sabato 30 giugno 2012

CANZONIERE :Poesia e integrazione

CANZONIERE   :Poesia e integrazione


Può la poesia essere una via per l’integrazione? A questa domanda prova a rispondere Le lingue si parlano. Poesia dal mondo, volume di poesie edito da Bonaccorso presentato il 19 maggio scorso a Verona. Frutto di un laboratorio iniziato numerosi anni fa e ancora attivo alla Casa di Ramia del Comune di Verona, questa raccolta di versi è una scrittura corale sull’immigrazione che dà voce alle esperienze individuali di dieci autrici e un autore provenienti da Germania, Marocco, Brasile, Bulgaria Serbia e Italia

l viaggio verso una nuova patria può essere una scelta o una necessità ma porta sempre con sé i temi della memoria, della famiglia, dei luoghi, delle parole e degli oggetti perduti. “Il libro ripercorre un vissuto che solo in parte si esprime nella lingua materna” scrive Elisabeth Lisa Jankowski nella prefazione, “e lentamente incamera sempre più frammenti della lingua italiana, finché non diventa essa stessa quella lingua che origina pensiero e sentimento che non sarebbero più esprimibili nella lingua d’origine”.
La necessità di rivolgersi alla poesia come mezzo espressivo nasce dall’esigenza di sfuggire agli stereotipi sull’immigrazione, “aprendo varchi per parlare di sé, di spostamenti tra le geografie e le culture, per entrare in relazione con il mondo dell’altra senza ricalcare i percorsi della retorica del multiculturalismo” spiega Livia Alga nella postfazione. Abbandonare le dicotomie oriente/occidente, religioso/ateo diventa la strada per percorrere un nuovo orizzonte creativo, in cui la soggettività non è appiattita nelle culture di origine degli autori (che si tratti del nord Europa o del sud del mondo), ma diventa il vissuto individuale esprimibile solo attraverso la poesia.
In un’Italia sempre più multiculturale occorre essere pronti non ai respingimenti in mare ma all’integrazione sul territorio, e questa passa anche attraverso strade inattese come la parola poetica.





Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 30 giugno 2012

mercoledì 27 giugno 2012

BIBLIOFOLLIA : Miracolo a Milano: tentato furto con scasso in libreria

BIBLIOFOLLIA   :   Miracolo a Milano: tentato furto con scasso in libreria


Qualche giorno fa avevo pubblicato un post in cui invitavo i lettori a investire in libri antichi piuttosto che in btp. Questo fine settimana, mentre vagavo in quel di Milano lamentandomi del caldo, ho scoperto che la libreria Libet di via Terraggio (a due passi da Sant’Ambrogio) – specializzata in libri rari, esauriti e fuori catalogo – ha appena subito un tentativo di furto con scasso. Ed è la seconda volta che i ladri cercano l’effrazione. Mentirei se dicessi che non mi sono sentita lusingata nel vedere che persino cotanti criminali prendono alla lettera i miei consigli.

Il misfatto è successo nella notte tra sabato e domenica. E se il piano diabolico non è andato a buon fine, è stato solo per un provvidenziale vicino che tornava a casa quando le due erano da poco passate. Vedendo una macchina ferma di fronte alla libreria, con su quattro robusti giovini intenti a guardare la vetrina, l’uomo si è insospettito. L’ora era tarda, e la passione per la lettura difficilmente arriva a certi livelli di estremismo notturno.

Così ha salito le scale e, senza accendere le luci dell’appartamento, è andato, silenzioso come un indiano sioux nella prateria, alla finestra. Due dei quattro loschi individui erano scesi e con un bel piede di porco sfidavano la porta della Libet. A quel punto, con felina prontezza di spirito, il dirimpettaio ha lanciato un lungo e profuso ruggito che ha messo in fuga i marrani, scongiurando il furto. Ma non ha evitato danni piuttosto gravi alle serrature. Tanto che il mattino dopo il fabbro ha dovuto lavorare quasi due ore per rimettere in asse e far riaprire e chiudere la porta, e permettere ai titolari, Elena Ferrario e Roberto Posca, di entrare nel negozio e lavorare nomalmente.

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, mercoledì 27 giugno 2012

CANZONIERE : Desiderio e poesia

CANZONIERE  :   Desiderio  e poesia


"T'amo per tutte le donne che non ho conosciuto
T'amo per tutte le stagioni che non ho vissuto
Per l'odore d'altomare e l'odore del pane fresco
Per la neve che si scioglie per i primi fiori
Per gli animali puri che l'uomo non spaventa
T'amo per amare
T'amo per tutte le donne che non amo"
PAUL LUARD


"Oh invadimi con la tua bocca bruciante,
indagami, se vuoi, coi tuoi occhi notturni,
ma lasciami nel tuo nome navigare e dormire."
PABLO NERUDA


"Volgi la testa, amore mio, e perdona il mio dolore.
Se mi ami, amor mio, perdona la mia gioia.
Quando il mio cuore e' trascinato dal vortice
della felicità, non ridere della mia tenerezza.
Quando siedo sul mio trono e ti tiranneggio
col mio amore, o quando, come una dea,
ti concedo la mia grazia, sopporta il mio orgoglio,
amore mio, e perdona la mia felicità."
RABINDRANATH TAGORE


Ci sono sere che vorrei guardare
da tutte le finestre delle strade
per cui passo, essere tutte le rade
ombre che vedo o immagino vegliare

nei loro fiochi santuari. Abbiamo,
sussurro passando, lo stesso sogno,
cancellare fino a domani il sogno
opaco, cruento del giorno, li amo

anch’io i vostri muri pallidamente
fioriti, i vostri sonnolenti acquari
televisivi dove i lampadari
nuotano come polpi, non c’è niente

che mi escluda tranne la serratura
chiusa che esclude voi dalla paura.
(Giovanni Raboni)


T’amerò come allora
qualche volta? Che colpa
ha mai questo mio cuore?
Se la nebbia svanisce,
quale nuova passione mi attende?
Sarà tranquilla e pura?
Potessero le mie mani
sfogliare la luna!!

