivoluzionari in ogni paese del mondo fecero parte di un risorgimento ideale questo movimento non solo di idee usando, per esempio i mass media del tempo in modo lotte e di aspettative.


Garibaldi aveva lasciato fare , aveva considerato la crescita di quell’entusiasmo come un fatto positivo per la causa dell’unità d’Italia e anzi aveva incoraggiato i cronisti dell’epoca addirittura a seguirlo sui campi di battaglia.

In quegli anni le tecniche di riproduzione a stampa si erano affinate tanto che si potevano stampare con la litografia disegni, immagini e foto . Fu uno strumento formidabile per informare il mondo intero di quella guerra garibaldina al sud d’Italia per la cacciata dei Borboni e l’annessione al Piemonte del loro regno.

Garibaldi dunque era incline ad invitare intellettuali e giornalisti sui campi di battaglia tanto che la spedizione può essere ritenuta il primo esperimento sul campo degli inviati e reporter di guerra tra i quali il secolo successivo si affermeranno nomi illustri.

Quando Garibaldi entrò a Palermo e poi a Napoli i quotidiani da New York a Londra salutarono con una ovazione le sue vittorie.

Milioni di persone in tutto il mondo furono messe al corrente sull’esito delle sue battaglie e quindi delle sue gesta .

Come migliaia di persone lo acclamarono sul terreno di guerra dove non avevano di fronte un uomo in palandrana e coperto di oro ma in maniche di camicia: la sua camicia rossa,milioni lo sentirono come uno di loro pronto all’estremo sacrificio per il trionfo di una causa giusta.


Insieme con l’aspetto mediatico della spedizione dei mille la storia del risorgimento è stata fatta anche da canzoni , dalla musica popolare che ha poi accompagnato un secolo e mezzo di vita del nostro paese.

La colonna sonora della nostra storia si compone dunque delle canzoni patriottiche sabaude,delle canzoni, salvo eccezioni, dialettali,delle canzoni militari.Delle canzoni cattoliche del '48: «Dell'orda pagana / che ardita ci assale / la plebe cristiana / non teme lo strale». Delle canzoni fasciste, alcune delle quali, piaccia o non piaccia, erano deliziose (come quella contro le sanzioni volute dall'Inghilterra: «Sanzionarni questo / arnica tenace / lo so che ti piace / ma non te ne do»!) o musicalmente bellissime. Come Caro papà: «Anche io combatto, / anche io con la mia guerra / con fede, con onore e disciplina / desidero che frutti la mia terra / e curo l'orticello ogni mattina ... ».

Dunque un crescendo dagli inni garibaldini a “fratelli d’Italia “ alle canzoni delle risaie, dell’Ottocento per arrivare alle canzoni di protesta sessantottine come Contessa di Paolo Pietrangeli: «Sapesse, mia cara che cosa mi ha detto ! un caro parente, dell'occupazione! che quella gentaglia rinchiusa lì dentro! di libero amore facea professione ... » .

E poi anche la canzone «contro». Scritta da mano anonima o da cantastorie, da autori perduti nel tempo o grandi cantautori come Ivan Della Mea, Fausto Amodei, Gualtiero Bertelli, Giovanna Ma¬rini. Cantata da questi o magari da un coro di contadine di Medicina, Bologna. Ma sempre «contro».

Contro gli odiati occupanti austroungarici: «Sia maledetta l'Austria! da un fulmine di guerra ! da un fulmine di guerra! dal cielo e dalla terra». Contro il generale Fiorenzo Bava Beccaris che nel maggio 1898 fece sparare con i cannoni contro la folla in piazza per la «rivolta dello stomaco» ammazzando un'ottantina di milanesi: «Deh, non rider, sabauda marmaglia: ! Se il fucile ha domato i ribelli, ! Se i fratelli hanno ucciso i fratelli, / Sul tuo capo quel sangue cadrà".


E poi contro gli ufficiali col cuore di pietra che nella Prima guerra mondiale. mandavano i soldatini a morire all'assalto dei colli di Gorizia: «O vigliacchi che voi ve ne state ! con le mogli sui letti di lana,! schernitori di noi carne umana, ! questa guerra ci insegna a punir». Contro Mussolini: «Col manganello e con! l'olio di rìcìno ! Conquistò il potere! il boia Mussolin ( ... ). Quando Mussolino! all'inferno andò ! Appena che lo vide! il diavolo scappò». E contro Pietro Badoglio, prima lacchè del Duce «

Canzoni di violenza ottocentesca: «Prima in San Pietro ! e poi in San Paolo! le lor teste! vogliamo far saltar ! e in piazza d'armi! la ghigliottina! le lor teste! vogliamo far saltar». Canzoni guascone: «l tede¬schi par Ravenna ! chi s'met a fer i bul ! con i baffi di Radeschi ! ci vogliam stroppare il cui». Canzoni durissime, come alcune di quelle sessantottine. Canzoni irridenti, come la rassegna dei ministri di un governo degasperìano: «Ministro dei trasporti! è Guido Corbellini: ! se ma¬gna li binari! co tutti i traversini ( ... ). TI feudatario Segni ! Resta all'agricoltura ! nelle nostre saccocce ! vuoi far la trebbiatura ( ... ). Guida la processione, ! con il messale in mano, ! Alcide von De Gasperi, ! cancelliere americano».


Eremo Via vado di sole , L'Aquila,
mercoledì 30 marzo 2011

martedì 29 marzo 2011

INCIPIT : Visioni


INCIPIT : Visioni


Il vino profuma di scorza di arancia. Sulle pagine del libro sfogliate una a una lentamente si disegnano le onde della musica che arriva dall’altra stanza.

E’ la luce tenua e ingenua del tramonto che passa attraverso le serrande della finestra e porta con sé le prime ombre della sera. Ombre che si mischiano con la musica e si imprimono nelle pagine del libro.

Sul palato sento la morbidezza e il nerbo di quelle note di agrumi e la loro persistenza aromatica.


Un bicchiere di vino giallo dorato sul tavolo aspetta. Non so darmi la pena e non vale forse la pena di tentare di cercare un sinonimo per quella sensazione che dentro spinge nel petto. E trasfigura qualcosa da dentro a fuori come un alleggerirsi del peso corporeo per espandersi là dove la musica già ha occupato ogni cosa. Che , visioni poi riportano la sensazione di come quando avendo imparato ad andare in bicicletta da bambini la si è abbandonata per anni e la si riprende d’un tratto. La sensazione è come se non l’avessimo mai abbandonata , meglio lasciata solo da qualche giorno.

E’ l’affacciarsi a ritroso nelle scene del proprio passato che comincia un raccoglimento così perfetto che non necessita di essere condiviso. Un raccoglimento là nella stanza davanti ad un bicchiere di vino ancora pieno sul tavolo e con un libro ormai quasi interamente sfogliato.

Quanto si può stare bene da soli nelle visioni di girare la chiave in una toppa.

Ed ecco la porta aprirsi e dalle pagine del libro apparire lo scoglio di Mompracem . Da ragazzo ho letto di romanzi di Salgari, le storie delle sue tigri sui mari d’oriente.


Da adulto ho poi appreso del tragico suicidio di Salgari il 25 aprile 1911 quasi cento anni fa. Un uomo che aveva viaggiato nei mari della Malesia stando seduto alla sua scrivania per una vita intera. Una vita intera a sognare avventure per quei mari con il cuore allo scoglio di Mompracem.

Sandokan e Yanez de Gomena solcano il mare e la giungla al comando dei tigrotti , spalleggiati dal fedele Kammamuri.

Li ho lasciati che entrambi Sandokan e Yanez , maturi fisicamente sono entrambi sul trono. Il pirata malese , nel romanzo Sandookan alla riscossa si riappoorpria finalmente del regno del padre strappandolo ad un usurpatore. Yanez , fratello portoghese nel romanzo la rivincita di Yanez recupera lo scettro di rajah nello stato indiano dell’Assam .

Ora li ritrovo invecchiati, inflacciditi, in tutti quei regni arabi che devono fare i conti con rivolte e rivoluzioni, con il moto dei popoli che cercano libertà, sempre maggiore libertà.

E stando al libro di Paco Ignacio Taibo “Ritornano le tigri della Malesia” ritornano senza corona e senza regni ma rivali tra loro . A loro Taibo vuole addossare tutte le nefandezze fatte dai colonialisti : quasi un concentrato di tutte le nefandezze di cui è capace il capitalismo predatorio.


Mi viene una sincope di fronte alla complessità di questa storia e preferisco ricordare i grandi amori Sandokan e Marianna, Yanez e Surama, Tremal Naik e Ada.