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, mercoledì 27 giugno 2012

domenica 24 giugno 2012

Ho sognato stanotte. Ed era - poesie –

Ho sognato  stanotte. Ed era  -  poesie –



1.
Ho sognato stanotte. Ed era
come vederti camminare  accanto a me .
Un presentimento di buon tempo
quando si sentono  passi
per le scale e la sorpresa è grande :
- così all’improvviso, chi poteva pensarlo –
si dice poi ad alta voce
nascondendo il desiderio  d’un’attesa
consumata sbattendo  tuorli d’uova
con cucchiai di zucchero
per riempire la cucina del profumo
di ciambelle e marmellata.
Diciamo sempre : -Per riguardo ai bambini
le favole che raccontiamo loro
continuano ad essere a lieto fine –
perché piace a noi  e perché
è così che vorremmo le cose della vita
che sovente non lo sono   – a lieto fine - .
E lieto dopo il sogno  di stanotte
ritorna il desiderio di te
ed è l’unico finale  che si addice
al mio sogno.
Per il  mio sogno  non conosce pace
questo desiderio  che rammenta  ogni ricordo
e non riesce a liberarsi  mai
da questo silenzio che ora
è un dilemma  che s’affolla
nel folto controvento
con altre memorie
nel cuore che resta colmo
della sua mancanza.



2.
Andare  per le strade della città
dalle immagini addormentate
tra le case  grigie impassibili
a quel rituale  della vita sfuggita
che conserva in fondo all’anima
l’infermità del tempo
e la voglia di piangere ,
che lascia consumare
quello sguardo un po’ bambino
sulle cose, sui colori sui visi che odorano
di fondo tinta  e dopo barba.
Dolci passioni
così colano come cere
sulle strade dall’afrore
della polvere
e dell’umido degli scantinati
ormai a vista  nell’aria
del primo sole del mattino.
Amici amici della città
si vede il mondo
negli occhi aperti dei muri
spalancati senza ritegno
e in loro una verità
un sorriso profondo  :
il cumulo  della vita
che a stento  ti fa ripetere
chissà-se-resterà-qualcosa-di-noi.



3.
Ho pensato – come dicono
i versi di un antico  tango
argentino – di lasciare aperte
la porta di notte
per poter sognare  che tu
ritorni.
Possono venire  i ladri
ma non possono  rubare
niente
perché è mio questo amore
io lo possiedo
e nessuno me lo può
portare via .
Così  ora  so che cosa si prova
a tenere dentro il cuore
questa passione
come quella di un dio
che abita la sofferenza
degli uomini  e che non riusciamo
a capire .
E’ la stesso  profumo
che viene dalle finestre annerite
delle case chiuse. Aspettano l’avvenire
e nelle stanze le voci
chetate d’un tratto all’improvviso
dopo il trambusto di quella notte
hanno una smorfia di estasi  amorosa
che gli deforma il tono.



4.
Ci sono  sere che mi domando
t’amerò come allora
qualche volta ancora.
T’ho amato per tutte le donne
che non ho conosciuto
per le stagioni e i giorni
che non ho vissuto
per l’odore del pane fresco
che rincorro al mattino
tra i vicoli deserti
dove cammino sotto lo sguardo
delle finestre semichiuse.
Abbiamo ancora lo stesso sogno ,
sussurro a me stesso,  ma non è così :
lo stesso sogno cancellato
cancellato un giorno per sempre.
Ho un grande desiderio oggi
stracolmo d’inganni, di te
e del tuo corpo.
Perché io cheti il mio strazio
innamorato di desiderio
solo due cose posso fare
descrivere questo desiderio
come un’erba dolce amara
che avvelena la gola e soffoca
 i polmoni
e non aggiungere l’ultima frase
perduta al di là di’una parete
di nebbia e d’anni.



5.
Ora dentro il desiderio e il ricordo
non penso più a te
ma al viaggio con te
e a quella febbre ora smorzata
che agita ancora la vita
e mi chiedo se è stato
quel desiderio  solo di te
il carcere  che l’h avvilita e spenta.
Penso al nodo di quella sofferenza
rimasto fermo  alla tua morte
e serrato in un punto della mia vita.
Senza  riscatto. Senza riscatto ora
- chi può dirlo  -  non lo so :
so solo  che complici tu ed io
siamo diventati esperti  del dolore
del mondo.
E il silenzio nella stanza deserta
è un silenzio enorme
che non mi riporta la tua persona
ma solo il desiderio di te stasera .
Ti rivedo ora non più sola
nelle stanze  ed è come
chiedere  perdono per un solitario
inganno. Così, così l’acerba grazia
d’un Dio volto a guardare
l’esile racconto della vita
- in cui solo  la libertà
è capace di restituire  come seme
e dono  la vita alla vita –
così l’esile grazia non basta ancora.
Ed è tutto  ormai dentro
una tristezza infinita.

Eremo Via vado di sole  ,L'Aquila, lunedì 25 giugno 2012

martedì 19 giugno 2012

ARTE FACTUM : La parola esposta ovvero la parola poetica

ARTE FACTUM : La parola esposta  ovvero la parola poetica

Il nostro mondo di contraddizioni   sembra   aver rinunciato a causa di un  disincantata quanto insanabile contraddizione  al concetto di “opera”. Il leit motif di ogni  produzione artistica  è appunto l’assenza e la frammentarietà appunto della così detta opera  artistica.  Tanto che si impone la necessità di riconsiderare  la questione del modo di essere dell’opera  delimitato  dall’orizzonte del fare umano  che è , in primo luogo, tensione  verso la realizzazione , che è  incontro tra sé e il mondo  e iscrizione di questa  tensione in una comunità e in una storia.
Scrive per questo Pascal Gabellone in Antarem ( V serie, 75/2007) : “ Le opere rispondono ad un movimento di  incarnazione , ogni volta singolare e irripetibile , ad uno slancio, ad una ricerca  di una compiutezza e di una pienezza , che tuttavia appaiono irraggiungibili , e quasi oggetto di un lutto” Esse quindi , come predicano certe estetiche,  non possono ricondursi ad un semplice fare  artistico  e per meglio   dire ad un semplice esserci , ma devono  rispondere ad una tradizione che tentiamo di interrogare. Essendo la tradizione a sua volta luogo di legittimazione , non ovvia ma problematica  nel suo divenire e  nella sua concatenazione  di continuo e discontinuo , permanenza e movimento  ,l’opera  artistica può essere esposata al rischio dell’oblio.
Come ci ricorda Hans Georg Gadamer , ogni addio, ogni prender congedo  è un riconoscere , e appartiene all’essenza della tradizione  di salvaguardare ciò che del passato  si conserva come passato.
Quindi  come continua   Pascal Gabellone nella parola esposta nell’opera d’arte “ La parola poetica
è allora , al di fuori  dei generi e dei territori  in cui essa si inscrive , la realizzazione di un senso inaudito  del mondo, del mondo  come senso inaudito , il che non si riduce al sensato  e al ragionevole ma apre sul pericolo della sua sparizione  o della sua impossibilità”
Nel mondo che viviamo la parola esposta ovvero la parola poetica  è impossibile ?

Scrive  Antonio Spadaro  il 3 aprile 2008  nella relazione al Convegno “La poesia. Vivere nella possibilità”, Reggio Calabria,
La poesia è una «forma di vita», potrei addirittura dire che è la vita che prende forma. Quando una vita prende forma? Quando davanti a lei si aprono possibilità. Una vita prende forma non quando è determinata, necessitata, ma quando davanti ad essa si dispiegano opportunità, aperture, possibilità. Vivere è vivere nella Possibilità, come ha scritto in un suo verso la poetessa statunitense Emily Dickinson (1830-1886): I dwell in possibility (P 657). Per la Dickinson il poeta guarda e vede ciò che è sotto gli occhi di tutti, ma egli ha la funzione di dischiudere le immagini e distillare significati: Svelatore d’Immagini, / è Lui, il Poeta. (Of Pictures, the Discloser – / The Poet – it is He, P 448).
In questo svelamento vi è anche una dimensione «esplosiva» così che lei può parlare allusivamente della poesia come di una bomba presa e stretta al petto: afferrammo una Bomba - / e la stringemmo al Petto - / anzi la stringiamo (P 443). Cosa fanno i poeti, dunque?
In che cosa consiste questa dimensione esplosiva della poesia? Quali sono le sue caratteristiche salienti? Come descriverla? Nelle riflessioni del teologo gesuita Karl Rahner, uno dei pensatori migliori del 900, è possibile trovare alcune riflessioni poco note sulla poesia, che mi hanno aiutato a comprendere meglio ciò che i versi di Emily Dickinson mi avevano aiutato a intuire. Rinvio al volume La grazia della parola. Karl Rahner e la poesia (Jaca Book, 2006) per una analisi critica del suo pensiero. Qui semplicemente mi farò come guidare per mano sia da Rahner sia dalla Dickinson nel tentativo di parlare della parola poetica.
La parola poetica è un «pensiero incarnato»
Il poeta pensa in versi. La parola poetica non è l’espressione esteriore di un pensiero che, anche senza la parola, potrebbe esistere altrettanto bene. La parola è un «pensiero incarnato», non semplicemente l’aspetto esteriore del pensiero. La parola è qualcosa di più originario del pensiero. Si pensa in una lingua, e la lingua precede e accompagna il pensiero. E questo vale in maniera eminente per il poeta. Non c’è un pensiero che precede il suo darsi in versi, in parole. Il linguaggio poetico si esprime in figure, non in riflessioni e queste figure possono far «dire» più di quanto la riflessione riesca a fare. E questo perché, come diceva Oscar Wilde, lo scrittore non può pensare in altro modo che in forma di racconto: pensa in inchiostro, come lo scultore «pensa in marmo» e così via. Per questo motivo le varie lingue non sono intercambiabili.
Lingue diverse possono essere comprese e anche tradotte, ma non per questo le lingue sono equiparabili a una serie di facciate, di cornici esterne dietro le quali si annida semplicemente e unicamente lo stesso pensiero. Insomma, ci possono essere traduzioni, ma non sostituzioni. La lingua non è soltanto la cornice esterna di un quadro. Così la noche di Giovanni della Croce non è la Nacht di Nietzsche o di Novalis. L’agape della Lettera ai Corinzi non è solo una diversa applicazione dell’amore dei popoli indoeuropei. Gli esempi si possono moltiplicare. Tutti comunicherebbero l’istanza dell’assoluta unicità della parola poetica.
La parola poetica dunque non è l’espressione di un pensiero precedente, ma è il fiorire del pensiero davanti al mondo. Le parole poetiche sono le prime parole del pensiero che si confronta col reale dentro una lingua. È come la lava che esce incandescente dal vulcano.
La parola poetica è una conchiglia
Le parole, poi, non sono identiche le une alle altre, non hanno lo stesso peso specifico, anche all’interno della stessa lingua, come fossero oggetti intercambiabili. Karl Rahner pone una differenza fondamentale tra parole che sono come «farfalle morte, infilzate nelle vetrine dei vocabolari», e parole viventi, che esistono da sempre e che, «quasi per miracolo, rinascono continuamente». Queste ultime, anche attraverso l’indicazione di una cosa sola, «lasciano trasparire la infinita gamma della realtà, simili a conchiglie dentro le quali risuona il vasto mare dell’infinità. Sono esse che ci illuminano e non noi a illuminarle. Esse esercitano un potere su di noi, perché – scrive Rahner – sono doni di Dio e non invenzioni umane, anche se è grazie alla tradizione degli uomini, che sono potute giungere sino a noi». La conchiglia (Muschel) è l’efficace simbolo per dire l’infinità presente nella finitudine della parola. Le parole che sono «farfalle morte» sono senza mistero, superficiali, sufficienti per la mente, utilitarie (Nutzworte). Le parole-conchiglia sono oscure, perché «evocano il mistero luminosissimo delle cose». Sono queste le parole della poesia, le parole, «primigenie» o, meglio ancora, «originarie», dell’origine, (Urworte). In questa parola l’uomo accosta «l’orecchio alla conchiglia del mondo». Il mondo, a sua volta, è conchiglia ha scritto il poeta bresciano Giovanni Cristini (1925-1995): L’universo non è / che un geroglifico immenso, un grumo / di segni, una conchiglia, un nido / indecifrabile agli occhi / della mente e del cuore.
La parola poetica non è un righello che squadra, ma un luogo di evocazione e di risonanza. Insomma la parola evoca ciò che nomina e lo fa scaturire dal fondo dal quale proviene e nel quale rimane nascosto. Ciò trova conferma in varie dichiarazioni di poetica di scrittori e artisti della parola, come anche nelle loro opere. Notiamo, ad esempio, che nella Ballata dalle arcate di Wawel il poeta Karol Wojtyła, Giovanni Paolo II, contrappone l’immagine di santo Stefano martire che sopra di sé contempla i cieli aperti e quella di Pitagora, figura del filosofo senza fede, del pensiero calcolante, che per comprendere prende le misura, inquadra e squadra:Non misurerai, non misurerai Pitagora, non chiuderai nella cifra, nel chilometro. / Non avvicinare di notte alla volta celeste i compassi, le scale.
La vita non è questione da affrontare con righello e calcoli. Lo ha scritto nella sua Metodologia il poeta messinese Bartolo Cattafi (1922-1979): Inutile farla lunga, /girarla, rigirarla / allo spiedo, al rovello / dell’attenta osservazione, l’analisi, la sintesi, / i discorsi sul metodo. / Si muore dalla noia. / C’è un modo d’aggredire la questione: / col coltello. Occorre la luce d’altro fuoco per giungere all’«osso» o all’«anima» del reale, secondo il poeta. La parola poetica vive di questo fuoco. L’uomo ha bisogno di udire tali parole, di stare ad ascoltarle a lungo.
Le parole poetiche sono parole della possibilità, parole che dispiegano possibilità di significato e di comprensione; parole che rendono il mondo conchiglia. Sono parole che aprono, non che chiudono e definiscono. Le parole sono finestre e conchiglie, mani che sono disposte a dare e ad accogliere.
La parola poetica è originaria