Quei grandi amori che fanno sognare con la loro parca , solenne, inutile sensualità. Si trattava di una sensualità molto particolare, come per dire priva di passione. Per dirla in due parole si trattava non tanto della passione dei sensi quanto del sentimento dei sensi. C’è una grande differenza e un grande salto di qualità in questa differenza. La stasse differenza e lo stesso salto di qualità tra due persone distese su una spiaggia a godersi la brezza : uno dei due sensualmente tace, emanando così la propria sensualità , l’altro invece sente il bisogno di dire “ Com’è bella quest’aria”

La sensualità di quella scorza d’arancia che racconta nella musica della stanza accanto e nell’ombra di una chiusa passione di sé stessi la particolarità di quelle storie avventurose di libri necessari.

Così fin dall’infanzia Salgari è stato per me una delle forme della felicità. Una mescolanza di appagamento e di appetito , un piacere fisico prima che intellettuale, l’appello ad ascoltarlo senza fine che il cuore faceva alla mente nelle notti insonne alla luce di una lampada dal filamento ahimè non a risparmio.

L’energia elettrica per rischiarare quei caratteri che si presentavano nel buio dell’anima ad un ragazzo che conobbe la letizia per suo temperamento e la versò di suo dentro alla vita tormentata .

E nella giostra delle persone, quelle altre, tutte quella altre che hanno amato allo stesso modo Salgari sono salito per decifrare nella filigrana della passione le vicinanze e le lontananze , gli arrivederci e gli addii , con quelle persone mentre Sandokan e Yanez impegnatia combattere contro il mare, contro la natura , contro gli usurpatori non sono mai venuti inmio aiuto .


Eremo Via vado di sole , L'Aquila, martedì 29 marzo 2011

lunedì 28 marzo 2011

STORIE E VOCI DAL SILENZIO : Carlo Tresca ( seconda par

STORIE E VOCI DAL SILENZIO : Carlo Tresca ( seconda parte )


Il primo grande trionfo politico di Tresca fu l'organizzazione della manifestazio­ne del Primo Maggio del 1900 a Sulmona. Sebbene la polizia gli avesse intimato di non inscenare una vera e propria manifestazione, Carlo aveva respinto queste sollecitazioni e tenuto il suo primo comizio pubblico, che lui avrebbe ricordato

così: "lo non dissi molto e non parlai con eloquenza, ma sentii una serie di ap­plausi e vidi un mare di mani davanti a me in preghiera: sentii che la gente di Sulmona, la mia gente, mi stava ascoltando. Non ero più un ragazzo esuberante-e impertinente. Ero un uomo, ero un uomo di potere, di azione. Che giorno! Non lo scorderò mai" x. Quel discorso fu l'inizio della sua carriera di oratore e di politico. Tresca divenne infatti segretario della sezione dei ferrovieri di Sulmona e poco più tardi direttore del giornale socialista "II Germe" che, pur non essendo l'unico giornale socialista abruzzese, divenne un punto di riferimento fondamentale del movimento socialista. Fu nell'ambito della sua attività politica che Tresca venne arrestato un paio di volte con l'accusa di oltraggio a pubblico ufficiale, scontando due mesi di prigione e divenendo così il primo prigioniero politico di Sulmona e dunque immediatamente un eroe.

Scontata la pena Tresca fu chiamato a Roma da Enrico Ferri per tenere un discor­so al Coliseum. Troppo timido per parlare di fronte ad un pubblico così folto, egli si sedette sul palco in silenzio, mentre Ferri parlava della sua attività a Sulmona tra i ferrovieri e per la prima volta si sentì riconosciuto a livello nazionale. Questa legittimazione non gli impedì nel 1904, in seguito alla seconda condanna a un anno e sette mesi di carcere e d'accordo con la famiglia, di emigrare negli Stati Uniti, anche grazie al sostegno economico di un gruppo di sulmonesi residenti a Filadelfia. Qualcuno ha parlato di fuga da Sulmona, ma pare che in realtà la poli­zia fosse al corrente della partenza e che non l'abbia ostacolata per liberarsi così di quello che era giudicato un pericoloso sovversivo.


Prima della partenza definitiva per gli Stati Uniti Tresca si recò per alcuni mesi in Svizzera dove incontrò Benito Mussolini, allora ancora socialista, che lo accusò di scarso radicalismo, auspicando che l'esperienza statunitense fosse utile a radicalizzare le sue posizioni politiche.

Quando Carlo Tresca arrivò in America, nel] 904, non era completamente solo. Fu infatti accolto dal fratello maggiore, Ettore, che viveva a New York ed era un

medico stimato nel suo distretto. Fin dal suo arrivo Carlo cercò di capire la realtà operaia statunitense e soprattutto la situazione dei lavoratori immigrati.

Dagli anni Ottanta dell'SOO era infatti cominciata negli Stati Uniti l'immigrazione di massa dal Sud Est Europa. Molti erano italiani, in gran parte operai non quali­ficati nelle fabbriche degli stati dell'Est (soprattutto nel settore tessile e dell'abbi­gliamento), ma anche minatori, scalpellini, etc., ed è tra loro che Tresca assunse un ruolo di leadership partecipando alla gestione di alcune delle più importanti battaglie del lavoro dei primi decenni del Novecento.

AI suo arrivo Carlo decise di iscriversi alla Federazione Socialista Italiana legata al Socialist Party of America Y , un partito formato in gran parte da immigrati (nel 1919 costituivano il 53% dei suoi iscritti). Ancora la Federazione non aderiva formalmente al partito Ce non lo farà fino al 1910) e proprio questa indecisione, secondo Tresca, costituiva un pesante fattore di debolezza. Dopo aver diretto per un paio d'anni l'organo della Federazione, "II Proletario", Carlo decise quindi di affiliarsi agli Industriai Workers of the World (Iw'W) - un sindacato industriale nato nel 1905 che, al contrario della più grande centrale sindacale statunitense, l' American Federation ofLabor, organizzava operai non qualificati - donne e neri ­divenendone un leader.

Il suo primo lavoro, nel settore delle costruzioni ferroviarie nel New Jersey, lo distrusse fisicamente e moralmente. La constatazione del degrado a cui i lavorato­ri italiani erano sottoposti grazie all'operato dei boss etnici che, fungendo da in­termediari tra imprenditori americani e lavoratori, lucravano sugli stipendi di que­sti ultimi, lo portò a denunciare sulle pagine de "Il Proletario" l'attività dei boss, la piaga della prostituzione immigrata, la corruzione politica a livello locale. Ab­bandonato "Il Proletario" nel 1906, Tresca continuò la sua attività di pubblicista prima fondando con Giovanni Di Silvestro "La Voce del Popolo", che ebbe però vita piuttosto breve e burrascosa, e poi "La Plebe", con sede a Filadelfia e poi a Pittsburgh. Dotato di notevole eclettismo ideologico, Tresca fondeva i principimarxisti appresi nel corso della sua esperienza politica a Sulmona con quelli espressi da Malatesta e Bakunin, avvicinandosi sempre più all'anarchismo e divenendo amico di Luigi Gallerani, un anarchico anti-organizzazionista. A Pittsburgh, dovè aveva trasferito il giornale, svolse intensa attività di propaganda tra i minatori italiani propugnando la tattica dell'azione diretta.


A partire dall'inizio degli anni Dieci Tresca partecipò in prima persona ad alcuni dei più importanti scioperi del movimento operaio americano e il suo carisma fu riconosciuto non soltanto dal gruppo etnico italiano. Nel] 9] 2 fu chiamato a Lawrence, una cittadina tessile del Massachussetts dove, nelle fabbriche di filatu­ra del cotone, lavoravano soprattutto uomini e donne italiani e dove gli imprendi­tori avevano imposto un forte abbassamento dei salari e un consistente aumento delle ore di lavoro. Lo sciopero di Lawrence, gestito dagli IWW, sarebbe durato parecchi mesi e nel corso del suo svolgimento sarebbero state sperimentate varie forme di lotta mutuate dall'Italia, come l'esodo dei figli degli scioperanti presso famiglie di simpatizzanti, una' tattica usata nello sciopero dei braccianti del par­mense, in Italia, nel 1908, con l'obiettivo di permettere alle donne di partecipare allo sciopero senza doversi preoccupare dei tradizionali compiti di cura nell'am­bito della famiglia. "II pane ma anche le rose" recitavano alcuni dei cartelli degli scioperanti scritti in varie lingue; si doveva battersi per miglioramenti salariali ma anche per la qualità della vita. Sebbene lo sciopero si concludesse con una vitto­ria, alcuni leader italiani, tra cui Joseph Ettor e Arturo Giovannitti, furono arrestati e fu proprio Tresca, che aveva potuto partecipare solo alle battute finali dello sciopero perchè in prigione per oltraggio, a battersi con forza per la loro liberazio­ne. L'anno successivo, i I 1913, Tresca era di nuovo uno dei leader dello sciopero di Paterson, nel New Jersey, una cittadina tessile in cui gli immigrati italiani, per lo più provenienti da Biella, lavoravano nelle filande di seta e in cui di nuovo gli imprenditori avevano imposto diminuzioni salariali e aumenti dell' orario di lavo­ro. Insieme a Big Bill Haywood ea Elizabeth Gurley Flynn - che sarebbe divenu-

ta la sua compagna di vita per un decennio - Tresca guidò coraggiosamente un grande sciopero che venne questa volta sconfitto "'. Ciò nonostante la sua figura di leader operaio ne uscì molto rafforzata, mentre egli continuava la sua carriera giornalistica fondando "L'Avvenire" e poi, nel I 9 I 7, "II Martello" Il, un giornale di stampo esplicitamente anarchico che dirigerà fino alla morte.