Qual è la differenza tra parole originarie e parole utilitarie? Le prime sono le parole di Adamo. In esse le cose si mani
festano nelle parole così come se fossero al primo giorno della loro creazione. C’è ancora l’eco del Big Bang, della sua forza propulsiva e mantiene l’eco dello scoppio. C’è in esse una freschezza che ancora profuma delle sue origini recenti, della sua creazione. Henry David Thoreau in una conferenza del 1851 dal titolo Walking scrive che «poeta dovrebbe esser colui che sa usare le parole trapiantandole sulla pagina «con la terra ancora attaccata alle radici» (with earth adhering to their roots), parole vere, forti e naturali da schiudersi come gemme all’annunciarsi della primavera (true, and fresh, and natural that they would appear to expand like the buds at the approach of spring).
È vero che la realtà esiste anche se non è conosciuta e affermata, ma questa realtà riceve intensità esistenziale quando perviene alla parola: è ciò che ci comunica Adamo che nomina la creazione. Il poeta è colui che in modo denso e ricco prosegue l’opera di Adamo: «il poeta – scrive Karl Rahner – non è un uomo che dice con superflua ricchezza di immagini e con fare compiaciuto, mediante le rime e con un profluvio di parolette sentimentali, ciò che altri – i filosofi e gli scienziati – hanno detto in un modo più chiaro, più oggettivo e più comprensibile». Il rischio sempre in agguato è quello di vedere nella parola poetica solamente una felice illustrazione di ciò che potrebbe essere detto più brevemente e con più precisione e restare fissato con un concetto. Qui si tratta di cercare il potere proprio della parola poetica nel dire ciò che nessun altro tipo di costruzione speculativa potrebbe giungere ad esprimere. Un genio poetico quale fu il gesuita francese François Varillon nelle sue ampie Traversate di un credente (Jaca Book, 2008) ha inteso la poesia come «un senso acuto e doloroso dell’insufficienza della ragione discorsiva per illuminare il mistero dell’anima».
Il potere proprio della parola poetica è la freschezza, cioè il dischiudersi delle possibilità che si aprono come «gemme all’annunciarsi della primavera», nelle certezza, come scriveva il poeta gesuita inglese Gerard Manley Hopkins (1844-1889), che vive in fondo alle cose la freschezza più cara (There lives the dearest freshness deep down things). È questo un verso preziosissimo, che ho usato come titolo per una antologia delle sue poesie appena pubblicata da Rizzoli, e che il domenicano Pierre-Marie Emonet ha usato per una sua introduzione alla filosofia dell’essere.
Allora ha ragione la Dickinson ad affermare: I Poeti non accendono che Lampade - / essi stessi e poi spariscono / ma le Fiammelle che stimolano - / se vitale è la Luce / durano come i Soli (P 883). Il poeta coglie l’esperienza in modo luminoso, svelando significati inediti e sapori nuovi: Da Calici scavati nella Perla / assaporo un liquore mai gustato (P 214). In questa sorta di profonda percezione del senso dell’esistenza e dell’avventura della vita vivono le esplosive tensioni e le contraddizioni della poesia.
La parola poetica rende presente ciò che nomina
La parola primigenia evoca la realtà di cui parla e la rende presente. È chiaro dunque che quando il poeta scrive in una sua poesia la parola «acqua», essa può avere un significato ben diverso rispetto a quello che le attribuisce un chimico pensando alla formula H2O: l’acqua che l’uomo vede e che il poeta canta non è un elogio poetico dell’acqua del chimico. Non c’è affatto da dubitare o sospettare del chimico o del fisico, ovviamente. È solo da precisare che per il chimico la parola «acqua» deve avere un contenuto preciso e definito, mentre per il poeta no. Per il poeta le parole restano «dense e scintillanti insieme»; per il chimico invece la parola «acqua» è uno strumento che riduce la cosa rappresentata alla sua pura oggettività. Le parole poetiche rendono presente l’acqua. Esse «possiedono una semplicità, che racchiude in sé ogni mistero». Il vero poeta dunque è colui che possiede il dono e la vocazione di liberare le parole dalla sfera di un oggettivismo castrante.
Quindi comprendiamo che le parole primigenie non sono semplicemente alcune e ben precise parole: sono tutto il linguaggio dell’umanità che riesce a strappare le cose dalle loro tenebre per portarle alla luce. Esse sono un dono e come tali vanno accolte. Sono parole – elenca Rahner – come «fiori, notte, stella e giorno, radice e fonte, vento e sorriso, rosa, sangue e terra, fanciullo, fumo, parola, bacio, fulmine, respiro, quiete». Ad esse si addice un infinito sconfinamento, scrive Rilke: Siamo forse qui per dire solo: casa, / ponte, fontana, porta, mandorlo, / brocca, finestra, / o, al più, colonna, torre… o per dire, intendi, / oh dire veramente come le cose nell’intimo / mai s’immaginarono d’essere... E la Dickinson gli fa eco: Fu questo un Poeta – Colui che distilla / un senso sorprendente da ordinari / Significati, Essenze così immense / da specie familiari / morte alla nostra Porta / che stupore Ci assale / perché non fummo noi / a fermarle per primi. (P 448).
La parola poetica è molto precisa
È la precisione che potenzia la capacità evocativa della parola poetica, non la sua vaghezza. La precisione del dettaglio, eliminando ogni approssimazione, spinge il lettore a fare esperienza. Essa rende reali le emozioni, evitando eccessi di astrattezza e sentimentalismo. Maupassant affermava, del resto, che non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al punto giusto. Lo scrittore statunitense Raymond Carver, dopo aver letto la frase di Maupassant, commentò: «Era proprio quello che volevo fare con i miei racconti: mettere in fila le parole giuste, le immagini precise, ma anche la punteggiatura più efficace e corretta, in modo che il lettore venisse trascinato dentro e coinvolto nella storia, e non potesse distogliere lo sguardo dal testo a meno che non gli andasse a fuoco la casa».
Questa precisione porta la parola a «sconfinare»: «possono parlare di qualunque cosa, ma alludono – sussurrando – sempre a tutto. Quando si vuole misurare la loro circonferenza, quando si tenta di circoscriverle, ci si smarrisce sempre nell’infinità», scrive Rahner. Le parole dunque portano in sé una luminosa oscurità. La conoscenza che offrono evoca sempre il mistero. È sempre una conoscenza oscura e non analizzabile come lo è la realtà stessa. Anzi, tramite queste parole la realtà si impadronisce di noi e ci conduce nelle sue profondità.
La parola che va al cuore e unifica