Nel 1916 partecipò inoltre a un grande sciopero nelle miniere di ferro del Mesabi Range, nel Minnesota, a causa del quale, accusato di omicidio, era stato condan­nato a molti anni di prigione.

Il suo arresto e la sua condanna crearono un movimento d'opinione internazionale che ebbe ripercussioni molto forti anche in Italia dove, tra il 1916 e i l 1917, si formano comitati pro Tresca e dove furono diffusi capillarmente da parte del Par­tito Socialista e delle Camere del Lavoro, tra cui quella di Sulmona, opuscoli per la sua liberazione 12. Questa forte corrente di solidarietà era data in gran parte dal fatto che Tresca non aveva mai perso i contatti con socialisti e anarchici italiani. Egli del resto non avrebbe mai preso la cittadinanza americana; si sentiva italiano, voleva lavorare in mezzo ai lavoratori italiani e sembra che fino al 1914-1915 la sua conoscenza della lingua inglese fosse abbastanza stentata.

AI momento del!' entrata degli Stati Uniti nella I Guerra Mondiale, nel 1917, "II Martello" si mostrò esplicitamente contrario alla guerra; Tresca fu più volte de­nunciato dalle autorità americane per le sue posizioni antibelliche e il giornale ripetutamente confiscato. Nel 1923, infine, le persecuzioni contro Tresca, che si erano accentuate a causa del suo impegno per la liberazione di Sacco e Vanzetti, si sarebbero tradotte in un arresto (il futile motivo fu la comparsa di propaganda anticoncezionale sul giornale di cui era direttore) e fu addirittura il presidente degli Stati Uniti Calvin Coolidge ad intervenire per ridurre il suo periodo di deten­zione nel Penitenziario Federale di Atlanta, dove era detenuto dal 1925.

La sua persecuzione aveva avuto luogo in un periodo, il primo dopoguerra, che fu definito red scare (la paura dei rossi) poichè la vittoria della ri voluzione bolscevica

in Russia aveva scatenato negli Stati Uniti una forte ondata di anticomunismo che aveva investito sindacati, partiti di sinistra, organizzazioni pacifiste, etc. Il bien­nio 1919-20 era dunque stato segnato da colossali processi che avevano coinvolto socialisti, IWW, e perfino alcuni dirigenti dell' AFL. I perseguitati furono condan­nati a centinaia di anni di carcere e, grazie al rafforzamento di una legge anti­spionaggio del] 917, l '''Espionage Act", molti immigrati radicali furono rimpa­triati.


Quando nel 1921 nacque negli Stati Uniti il Communist Party of America, Tresca, pur rimanendo anarchico (1'assenza di settarismo è del resto uno degli aspetti fondanti del suo carattere), vi si avvicinò collaborando con esso per tutti gli anni Venti.

Con l'avvento del fascismo in Italia, Tresca divenne uno dei protagonisti del mo­vimento antifascista, tanto che secondo molti fu proprio la sua attività ad impedire che a New York, a partire dal] 925, si svolgessero parate fasciste. Tresca fu uno dei fondatori della Mazzini Society, uno dei più importanti gruppi antifascisti ne­gli Stati Uniti; e fu la sua instancabile attività in questo campo a porlo, pare, in una lista nera di persone che il regime fascista voleva sopprimere.

A partire dagli anni Trenta, venuto a conoscenza delle purghe staliniane, Tresca prese sempre più le distanze dal Communist Party. Alcuni giornalisti hanno scrit­to che questo suo allontanamento era dovuto avicende personali - che una comu­nista a cui era sentimentalmente legato fosse stata fatta sparire dalla polizia staliniana -, ma sebbene la sua vita intima sia sempre stata avvolta dal mistero, non è improbabile che ancora una volta storia personale e storia politica si siano intrecciate.


Le sue posizioni di chiusura rispetto al Communist Party rimasero comunque ambigue per diversi anni ed egli appoggiò la politica dei fronti popolari, ma si tradussero infine in un' esclusione dei comunisti dalla Mazzini Society. Certo Tre­sca si scatenò addosso l'odio dei comunisti - che lo vivevano come una minaccia alla loro sopravvivenza - così come quello dei fascisti, ma ciò non conduceva necessariamente all'assassinio politico. La sua equidistanza da entrambi i gruppi fu evidente nella gestione dell'Italian American Victory Council, fondato nel 1942, che aveva come obiettivo la rifondazione politica dell'Italia nel secondo dopo­guerra, e da cui furono tenuti fuori comunisti, fascisti ed ex-fascisti

L'incessante attività di Tresca proseguì fino all' Il gennaio del 1943 (un suo arti­colo per "II Martello" fu pubblicato due giorni dopo la sua morte), giorno in cui venne assassinato in una strada di New York, mentre si recava in una taverna con un amico. La polizia individuò immediatamente l'automobile usata per l'omici­dio, il proprietario e anche il guidatore, un ex-pregiudicato di nome Galante che fu tenuto un anno in carcere e poi prosciolto per mancanza di prove. Fu in seguito la volta di Frank Nuccio, un delinquente di piccolissimo cabotaggio che si aggirava in quella zona nel momento in cui Tresca era stato ucciso, ma anche lui venne rilasciato. Fu infine arrestato un certo Vito Genovese, un capo malavitoso che _ secondo una delle tante ipotesi - era stato assoldato da Mussolini e da Ciano per uccidere Tresca; anche lui venne scarcerato. Rimase dunque aperta l'ipotesi co­munista, su cui non esiste sufficiente documentazione, sebbene negli anni Sessan­ta alcuni abbiano indicato l'assassino di Tresca in una persona che lui ben cono­sceva, un ex-compagno di lotta e agente della Terza Internazionale, Vittorio Vidali, che Tresca aveva accusato per aver ucciso alcuni leader anarchici e trockisti in Spagna nel corso della guerra civile.

L'omicidio rimase dunque avvolto nel mistero, mentre fu immediatamente evi­dente la scarsa volontà del Dipartimento di Giustizia americano di portare a fondo le indagini, che vennero affidate a molti agenti diversi (tra cui alcuni italo-arneri­cani legati al fascismo), ognuno dei quali lasciò il caso irrisolto.

Fu la Memorial Tresca Committee, formata da amici di Tresca - come l'anarchico Aldino Feliciani - e da intellettuali americani, ad inviare una petizione al sindaco di New York, il democratico Fiorello La Guardia, per chiedere con forza ragione

delle indagini. La Guardia rispose soltanto molti anni più tardi quando, ripercorrendo la sua esperienza di sindaco, descriverà il caso Tresca come uno dei buchi neri della sua carriera.

Nonostante dieci anni di duro lavoro, la Memorial Tresca Committe non riuscì a far luce sull' assassinio, scontrandosi con l'evidente riluttanza del Dipartimento di Giustizia a risolvere un delitto, la cui matrice sembrava più politica che malavitosa, che pesava in qualche misura sui delicati rapporti internazionali tra Italia e Stati Uniti.

Nonostante le opacità e la complessità dell'esperienza politica e personale di Tre­sca, il suo nome rimane tra i leader riconosciuti e legittimati dal movimento ope­raio americano e dal movimento antifascista, un fatto assai raro tra gli attivisti italiani, quasi sempre rimasti chiusi tra i muri della comunità etnica di appartenen­za.

Furono dunque molti, al di là delle diverse affiliazioni politiche, a piangerlo. Tan­to che un'amica di Tresca scriverà del suo funerale: "II funerale di Tresca fu tenu­to nella Manhattan Opera House sulla 34° strada, a New York. Anche quell'edifi­cio, che era enorme, era troppo piccolo. Non erano persone alla ricerca di emozio­ni, ma persone in lutto che condividevano un comune dolore e la comune coscien­za che con Carlo un alito vitale era andato via dalle loro vite".