Se la parola è veramente «poetica», allora essa avrà la capacità di colpire il centro dell’uomo, il suo cuore. Sono «parole del cuore»: non parole sentimentali, né parole puramente razionali. Occorre dunque esercitare prontezza e capacità di percezione perché le parole non scivolino sulla superficie dell’uomo affaccendato, non soffochino nell’indifferenza e si perdano fra le chiacchiere. Queste parole sono come «una lancia», colpiscono «le più intime profondità umane uccidendo e ravvivando, trasformando, giudicando, graziando». Esse riconciliano, liberano il singolo dal suo isolamento e dalla sua solitudine, e fanno sì che in ciascuno ci sia il tutto: parlano di un uomo e ci rendono familiari con l’uomo. La poesia parla di un’esperienza particolare, singolare. Eppure la parola poetica è in grado di universalizzare qu
ell’esperienza: il dolore o la gioia di uno (autore, personaggio…) diventano quelle di ogni uomo, e del lettore in particolare.
***
Allora è vero quel che scrive la Dickinson: Abito nella Possibilità – / Una Casa più bella della Prosa / Dalle Finestre più numerose / Superiore – per Porte – / Dalle Stanze come Cedri – / Impenetrabili all’Occhio – / E come Tetto Perenne / La Volta del Cielo – / Di Visite – la più lieta – / Per Occupazione – Questa – / Allargare le mie strette Mani / Per raccogliere il Paradiso (P 657). La poesia è vivere nella possibilità. Non nella probabilità, ma nella possibilità, nello spazio in cui il mistero del mondo si dispiega inesauribilmente. La sua casa ha finestre più numerose, stanze alte e impenetrabili e il suo tetto è il cielo, cioè non c’è. È una casa singolare, la poesia: è lo spazio di una apertura. E la Dickinson scrive in un’altra poesia: Se in una Grotta tentavo di nascondermi,/ le Mura si mettevano a gridare – / il Creato sembrava un potente Spacco – / per lasciarmi scoperta (P 891). La poesia è una maniera di riflettere e cercare, di stare esposti al grande «Spacco» (Crack) che è un altro modo per dire il mistero del reale, davanti al quale si rimane sempre scoperti.


Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 19 giugno 2012

lunedì 18 giugno 2012

GRAMSCIANA : Definizioni .Intransigenza-tolleranza,intolleranza-intransigenza

GRAMSCIANA : Definizioni  .Intransigenza-tolleranza,intolleranza-intransigenza


Intransigenza è il non permettere che si adoperino - per il raggiungimento di un fine - mezzi non adeguati al fine e di natura diversa dal fine.
L'intransigenza è il predicato necessario del carattere. Essa è l'unica prova che una determinata collettività esiste come organismo sociale vivo, ha cioè un fine, una volontà unica, una maturità di pensiero. Poiché l'intransigenza richiede che ogni singola parte sia coerente al tutto, che ogni momento della vita sociale sia armonicamente prestabilito, che tutto sia stato pensato. Vuole cioè che si abbiano dei principi generali, chiari e distinti, e che tutto ciò che si fa necessariamente dipenda da essi.

Perché, dunque, un organismo sociale possa essere disciplinato intransigentemente è necessario che esso abbia una volontà (un fine) e che il fine sia secondo ragione, sia un fine vero, e non un fine illusorio. Non basta: bisogna che della razionalità del fine siano persuasi tutti i singoli componenti l'organismo, perché nessuno possa rifiutare l'osservanza della disciplina, perché quelli che vogliono far osservare la disciplina possano domandare questa osservanza come compimento di un obbligo liberamente contratto, anzi di un obbligo a fissare il quale lo stesso recalcitrante ha contribuito.
Da queste prime osservazioni risulta come l'intransigenza nella azione abbia per suo presupposto naturale e necessario la tolleranza nella discussione che precede la deliberazione.

Le deliberazioni stabilite collettivamente devono essere secondo ragione. La ragione può essere interpretata da una collettività? Certamente l'unico fa più in fretta a deliberare (a trovar la ragione, la verità) che non una collettività. Perché l'unico può essere scelto tra i più capaci, tra i meglio preparati a interpretare la ragione, mentre la collettività è composta di elementi diversi, preparati in diverso grado a comprendere la verità, a sviluppare la logica di un fine, a fissare i diversi momenti attraverso i quali bisogna passare per il conseguimento del fine stesso. Tutto ciò è vero, ma è anche vero che l'unico può diventare o essere visto come tiranno, e la disciplina da esso imposta può disgregarsi perché la collettività si rifiuta, o non riesce a comprendere l'utilità dell'azione, mentre la disciplina fissata dalla collettività stessa ai suoi componenti, anche se tarda ad essere applicata, difficilmente fallisce nella sua effettuazione.

1 componenti la collettività devono pertanto mettersi d'accordo tra loro, discutere tra loro. Deve, attraverso la discussione, avvenire una fusione delle anime e delle volontà. I singoli elementi di verità, che ciascheduno può portare, devono sintetizzar si nella complessa verità ed essere l'espressione integrale della ragione. Perché ciò avvenga, perché la discussione sia esauriente e sincera, è necessaria la massima tolleranza. Tutti devono essere convinti che quella è la verità, e che pertanto bisogna assolutamente attuarla. Al momento dell'azione tutti devono essere concordi e solidali, perché nel fluire della discussione si è venuto formando un tacito accordo, e tutti sono diventati responsabili dell'insuccesso. Si può essere intransigenti nell'azione solo se nella discussione si è stati tolleranti, e i più preparati hanno aiutato i meno preparati ad accogliere la verità, e le esperienze singole sono state messe in comune, e tutti gli aspetti del problema sono stati esaminati, e nessuna illusione è stata creata [diciotto righe censurate] .

Naturalmente questa tolleranza - metodo delle discussioni fra uomini che fondamentalmente sono d'accordo, e devono trovare le coerenze tra i principi comuni e l'azione che dovranno svolgere in comune - non ha che vedere con la tolleranza, intesa volgarmente. Nessuna tolleranza per l'errore, per lo sproposito. Quando si è convinti che uno è in errore - ed egli sfugge alla discussione, si rifiuta di discutere e di provare, sostenendo che tutti hanno Il diritto di pensare come vogliono - non si può essere tolleranti. Libertà di pensiero non significa libertà di errare e spropositare. Noi siamo solo contro l'intolleranza che è un portato dell'autoritarismo o dell'idolatria, perché impedisce gli accordi durevoli, perché impedisce che si fissino delle regole d'azione obbligatorie moralmente perché ai fissarle hanno partecipato liberamente tutti. Perché questa forma di porta necessariamente alla transigenza, all'incertezza, alla dissoluzione  degli organismi sociali [ sei righe censurate ].
Perciò abbiamo fatto questi ravvicinamenti: intransigenza-tolleranza, intolleranza-transigenza.


Siglato A.G. Il grido del Popolo   8 dicembre 1917 sotto la rubrica “Definizioni “

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, lunedì 18 giugno 2012

sabato 16 giugno 2012

ANIMALI VERI, ANIMALI IMMAGINARI : Apri ogni gabbia

ANIMALI VERI, ANIMALI IMMAGINARI  : Apri ogni gabbia

Sabato 16 giugno a Roma la manifestazione nazionale contro Green Hill

E’ giusto che l’uomo come specie “superiore” possa decidere di sacrificare topi, cavie, cani, scimpanzé, roditori vari solo perché appartengono a specie “inferiori” e non hanno diritto di replica?