Eremo Via vado di sole , L'Aquila, lunedì 28 marzo 2011

STORIE E VOCI DAL SILENZIO : Carlo Tresca ( prima parte )

STORIE E VOCI DAL SILENZIO : Carlo Tresca ( prima parte )

Nella rubrica “Confini” ho anticipato parte della biografia di Carlo Tresca. Nel continuare a parlare di questo sulmonese mi sembra utile riportare qui il testo di una conferenza tenuta presso la sede del Centro di Servizi Culturali di Sulmona da parte della prof.a Elisabetta Vezzosi tenuta il giorno 20 maggio 1994 , Giorno della memoria e pubblicata negli atti curati da Italia Gualtieri . Il testo è diviso in due parti per una migliore lettura

Quando mi è stato chiesto di tenere una conferenza su Carlo Tresca a Sulmona, pensavo che in città tutti sapessero chi era, ma sono stata immediatamente disillu­sa dagli organizzatori: quasi nessuno lo conosceva; era solo il nome di una piazza. È dunque subito emerso il valore della memoria, importante in un momento stori­co-politico come quello in cui stiamo vivendo, in cui la memoria è stata a tratti negata, ridimensionata, manipolata, come dimostrano le frequenti polemiche sul­l'uso pubblico della storia. È in relazione alla funzione sociale dello storico come veicolo di memoria che questo tipo di iniziative sono importanti, poichè permet­tono uno scambio che sia non soltanto una trasmissione di conoscenze, ma comu­nicazione circolare tra relatore e pubblico, nel tentativo di costruire un evento che vada oltre la semplice commemorazione.

È nella speranza che questo scambio circolare potesse avvenire che mi sono oppo­sta al titolo che inizialmente mi era stato proposto "Tresca a 50 anni dall'assassi­nio". Certo Carlo Tresca è stato assassinato ma la sua morte violenta e mai risolta rischiava di oscurare la ricchezza della sua vita, che pensavo di poter costruire, oltre che attraverso le mie conoscenze, con le parole del pubblico.

Vorrei iniziare con due citazioni che mi paiono estremamente significative.

La prima è di Max Nomad, un amico di Tresca, americano, che ha trascritto una sua controversa autobiografia , la cui autenticità non è mai stata riconosciuta. Scrive Max Nomad nel 1951, a otto anni dalla morte di Tresca: "Egli non era uno di quelli che fanno storia del mondo. Se non fosse stato per il suo assassinio da parte dei suoi nemici politici, il mondo in generale non si sarebbe probabilmente interessato delle sue attività. Il suo campo era ristretto: era il mondo dei numero­sissimi lavoratori italiani negli Stati Uniti". E ancora "La storia della sua vita è in gran parte la storia del radicalismo operaio americano dall'inizio del secolo ad oggi. In certo modo, la sua integrità e vistosa personalità potrebbero servire per simboleggiare la psicologia del militante radicale che non si vende per tutta la vita in qualsiasi specifica associazione o per una specifica teoria. Egli era di volta in volta socialista, anarchico, sindacalista, simpatizzante comunista e, alla fine, un libertario senza dogma, il quale persisteva a lottare ... La morte di Carlo Tresca segnò la fine di uno degli "ultimi mohicani" del radicalismo indipendente" .

La seconda citazione è tratta da un opuscolo intitolato Chi uccise Carlo Tresca? e pubblicato a cura di una Commissione non soltanto di amici ma di personalità del mondo intellettuale americano, la Tresca Memorial Committee: "Tresca amava chiamarsi anarchico. E se questo designa l'uomo assolutamente libero, egli era veramente anarchico. Ma dal punto di vista della dottrina pura egli era "tutto per tutti" e nel suo interminabile vagabondaggio intellettuale non cercò mai approcci effimeri o definitivi ancoraggi teorici"

Credo che queste parole, per quanto frammentarie (tra l'altro pochissimo è stato scritto su di lui), diano la dimensione di quello che è stato Carlo Tresca e mettano in fuga almeno in parte le ambiguità che gli sono state attribuite dopo l'assassinio. Il mistero sulla sua morte è legato al dubbio che potesse essere stato ucciso dai fascisti, dai comunisti (si era infatti allontanato dal comunismo internazionaledopo essere venuto a conoscenza delle purghe staliniane) o dalla malavita, dal momento che Tresca si era sempre battuto contro la corruzione politica. Proprio a Sulmona, all' inizio della sua militanza, egli aveva infatti denunciato la corruzione politica cittadina, un elemento che rimarrà un filo rosso della sua attività politica anche dopo l'emigrazione negli Stati Uniti.

Quando Tresca fu assassinato i giornali parlarono molto del caso, mentre gli stori­ci si sono poco occupati di lui, ad eccezione di Nunzio Pernicone che da anni sta lavorando alla biografia di Tresca, di Philip Cannistraro che ha affrontato l'atti­vità di Tresca nell' ambito del movimento antifascista negli Stati Uniti e di Dorothy Gallagher che ne ha ripercorso la vita e l'assassinio .

Molti si sono soffermati sulle ambiguità di Tresca, credo invece più significativo evidenziare la complessità della sua figura, multiforme, sfaccettata, poliedrica, quella di un uomo che è passato dal socialismo all' anarchismo, all' anarcosindaca­Iismo, al comunismo, all' antifascismo, mai per opportunità di tipo politico o clien­telare. Tresca si è battuto, usando una definizione ormai obsoleta, per la "giustizia sociale", e per raggiungere questo obiettivo solo negli Stati Uniti è stato arrestato e condannato 36 volte. I suoi passaggi di campo sembrano essere il frutto di una natura indomabile e passionale, il segno di una difficile e tortuosa crescita perso­nale e politica. Di volta in volta Tresca si è infatti avvicinato al mondo in cui in quel momento più si identificava. La sua forte personalità, ilsuo innegabile carisma, lo ha portato ad un eclettismo politico che non deve esser scambiato con l'ambi­guità ma con un percorso personale anomalo, talvolta opinabile, ma certamente mai dettato da opportunismo.


Vediamo dunque le tappe dell'esperienza personale e politica di Tresca a comin­ciare dal suo periodo a Sulmona. Carlo nacque a Sulmona nel marzo del 1879. Era figlio di un proprietario terriero e la sua famiglia di sei figli era, almeno al mo­mento della nascita, benestante, a metà tra la proprietà fondiaria e il patriziato urbano. Fin da giovanissimo, a sedici anni, fu attratto dai residui del!' ondatagaribaldina manifestatisi, a fine 800, nell'impresa di un gruppo di militanti guida­ti dal figlio di Garibaldi che si erano recati in Grecia per battersi per la libertà del paese. Se la partenza gli fu impedita, la volontà di unirsi a quel gruppo rimane il suo primo gesto di attivismo politico.

Le scelte di Tresca furono in parte condizionate dalle sue vicende familiari, segna­te da un tracollo economico dovuto in gran parte alla crisi dei rapporti economici Italia-Francia che aveva provocato un blocco delle esportazioni. La famiglia non si ridusse in povertà ma le ambizioni di Carlo, che desiderava andare all'universi­tà e divenire avvocato o medico, vennero radicalmente ridimensionate. Dopo una breve parentesi in cui la madre volle mandarlo in seminario (il che spiega tra l'altro il suo fortissimo anticlericalismo), il padre cercò senza successo di avviarlo ad un incarico pubblico. Sebbene Carlo avesse partecipato ad una serie di concor­si per ottenere un impiego nella Pubblica Amministrazione, sia a Sulmona che in altre zone dell' Abruzzo, a Firenze e in altre parti d'Italia, e si fosse dimostrato intelligente e brillante, non riuscì mai a vincere nè ad inserirsi in una graduatoria. Il padre di Carlo, insospettito, indagò su questi insuccessi scoprendo attraverso un amico che il sindaco di Sulmona aveva inviato alle varie commissioni di concor­so, di volta in volta, una velina in cui lo si indicava come un pericoloso sovversivo.

Saranno proprio queste rivelazioni a segnare una svolta non solo per Carlo, ma anche per suo padre che, pur non avendo mai avversato le posizioni politiche del figlio, certo non le aveva condivise. Fu la progressiva coscienza della corruzione politica e clientelare esistente aSulmona a spingere il padre a scrivere, sotto pseu­donimo, sul giornale pubblicato a Sulmona dal figlio a partire dal 19m, "II Ger­me". Sebbene la sua conversione non sia stata immediatamente evidente per i cittadini di Sulmona, essa lo avvicinerà sempre più al figlio, divenuto socialista. Escluso dagli incarichi pubblici, Carlo seguì dunque l'istinto politico sfruttando le sue doti di oratore e intorno ai vent'anni divenne leader del sindacato dei ferro vieri. Era l'azione diretta ad interessarlo, non la teoria, e la sua energia oratoria avrebbe attratto moltissimi proseliti.