Continuano le proteste contro la vivisezione e contro Green Hill. Sabato 16 giugno 2012 si tiene a Roma una manifestazione nazionale indetta da Occupy Green Hill e dal Coordinamento Antispecista del Lazio. Il caso dell'allevamento lager di Montichiari ha aperto un varco verso una sensibilità sociale sempre più votata all'antivivisezionismo e all'antispecismo.

Continuano le proteste contro la vivisezione e contro Green Hill, sabato 16 giugno manifestazione nazionale a Roma
La nuova data della votazione che continua a slittare da diverse settimane sarà il 20 giugno, giorno in cui la Commissione Politiche UE sarà chiamata ad approvare l'art. 14 della Legge Comunitaria riguardo i criteri e i vincoli di recepimento della Direttiva UE 2010/63. Il 1 febbraio la Camera ha già approvato, con il parere favorevole dei Ministri della Salute, degli Affari Europei e della Commissione Sanità di Palazzo Madama, l'articolo che recepisce la tanto discussa direttiva sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici.
Nell'attesa che la Commissione si esprima in merito, continuano le numerose proteste contro la vivisezione e contro Green Hill. Sabato 16 giugno è stata indetta una manifestazione nazionale dal Coordinamento Antispecista del Lazio e da Occupy Green Hill che partirà alle ore 15.00 da Piazza della Repubblica a Roma. Gli attivisti di tutta Italia, per partecipare a questo importante corteo, hanno organizzato diversi pullman che raggiungeranno la capitale da Firenze, Arezzo, Milano, Brescia, Verona, Ferrara, Vercelli, Torino, Bologna, Livorno, Pisa, Viareggio, Lucca, Viterbo, Cagliari, Napoli, Bari, Parma, Genova, Belluno, Treviso, Venezia, Padova, Piacenza, Siena, Massa Carrara, Fermo, Modena e Trieste.
Il desiderio di veder chiudere Green Hill e veder abolita la vivisezione sta contagiando tanti cittadini italiani ed europei; al movimento animalista si stanno unendo persone che, fino a poco tempo fa, ignoravano l'esistenza del terribile allevamento lager in cui i cani beagle vengono allevati per essere venduti ai laboratori di vivisezione. Senza ombra di dubbio, molte persone sono maggiormente coinvolte perché gli animali in questione sono cani e non topi, ad esempio, ma tutti gli animalisti auspicano che a far scendere in piazza tanta gente sia, soprattutto, una coscienza antispecista che si sta radicando nella popolazione.
Il desiderio di veder chiudere Green Hill e veder abolita la vivisezione sta contagiando tanti cittadini italiani ed europei
L'umanità deve ridimensionare il proprio egocentrismo, il proprio egoismo, la propria avidità e deve smettere di arrogarsi il diritto di trattare gli altri animali come oggetti di cui disporre a proprio piacimento; tutti gli animali sono esseri senzienti, dotati di intelligenza, con caratteristiche etologiche e strumenti di comunicazione differenti, in quanto appartenenti a specie differenti. Ogni specie ha dei diritti e deve essere libera di vivere la vita dignitosamente nell'ambiente ad essa più congeniale, seguendo le leggi che la natura impone.
Anche la scienza interviene per divulgare una cultura antivisezionista; diversi dottori, professori universitari e scienziati si battono giornalmente per divulgare notizie scientifiche che dimostrano quanto la sperimentazione animale sia inutile, falsa scienza. Credo che anche la stampa libera, guardandosi bene dal farsi strumentalizzare dalla politica, dalle lobby farmaceutiche e dalle multinazionali e rinunciando dunque a facili profitti, stia facilitando la diffusione di una società antispecista e antivivisezionista, comunicando ai lettori la vera informazione. Le parole aiutano a capire ed analizzare la realtà; il cambiamento, però, è dettato solo dalle nostre libere scelte.
Fonte di Tamara Mastroiaco - 15 Giugno 2012

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 16 giugno 2012

MEDITERRANEO : Lascia la Siria Paolo Dall’Oglio gesuita , fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa,

MEDITERRANEO  :   Lascia la Siria  Paolo Dall’Oglio gesuita , fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa,