Tresca scelse il sindacato dei ferrovieri non solo perché a fine Ottocento essi era­no i più istruiti, ma perchè costituivano la punta avanzata del movimento operaio italiano. Erano gli anni della repressione crispina e i ferrovieri rappresentavano per il governo una delle maggiori minacce all'ordine sociale. Con giustificazioni di ordine tecnico, legate al fatto che Sulmona stava divenendo un importante sno­do ferroviario, molti ferrovieri del Nord, soprattutto macchinisti, furono trasferiti a Sulmona. Si pensava così di neutralizzarli ma ciò non avvenne e Carlo si unì a loro nei primi tentativi di sensibilizzare l'ambiente di Sulmona al socialismo. Fu­rono infatti i ferrovieri a creare a Sulmona, negli ultimi anni del1'800, un circolo politico socialista mentre Tresca fu il primo sulmonese ad affiliarsi al Partito So­cialista Italiano. Uno dei suoi primi atti fu quello di cercare di sensibilizzare i braccianti, una sorta di missione impossibile visto che a livello internazionale i contadini sembravano refrattari al socialismo. Carlo compì un lavoro ammirevole ed estremamente capillare, approfittando della struttura urbana di Sulmona, che vedeva molti contadini abitare non in campagna ma in una fascia che potremmo definire sub-urbana e dunque pendolare tra campagna e città. I loro luoghi di socializzazione e di ricreazione erano dunque in città: erano le taverne i luoghi in cui Carlo Tresca si recava a parlare con loro quotidianamente.

Vissuto inizialmente dai suoi compagni come il figlio stravagante del grande pro­prietario terriero, la sua forte passionalità politica e la grande serietà, il suo sfidare ogni giorno l'arresto per oltraggio o adunata sediziosa, lo resero figura celebre anche tra i braccianti.


Eremo Via vado di sole , L'Aquila, lunedì 28 marzo 2011

domenica 27 marzo 2011

SILLABARI : LIBERALISMO


SILLABARI : LIBERALISMO

La deriva inarrestabile: l’Italia verso lo statalismo

Arriva in libreria la raccolta degli scritti più importanti di Guido De Ruggiero, il grande storico del liberalismo che lottò contro l’omologazione democraticadi Giuseppe Bedeschi


Guido De Ruggiero (1888-1948) non è stato soltanto il più grande storico italiano del liberalismo, ne è stato anche il più grande teorico. Nella sua Storia del liberalismo europeo (1925) egli ci ha dato infatti, nella prima parte del volume, una bellissima storia del sorgere e del maturare delle idee liberali, mentre nella seconda parte ci ha lasciato una serie di riflessioni teoriche che conservano ancor oggi, a distanza di ottantacinque anni, un interesse e un fascino notevolissimi.

Direi che le riflessioni più acute di De Ruggiero sono quelle dedicate al rapporto liberalismo-democrazia. Il pensatore campano ammetteva che i principî sui quali si fonda la concezione democratica sono la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo. Tali principî si possono compendiare infatti in queste due formule: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità, e diritto del popolo a governarsi da sé (dunque, per questo verso, fra liberalismo e democrazia c’è un rapporto di continuità). Ma De Ruggiero sosteneva poi che sarebbe stato erroneo trarre da ciò la conseguenza di una identificazione completa e senza residui fra liberalismo e democrazia, poiché c’è una diversità profonda di mentalità fra le due concezioni.

Egli sottolineava infatti la grigia uniformità e il conformismo che caratterizzano le grandi società democratiche di massa; i fenomeni di burocratizzazione sempre più estesa che investono la società a tutti i livelli; il diffondersi nelle grandi masse di una mentalità assistenziale, per cui tutti hanno diritto a tutto, indipendentemente dallo sforzo e dal merito individuali, sicché lo Stato viene concepito come il supremo elargitore, che deve garantire il soddisfacimento di tutte le esigenze, senza tener alcun conto degli apporti dei singoli. Acute e profetiche le affermazioni di De Ruggiero a questo proposito. «L’arte - egli diceva - di suscitare dall’interno un bisogno di elevazione, il quale può dare esso solo il senso del valore e dell’uso della conquista, è del tutto ignota alla democrazia, che si appaga di elargire diritti e benefici, la cui gratuità ne costituisce la preventiva svalutazione e la cui non sentita e non compresa utilità ne favorisce la dissipazione».

Queste il pensiero di De Ruggiero nel 1925. In che misura questa ispirazione si è conservata nella sua riflessione nel secondo dopoguerra, quando il pensatore campano aderì al Partito d’azione? Per rispondere a questa domanda è assai utile il libro curato da Caterina Genna, Guido De Ruggiero e La nuova Europa (Franco Angeli, pagg. 396, euro 40), che raccoglie tutti gli articoli pubblicati dal filosofo negli anni 1944-46. È significativo che De Ruggiero mettesse in guardia, nel 1945, verso il liberal-socialismo (un indirizzo dottrinale fondato da Carlo Rosselli negli anni venti del Novecento, e riproposto poi, in modo autonomo e originale, da Guido Calogero e da altri). «Nel liberal-socialismo - dice De Ruggiero - l’accento batte sul secondo termine. E il socialismo non è un nome che possa prendersi in un significato vago e generico, ma è un nome che sottintende tutto un complesso di dottrine e di esperienze ben definite».

In realtà il liberal-socialista è un socialista che vuol giungere alla realizzazione del suo programma salvando, per quanto è possibile, la libertà individuale. «Che questo proposito - dice il filosofo campano - implichi un’attenuazione dei presupposti dittatoriali della sua dottrina è innegabile, ed è anche possibile che esso esiga una revisione dell’originario classismo, ma ciò non toglie che resti intatta la struttura fondamentale del suo pensiero e che l’esigenza della libertà sia in qualche modo secondaria». Il fatto è che il liberalismo dei socialisti è sempre in qualche modo precario e occasionale. «Al vertice della loro concezione starà sempre lo Stato o una data organizzazione sociale, in cui l’individuo, con la sua ragion d’essere propria, scompare. A quegli enti spetterà ogni diritto d’iniziativa, ogni capacità di direzione, ogni autorità d’imporre una disciplina: insomma tutto ciò che in una visione liberale è di pertinenza dei singoli».


L’individuo, la sua attività creatrice nel campo economico e sociale, oltre che nel campo intellettuale e scientifico, i suoi talenti e i suoi meriti, le sue iniziative, i suoi diritti insopprimibili, le sue libere associazioni: ecco i concetti chiave del liberalismo, che li concepisce al di fuori dell’intervento dello Stato, e che nell’estendersi delle funzioni dello Stato vede una costante minaccia. Una concezione, quindi, che il socialismo non può far propria interamente. Il De Ruggiero azionista non se la sentiva di rinnegare questa idea fondamentale, che per la grande maggioranza dei suoi compagni di partito era lettera morta. Si può senz’altro dire che, sotto questo profilo, il pensatore campano era un azionista sui generis, che dell’azionismo non condivideva i presupposti ideali.

(Pubblicato il 20 dicembre 2010 - © «il Giornale»)


NOTA : Il liberalismo

Il liberalismo è una dottrina politica che sostiene la necessità di una limitazione del potere politico a vantaggio della libertà individuale. L’uso del termine liberalismo con il significato attuale risale ai primi dell’Ottocento. Considerando che l’assolutismo è stato messo in discussione con argomenti e idealità tipicamente liberali già a partire dal XVII secolo si possono però già definire liberali i whigs, promotori della seconda rivoluzione inglese, e pensatori come John Locke. Il filosofo anglosassone, infatti, sostenne che un tempo, nello “stato di natura”, gli esseri umani avrebbero vissuto senza una regolamentazione formale della vita comunitaria. Tendenzialmente la convivenza sarebbe stata pacifica, perché gli interessi individuali si sarebbero incontrati armonicamente. Comunque per ovviare alle pur rare controversie e per salvaguardare i propri diritti gli individui si sarebbero riuniti in gruppi convenendo sulla costituzione dello Stato, al quale avrebbero ceduto alcuni dei loro diritti. Avrebbero però mantenuto quelli la cui salvaguardia sarebbe stata il fine del “contratto sociale” [1].

Locke riteneva che i diritti naturali, perciò inviolabili, fossero la vita, la libertà e la proprietà [2]. Nel caso in cui i governanti non li rispettassero perderebbero ogni legittimità al potere e il popolo avrebbe il diritto di destituirli, se necessario anche con una rivoluzione. Affinché questi casi non si verifichino, secondo Locke, è opportuno dividere il potere politico nel potere legislativo, che legifera senza avere i mezzi per fare rispettare le leggi, e in quello esecutivo, che deve tradurre in pratica le leggi, oltre che osservarle. L’illuminista Montesquieu condivise questa divisione, ma aggiunse che anche il potere giudiziario deve essere autonomo.


Il liberalismo, soprattutto rispetto alla cultura dominante fino al fallimento della Restaurazione, si configura come laico e umanista, infatti:

- pone le basi dell’organizzazione politica non in Dio, ma nell’umanità;

- inserisce tra le libertà individuali più importanti quella d’espressione di pensiero, quindi di religione (con l'eventuale eccezione delle religioni pericolose per le istituzioni).

Cominciando dall'Inghilterra, il liberalismo ottenne gradualmente importanti conquiste: i diritti dei sovrani vennero limitati (generalmente da carte costituzionali), vennero istituite assemblee di cittadini eletti che -assieme al sovrano e ai suoi ministri- prendevano parte al processo decisionale, furono messe in atto limitazioni del potere giudiziario a garanzia della persona sospettata (garantismo), la Chiesa perse potere a vantaggio dello Stato (dottrine giurisdizionaliste), furono riconosciuti l’uguaglianza giuridica dei cittadini e lo Stato di diritto, nel quale il cittadino può portare lo Stato in giudizio.

In Inghilterra, reso puramente simbolico il potere del sovrano e degli aristocratici, ci furono coloro che proposero una diminuzione delle garanzie di libertà che lo Stato concedeva ai cittadini, visto che il potere era detenuto dai cittadini stessi. John Stuart Mill replicò a quest'ipotesi sostenendo che lo Stato non deve violare la libertà individuale, perché se lo facesse si tramuterebbe in dittatura della maggioranza, in democrazia illiberale. Per Mill lo Stato deve assolutamente limitare la sua sfera d’influenza alla vita pubblica del cittadino, libero di fare tutto ciò che non danneggia qualcun altro.


Nell’Ottocento i liberali dominarono la scena politica, in un primo tempo combattendo la Restaurazione, poi come forza di governo. A quel punto si distinsero, come forza di opposizione, i democratici. Questi in generale accettavano i principi del liberalismo, ma c’era anche chi, propugnando, come Rousseau, una sottomissione alla “volontà generale”, la democrazia diretta e l’unificazione dei tre poteri, sosteneva forme diverse di democrazia. In linea generale, si opponevano comunque alla maggioranza dei liberali, i moderati: ad esempio, i democratici contestavano ai moderati il suffragio ristretto e il liberismo puro, che ostacola l’uguaglianza sostanziale, non ammettendo un solido ed articolato Stato sociale.

Marx liquidò il liberalismo come un prodotto borghese superabile, dopo una provvisoria dittatura del proletariato (“fase socialista”), con l’annullamento di ogni forma di Stato e di oppressione (“fase comunista”).

Invece altri pensatori di sinistra riconobbero che i diritti liberali, tranne quello alla proprietà se concepito in maniera assoluta, sono un patrimonio della politica moderna legato in maniera indissolubile alla vera democrazia. Si arrivò a parlare di “socialismo liberale”. Nel secondo dopoguerra, alcuni teorici, tra i quali Popper, teorizzarono il “liberalismo positivo” (in opposizione al liberalismo come semplice elencazione di ciò che lo Stato non può fare), favorevole all’intervento dello Stato in alcuni settori considerati importanti per il buon funzionamento della democrazia.

Il liberalismo economico (o liberismo)

Lo stesso ottimismo che portava Locke a pensare che nello stato di natura ci fosse un’armonizzazione tra l’agire degli individui animò la dottrina economica di Adam Smith (1723-1790). Secondo questo economista i soggetti economici hanno come fondamento del loro agire il loro personale rendiconto, ma questo, grazie anche alla concorrenza, è causa del progresso di tutto il sistema economico. Lo Stato dovrebbe così lasciare completa libertà di iniziativa ai privati non condizionando la vita economica, che si regola autonomamente.

Una concezione liberista era già presente in Locke, perché il filosofo ascriveva ai diritti naturali, e perciò inviolabili, anche quello alla proprietà, considerato come conseguenza del lavoro compiuto dal proprietario su un oggetto che primitivamente non era di alcuno. Il proprietario avrebbe avuto il diritto di trasmettere ad altri le sue proprietà. Per Locke questo principio vale “almeno quando siano lasciate in comune per gli altri cose sufficienti e altrettanto buone”.

Spesso si è considerata la libertà economica come essenziale per la realizzazione personale.

[1] Una visione di questo genere è stata definita “contrattualistica”, in quanto pone il fondamento dello Stato in un contratto.

[2] La dottrina che accetta l’esistenza di diritti naturali è detta “giusnaturalismo”.

Fonte Elaborazione da “Dizionario di politica” di Norberto Bobbio e Nicola Matteucci

Eremo Via vado di sole, L’Aquila, 27 marzo 2011


LUOGHI E NON LUOGHI : ( II) Sulmona Davanti al muro di un grande convento S. Chiara

LUOGHI E NON LUOGHI : ( II) Sulmona Davanti al muro di un grande convento S. Chiara


Alla prima svolta della circonvallazione, appena dopo Porta Napoli, come sgusciando all'improvviso dal torpore nel quale la distrazione degli uomini li fa vegetare, ecco farsi avanti un brandello di muro della cinta antica, il campanile della chiesa di S. Chiara, il "ricovero” .Sfiorati dall'occasione inattesa che sembra ridestarli al piacere di uno sguardo amico, si scrollano lesti di dosso il velo opaco imbastito dal rosario di giorni sempre uguali, ravvivano fattezze e colori propri e si dispongono, come se il nostro incontro fosse una festa, ad intonare un inconsueto contrappunto. Il rinnovato biancore calcareo del muro, screziato da sfumature indefinite e impronte sparse di colori già scuriti dalla chimica dell'oblio, fa tremolare le pietre come fremiti superstiti di una tensione ormai spenta, rimanenze scarnite di una dignità che fu. Poco più in là, la rosea delicatezza della tinta che veste il ricovero si accende di un tono più deciso e caldo in quella del campanile, assaporando l'ingenua vanità di far sventolare il suo fiocco vivace sulla mestizia senile del muro, come tenue chiarore di un' aurora che si sporga con crescente letizia oltre la linea grigia dell'orizzonte per annunciare il prossimo arrivo del sole, ignara dei guasti che la sua luce sprezzante procurerà.

Quanto cammino fecero insieme le pietre della cinta, del campanile e del ricovero! Strette da un patto secolare, si sostenevano reciprocamente nella comune fatica di durare. Le mani che si prendevano cura del muro ne ricevevano, in cambio, custodia per i loro beni. Una vita senza comodi si estendeva come poteva nel cavo delimitato da una barriera sicura, un fluido continuo scorreva tra i corsi inquieti della città, i riti della fede e quello scudo fermo e severo. Allo sguardo di un estraneo che allora si fosse trovato a passare da quelle parti, l'intero abitato doveva apparire come un unico corpo raccolto in se stesso, -avvolto dal mantello ondulato dei tetti, il respiro scandito dal ritmo consueto del giorno e della notte che apriva e chiudeva le sue porte.


Poi, come i sentieri degli astri, quei destini si separarono. Dimore ricche e povere della città, le vie dei borghi, piazze di mercati e di feste, tutto cominciò a conoscere una vita nuova. Merci, armi, politica, pensieri e speranze presero a spingersi ben oltre difese erette sulla pietra e confini di valle. Il muro ne risentì, cadde in disuso. Scosse e divelte sempre di più le sue radici, patì incuria, demolizioni casuali, ferite volontarie, smembramenti. Avvertì il brivido sconosciuto dell'inesorabile. Come fogliame infreddolito dai primi soffi dell'inverno, le sue pietre residue indossarono vesti scure e disseccate, l'aspetto indurito dalla cera livida dell'agonia. E la muta polvere avrebbe disfatta anche la loro morte civile se quella città, che un tempo esse avevano protetta da offese palesi e occulte, oramai insediata molto al di là del loro stretto perimetro, non le avesse trattenute dentro di sé; mossa non da pietà, la quale avrebbe piuttosto consigliato di inumare quei resti nel silenzio, ma dal bisogno di esaltare il sapore dell'eccesso che l'animava, il gusto per quell'affascinante vastità di orizzonti che era divenuta sua residenza acquisita e mèta da conquistare. Sopraggiunse allora l'ultima cura umana, cerimonia funeraria speciale nella quale si celebrava senza saperlo la potente seduzione della promessa di mondi illimitati. Nella stessa inutilità manifesta di quel brandello di muro si scoprì qualcosa di utile; si lavorò a consolidarlo e a ripulirlo affinché non fosse altro che una levigata rovina, il testimone servizievole di trascorse fioriture, la pietra miliare di una profondità storica. Il suo profilo, fatto risorgere con i tratti ristuccati della sua vecchiezza da un senso dell'avvenire sicuro e orgoglioso di sé, ritrovò un modo di durare oltre la morte. La sua apparizione, che una volta parlava ai vivi dei vivi con la pienezza della sua integrità,era adesso quella di una stele volutamente imperfetta piantata sulle ceneri di una moltitudine anonima, a beneficio della sciamante giovinezza dei moderni .

Muro dolente, stranito sotto il peso del compito sconosciuto che un'attesa superba rivestita di rispetto gli venivano assegnando! D'ora in poi doveva appartenere al presente proprio come una presenza svuotata di ogni linfa vitale, comparire dinanzi agli sguardi come cornice tarlata che rimanda ad una tela trafugata, stare nei pressi dei giorni dell'uomo contemporaneo nel modo di allontanarsi velocemente, da essi, fissare in immagine la dissolvenza continua che lo attraversa, tenere sospeso e immobile il suo stesso movimento a ritroso. Muro salvato per l'avvenire come una stabile fuga perenne verso il passato, condannato alla difficile esistenza di un funambolo che debba ripetere senza sosta, e di spalle, la sua corsa all'indietro sulla corda tesa del tempo. Memoria irrigidita in monumento, evocazione senza fine di esistenze finite, gesto pietrificato di misura della storia. Distintivo di gloria per un domani che doveva avanzare come un'onda interminabile, cucito sull'abito di una fede terrena che faceva battere i cuori con lo splendore ultraterreno della sua stessa vaghezza sconfinata.
Adesso, però, sembra che quel muro non tolleri più di starsene nei termini che un ardore umano gli ha assegnato. Trascorsi i tanti lustri della prima esaltazione, la fissità della sua corsa verso il passato traligna, si espande intorno come un nascosto contagio e corrode quello stesso slancio verso un futuro senza fondo nel quale si volle incastonarla come un brillante prezioso.
Due opposte fughe temporali, divergendo visibilmente, si ritrovano ormai ricomposte sotto la durezza invisibile di una medesima fatalità: dove l'una è congelata, anche l'altra lo diventa; dove l'apertura al passato è stata impacchettata in materia solida rimessa a nuovo, anche quella verso il futuro ricade su se stessa estenuata, esaurita dalla propria inesauribilità, corrente cristallizzata in vetro stregato. Diramandosi in direzioni opposte e complementari, le due fughe si accordano l'una all'altra come lineamenti stilizzati di un unico volto: quello di un presente immobile, sospeso tra quei due trampoli come uno spettro colto di sorpresa dalla propria vacuità. Nella tinta rosea del ricovero non affiora più la tenue delicatezza dell'aurora di una nuova epoca che si va sciogliendo con entusiasmo dal vincolo secolare con un muro sfibrato e declinante, ma il tono scolorito di quella promessa di novità contratta nella sua spinta iniziale; non l'annuncio di un giorno radioso, ma il pallido resto di un calore che non cessa di estinguersi nell'imprevista timidezza di una forza che comincia a scoprire la propria impotenza. Un decorso cromatico si capovolge: non muove più, come prima, crescendo dal velo roseo sfumato del ricovero verso l'intensità pastosa del campanile, ma decresce da questa come sangue che si diluisca in tintura svigorita e acquosa. Giù in basso, una vecchiaia umana anemica e solitaria trova riparo nelle stanze di un'antica carità, alle quali il lessico di un eufemismo di facciata dà oggi il nome dolciastro di "residenza per anziani". Senza clamore, il muro ha consumato la propria vendetta. Ciuffi d'erba spontanea, tornati dopo la ripulitura a popolare il suo biancore orizzontale, incidono tra le pietre il disordine di un sarcasmo selvatico.

Tempo statico delle due fughe, immobile presente che rimesta volontà ansiose e senza presa, regno del sortilegio e dell'inazione. Non che gli uomini dei din­torni non si muovano più come hanno sempre fatto, anzi, la velocità cresce come dovunque sotto il pungo­lo di urgenze incalzanti. Ma la chiarezza dell'immobi­le cristallo, in cui il tempo ha piombato i suoi flussi, confina tanta mobilità spumeggiante della vita nello spazio angusto di un'agitazione circolare e stagnante, simile al ronzare vorticoso di insetti sulla superficie di acque paludose. Tempo che predispone gli uomini a scovare mille e mille artefatti ingegnosi per sopravvi­vere oltre ogni termine, sottraendo loro la capacità di rinnovare una piena confidenza col senso della Terra: quello che ci accomuna nella nascita che si riceve, negli amori che si donano, nella passione per un sape­re che nobiliti il poco che siamo e in una morte degna di essere accettata. Quello, si direbbe, di un tempo che non divora le vite per ingoiarle in un gorgo infinito, ma le riempie con possibilità scaturite e misurate dalla loro stessa finitezza.

Il tempo sospeso che sovrasta come una lamina di cristallo il muro della cinta antica, il ricovero e il campanile di S. Chiara, tessuto dalla movenza sottile della sua stessa divergenza, gioca con gli occhi una partita ambigua come uno specchio magico: riflette in superficie l'immagine degli uomini così come sono adesso e come credono di dover essere per sempre; ma, insieme, facendo trasparire dal fondo un'ombra di straniante immobilità, accenna a quella di una vita capace di redimersi dall'incantesimo che la domina. Conferma da vicino la certezza di un futuro aperto senza limiti che si nutre volentieri con l'onore monumentale reso ad un passato amministrabile, ma da lontano invita anche a slargare l'orizzonte chiuso che imprigiona le sue fughe in una maschera bifronte di gesso. Con discrezione, con tono sommesso, parla agli uomini del compito di una decisione sul loro modo di stare al mondo.

Fonte . Parte di un articolo dal titolo “Il rischio di darsi un destino” di Nicola Auciello , docente di Storia della filosofia , Università di Salerno, pubblicato pag. 5 de il Vaschione periodico sulmonese

(Leggi anche Luoghi e non luoghi ( I ) Il vicinato


Eremo Via vado di sole L’Aquila, domenica 27 marzo 2011

ET TERRA MOTA EST : LE CARRIOLE ALZANO BANDIERA BIANCA ''SIAMO TROPPO POCHI, MEGLIO FERMARCI''

ET TERRA MOTA EST :

LE CARRIOLE ALZANO BANDIERA BIANCA
''SIAMO TROPPO POCHI, MEGLIO FERMARCI''

di Michela Corridore

L’AQUILA - Poche carriole qua e là sulla scalinata di San Bernardino e poche decine di aquilani a lavorare per ripulirla dalle erbacce.

Questa scena del 6 marzo si è ripetuta puntuale la settimana dopo. Solo con uno sfondo diverso: costa Masciarelli. Da allora i “carriolanti” hanno deciso di lasciare a casa guantoni e rastrelli e di sospendere le domeniche in centro.

Nessuna manifestazione domenica scorsa e nessuna prevista per oggi. E già qualcuno si chiede se sia questa la fine del movimento.

“Abbiamo ottenuto già tanti risultati - dice Giusi Pitari, rappresentante del movimento - volevamo mettere in evidenza che la città è stata abbandonata e lo abbiamo fatto. Adesso stiamo cercando di ripopolare l’assemblea cittadina che vede sempre meno partecipanti. E poi dobbiamo organizzarci per le celebrazioni del 6 aprile, molti sono impegnati nella certificazione delle firme per la legge popolare”.

Ma alla base di tutto c’è soprattutto un’altra evidenza. “Siamo sempre pochi - afferma la Pitari - tutte le ultime iniziative non hanno riscosso un buon successo, in termini di partecipazione. Le persone hanno altri problemi a cui pensare e la domenica vogliono distrarsi, magari andando via dalla città”.

Sembrano lontani i giorni in cui quasi 6 mila carriole sono scese in piazza per sollevare il problema delle macerie.

“Guardiamo nostalgicamente allo scorso anno - spiega la Pitari - Ma la verità è che tutto è nato dalle macerie e le macerie sono ancora là. Nessuno può toccarle, perché sono proprietà privata. Ci vorrebbe un’azione politica”.

Come dire che le carriole non bastano e se hanno avuto la capacità di portare sotto la luce dei riflettori diversi problemi, purtroppo non sono state in grado di risolverli.

“Dopo l’entusiasmo e l’adrenalina dei primi mesi, adesso - dice la Pitari - negli aquilani è subentrata la consapevolezza che i tempi della ricostruzione sono lunghi. Noi vogliamo sì tornare nella 'zona rossa', ma sappiamo anche quali sono effettivamente le difficoltà. È per questo che le ultime uscite con le carriole non hanno avuto lo stesso successo dell’anno scorso”.

Ed è per questo che le “scarriolate” saranno sempre di meno. “Torneremo in centro con le carriole con tempi più dilatati - spiega la rappresentante del movimento - forse una volta al mese. Poi il Popolo ha diverse anime con idee diverse e alcuni non ritengono opportuno riprendere le carriole con maggiore frequenza”.

Forse chi ha decretato la morte del movimento ha qualche ragione?

FONTE :27 Marzo 2011 Abruzo web

Eremo Via vado di sole L'Aquila 27 marzo 2011

sabato 26 marzo 2011

LUOGHI E NON LUOGHI : Il vicinato

LUOGHI E NON LUOGHI : Il vicinato

Più che alla forma,gli architetti,gli ingegneri, i giardinieri farebbero bene a pensare ai bisogni della gente.

I bisogni si modellano, scaturiscono, si esauriscono sui luoghi, sulle forme? O i luoghi in qualche modo ingenerano bisogni , producono, appunto, esigenze da soddisfare?

E’ vero che per cercare equilibrio all’interno di te stesso devi muoverti attraverso un continuo movimento tra luoghi materiali e luoghi immateriali? E’ voluttuoso il piacere di toccare materialmente con i piedi , con le mani, con lo sguardo ed è altrettanto voluttuoso camminare tra ciò che resta della realtà al confine tra fantasia e fantasia, tra realtà e realtà dove la prima fantasia è l’astrazione da sé, la seconda fantasia è il ritorno al mondo astratto del sé purificato dall’astrazione? Discorso difficile che pure va tentato da questo osservatorio di confine. E allora ecco il primo contributo.

I luoghi attraverso l’incontro con la cultura che li anima inducono a farci delle domande. Ecco allora la cultura del vicinato e le domande che ne scaturiscono. Rispondere a queste domande è difficile perché partiamo anche da un’altra domanda . hanno una cultura le piazze, le camere da letto le strade, le osterie . Cultura che produce storia con la sua passionalità che esprime bisogni delle persone. Quali relazioni si consumano nei luoghi , quali ne sono i tempi , con quale velocità? In un mondo sempre più bizzarro c’è poi necessità anche di valori e di profondità.

E proprio in riferimento ai capisaldi della cultura del vicinato così come si è trasformato c’è bisogno di una nuova etica.

Ma come si è trasformato il luogo per eccellenza della cultura contadina: il vicinato? Quel luogo che esprimeva solidarietà, incontro, aiuto , controllo e identità è diventato un’altra cosa. Qualcosa che ha bisogno di una nuova etica.

Rileggo di seguito un articolo di Marco D’Eramo pubblicato su “La talpa n. 346 del Manifesto del 11 gennaio 1990. Ecco che cosa è diventato il vicinato.

Senti oltre la parete un bambino che piange?

Chiama subito il telefono azzurro e denuncia la violenza subita dal minore. Ti raggiungono preoccupanti rumori di piatti rotti e urla dall'appartamento vicino? Telefona subito al 113 e denuncia una lite . tra coniugi, uno stupro, insomma qualcosa.

Telefona, telefona, denuncia, scrivi, parla. Non è delazione, non è spiata, non è anonima perfidia. E' dovere civico, è solidarietà umana, è bontà distillata tramite Sip. Il tuo vicino si droga? È umano denunciarlo. Contro le Br, il Pci torinese aveva proposto un questionario in cui ognuno doveva dire se il vicino (piano di sotto, di sopra, porta accanto) era terrorista, simpatizzante. Era l'emergenza. L'allarme. Oggi gli allarmi si moltiplicano. Come gli antifurto delle auto che suonano invano. Oltre l'allame droga, c'è l'allarme Aids, c'è l'allarme violenza minorile, l'allarme vecchi, l'allarme sessuale. A ognuno di questi allarmi la risposta che le istituzioni incoraggiano è una sola: che il vicino si controlli e si sorvegli da solo il vicino. Che sia sempre più delegato il controllo sociale esercitato finora delle istituzioni deputate a sorvegliare e punire. Giudici, cardinali, poliziotti, assistenti sociali ti chiedono sempre più: sorveglia da solo il tuo vicino.

Nella trasmissione "Chi l'ha visto?», la telefonata del vicino di casa assurge a programma televisivo. Il pettegolezzo delle beghine, la frecciata delle comari viaggia sulle onde dell'etere per gonfiare ilcash-f1ow di network miliardari e innalza il glorioso (e sempre sia lodato) indice di ascolto. L'audience cresce quando diffonde il sentito dire. Il villaggio è qui globale, ma nel senso che il globale si riduce alla meschinità del paesetto, ai mormorii crudeli del borgo, agli ostracismi silenti e letali dei «compaesani».

E' morto sul marciapiede e nessuno l'ha soccorso, racconta l'insopportabile luogo comune dell'indifferenza metropolitana. Invece nessuno ci racconta la gioia che ti esplode in cuore, in città,quando non sei più controllato, non conosci nemmeno, il cognome del tuo vicino. Nessuno racconta come la città, uno tra i tanti prodotti tecnologici della modernità, sia una grande liberazione. Libero dal parente che controlla come ti lavi le mutande, dal vicino che guarda quante bottiglie bevi, dal parroco che ti chiede quanto ti masturbi. Insomma, l'incredibile libertà di cui devi essere grato proprio all'indifferenza altrui. L'ambiguo valore positivo del «farsi i fatti propri».

Altrettanto ambiguo è il «non farsi i fatti propri». Esprime solidarietà? oppure il fallimento del moderno? Nello stesso singolo gesto, 'nell'alzare il telefono, non c'è sollecitudine e ficcanasaggine? Richiedere etica, nuova morale, nuova solidarietà, e ottenere spiate, delazioni, non sta forse nella doppiezza propria dei valori, di cui parlava Carl Schmitt, quando sosteneva che "i valori sono intrinsecamente totalitari». Nel Malleus maleficarum, il manuale d'inquisizione sulle streghe, l'inizio di processo che si preferisce è «quando uno denuncia l'altro, ma senza offrirsi di fornire le prove, ma dice di denunciarlo per zelo di fede»

Contrapposizione quindi tra mondo contadino, paesano, antico, e mondo moderno, metropolitano, industriale. Ancora una volta il rifiorire della delazione sarebbe una nostalgia del passato. Un aspetto tra i tanti della reazione. Ma non tutto è così semplice.

La notte ad Amsterdam, cammini per le strade, ma in realtà passeggi tra tavoli da pranzo, tinèlli, camere da letto, tutti illuminati, tutti visibili, tutti senza tendine. Non c'è una tendina, una tenda, una vene¬ziana nelle finestre di Amsterdam. La tua vita deve essere sempre visibile ai vicini, anzi deve essere trasparente come un formella di vetro. La visibilità garantisce che chi ha successo, e quindi è predestinato dalla grazia divina, ne sia degno nel privato. Al contrario, giustifica, attraverso intime depravazioni, che l'insuccesso (la dannazione) sia meritato.

(Ricorda Foucault che nelle società utopiche del Paraguay, i sentieri erano sopra elevati perchè i gesuiti potessero, attraverso le finestre al livello della strada, controllare la vita privata dei loro «felici sudditi», gli indios).

I borghesi di Amsterdam hanno perseguito una particolare utopia di città felice. Nelle sue case, nel loro lindore (osporcizia) che vedi attraverso le finestre, ognuno è garante di fronte a dio dell'onestà del vicino, ma nello stesso tempo ognuno è geloso' della propria privacy e fiero di non conoscere il nome del vicino.

La società puritana crea sì il mito della privacy, ma anche, attraverso le delazioni dei vicini, i roghi delle streghe di Salem. Bastava che un signore affermasse: «Ieri notte la mia vicina si è trasformata in gatta ed è venuta a tentarmi, miagolando sul davanzale».

N ei villaggi e nella ci viltà contadina, sorvegliare e controllare era un diritto/dovere reciproco di un conoscente verso un conoscente. Nella società puritana, la sorveglianza sociale spontanea è sempre esercitata, ma da 'un contesto anonimo: a spiarti è un vicinato, non un vicino.

Cresce il bisogno di privacy, scompare il vicino/conoscente/parente. Dunque parte della sorveglianza è esercitata dagli apparati disciplinari, nati appunto per sorvergliarti e punirti. E' il controllo istituzionale, cioè anonimo. E anonimo è anche il controllo spontaneo: quello del vicinato, quello del portiere, quello dei colleghi.

Cosi mito della privacy e pratica dell'intrusione riescono a convivere, infelici e scontenti. Espressi nel cartello stradale, così diffuso negli Usa, che. vuole rassicurarti: «il tuo vicino denuncia alla polizia le attività antisociali». E in realtà,all'interno della logica privatista e liberista, non ti resta che il «Iiberal-stalinismo». La privacy ti lascia senza servizi sociali, e .l'intrusione é la sola forma di solidarietà, di rompere la solitudine.

Il punto di novità è che sembra decaduta, insieme a tante altre, anche quest'utopia borghese: l'idea che il controllo sociale potesse rallentarsi, allargare le proprie maglie nella metropoli, sostituito da un. lato da apparati repressivi si, ma sempre più umani, e dall'altro da un autocontrollo sociale prodotto da una più estesa alfabetizzazione, da un maggiore benessere, da un maggior senso di appartenenza a questa società.

L'ondata di «invito a spiare», di «licenza di delazione» è un altro dei segni della spaccatu¬ra fra governo e dominio. E' vero a livello planetario, ma si dimostra vero anche nel con¬dominio di un isolato. che per le classi dominanti -che quindi dominano - è però sempre più difficile gov~rnare. Siamo prede e soggetti' a processi di dominio senza governo. In Libano o in Uganda, ma anche nei quartieri degradati delle metropoli «affluenti». Nessuno tenta più di «acculturare» gli abitanti del Bronx. Né quindi di produrre «autocontrollo sociale».

Le foto sono di Salvatore De Villo


Eremo Via vado di sole , L’Aquila, sabato 26 marzo 2011