Il gesuita Paolo Dall’Oglio, fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa, lascia la Siria dopo oltre trent’anni.
Mar Musa o, per esteso, Deir Mar Musa al-Habashi (ﺪﻴﺮ ﻤﺎﺮ ﻤﻭﺴﻰ ﺍﻠﺤﺒﺸﻲ, Daīr Mār Mūsa al-Ḥabaši, letteralmente Monastero di San Mosè l'Abissino) è una comunità monastica cattolica di rito siriaco, sita nei pressi della cittadina di Nabk, a circa 80 kilometri a nord di Damasco, in Siria.
 Lo aveva comunicato già ieri mattina alla nostra redazione (dal 2007 padre Dall’Oglio cura una Già minacciato di espulsione dal governo siriano nel mese di novembre il gesuita era riuscito a restare nel Paese a patto di mantenere un «basso profilo», evitando dichiarazioni pubbliche contrarie al regime. Un impegno che Dall’Oglio ha mantenuto, pur non interrompendo la sua attività a favore della pace e la sua denuncia delle violenze perpetrate nel Paese. Significativa, in questo senso, la lettera aperta che il religioso aveva inviato lo scorso 23 maggio a Kofi Annan, inviato speciale dell’Onu in Siria.
La decisione di lasciare la Siria è stata ora presa in obbedienza alle autorità ecclesiastiche del Paese. Così, ad accompagnare il gesuita alla frontiera con il Libano, sabato prossimo, non saranno funzionari governativi, ma il nunzio apostolico a Damasco.
Il monastero di Deir Mar Musa è stato rifondato nel 1982 dal gesuita italiano padre Paolo Dall'Oglio, con il nome di comunità al-Khalil (l'amico di Dio, in arabo), per ospitare aderenti sia di confessione cattolica sia di confessione ortodossa. È dedicato principalmente al dialogo interreligioso con il mondo musulmano. La sorte della comunità è messa in forse dalla repressione messa in atto dal governo siriano per far fronte alla proteste popolari del 2011, che ha portato all'espulsione dal paese del fondatore.
«Questa decisione - spiega padre Dall’Oglio, che abbiamo raggiunto telefonicamente poco dopo il colloquio in nunziatura - è legata soprattutto alla mia lettera indirizzata all’ex Segretario generale dell’Onu, di cui mi assumo tranquillamente la responsabilità. Non c’è niente che mi meravigli: sono avvilito, ma non meravigliato. È un altro capitolo di una storia di pressioni e le autorità ecclesiastiche sono l’esecutore, anche se ufficialmente sono espulso per loro decisione».
Cosa farà adesso? La mia intenzione è di andare in Libano, poi in Kurdistan – dove abbiamo aperto una nuova comunità – e trascorrere poi in Italia i mesi di luglio e agosto. Poi si vedrà, ma sono comunque tutte idee che naturalmente devo sottoporre al mio superiore e che sono legate all’evoluzione della situazione complessiva in Medio Oriente.
Con quale stato d’animo lascia la comunità che ha fondato nel 1982? È una pagina che si chiude. Da tempo desideravo lasciare a qualcun altro la responsabilità del monastero di Deir Mar Musa, con tutto ciò che questo significa anche in termini di questioni pratiche e amministrative, per dedicarmi a un lavoro a più ampio raggio. Certo sono deluso, speravo di poter essere un attore utile al processo di dialogo e riconciliazione di cui la Siria ha estremo bisogno. Continuerò però con questo obiettivo dall’esterno.
Come hanno reagito gli altri componenti della comunità di Mar Musa? I confratelli e le consorelle del monastero sono coraggiosi, tranquilli, forti.
Questo il testo della lettera
Ecc.mo Signor Kofi Annan, Segretario Generale emerito dell’Onu,

Pace e bene. Con questa pubblica comunicazione vorrei esprimerle innanzi tutto gratitudine per aver accettato questo incarico delicatissimo per la salvezza della Siria e per la pace regionale. Ci aggrappiamo alla sua iniziativa come dei naufraghi a una zattera! Lei è riuscito a superare lo scoglio dell’opposizione russa a qualunque proposta che comportasse un autentico cambiamento democratico. In prospettiva, la Siria può e deve costituire un elemento di bilanciamento delle problematiche regionali e non un cancro corrosivo. Mi sembra che una maggioranza di siriani ragioni in termini di equilibrio multipolare e non in quelli d’una nuova guerra fredda. Il popolo siriano è tradizionalmente antimperialista, ma molto di più è a favore della creazione d’un polo arabo che ne rappresenti il diffuso desiderio di emancipazione e autodeterminazione. Un sentimento questo che implica l’aspirazione a vera democrazia e riconosciuta dignità delle componenti culturali e religiose di questa società e degli individui umani che la compongono.

La dinamica regionale è marcata oggi da una difficoltà reale di convivenza tra popolazioni sciite e sunnite e di concorrenza tra esse. Ciò provoca anche grave disagio alle altre minoranze, innanzitutto quelle cristiane. La primavera araba, caratterizzata inizialmente dalla richiesta, specie giovanile, dei diritti e delle libertà, rischia la deriva confessionale violenta specie quando l’irresponsabilità internazionale favorisce la radicalizzazione del conflitto.

Signor Annan, lei sa meglio di chiunque altro che il terrorismo internazionale islamista è uno dei mille rivoli dell’«illegalità-opacità»  globale (mercato di droga, armi, organi, individui umani, finanza, materie prime …). La palude interconnessa dei diversi «servizi segreti» è contigua alla galassia della malavita anche caratterizzata ideologicamente e/o religiosamente.  Meraviglia che pochissimi giorni siano bastati ad altissimi rappresentanti dell'Onu per accettare la tesi della matrice «qaedista» degli attentati «suicidi» in Siria. Una volta accettata mondialmente la tesi liberticida che in loco c’è solo un problema d’ordine pubblico, non rimane che aspettarsi il ritiro dei suoi caschi blu disarmati per lasciare alla repressione tutto lo spazio necessario a conseguire il «male minore». Che la potenza nucleare e confessionale israeliana abbia interesse in una guerra civile a bassa intensità e lunga durata è solo un corollario al teorema. Si aggiunga che «gli arabi» non sono culturalmente maturi per la democrazia «reale» e il gioco è fatto! Resta in alternativa l’opzione della frantumazione su base confessionale del Paese, magari ritagliando ai caschi blu un ruolo anti strage per evitare disdicevoli eccessi bosniaci.

A causa delle esperienze non sempre felici degli osservatori Onu, l’ottimismo resta condizionato all’emergenza d’una concreta volontà negoziale nel  Consiglio di Sicurezza e all’interno del paese e a una larga assistenza da parte della società civile internazionale a quella locale. Tremila caschi blu e non trecento sono necessari a garantire il rispetto del cessate il fuoco e la protezione della popolazione civile dalla repressione per consentire una ripresa della vita sociale e economica. È urgente chiedere l’abolizione delle sanzioni non personalizzate che puniscono le parti più deboli e innocenti della popolazione.

C’è inoltre bisogno di trentamila «accompagnatori» nonviolenti della società civile globale che vengano ad aiutare sul terreno l’avvio capillare della vita democratica. Si tratta di favorire un’organizzazione statale basata sul principio di sussidiarietà e del consenso, eventualmente favorendo quella struttura federale più corrispondente alle principali particolarità geografiche (la federazione è l’esatto contrario della spartizione!). Solo dando fiducia all’autodeterminazione delle popolazioni sul piano locale si potrà riportare l’ordine e combattere ogni forma di terrorismo senza ricadere nella repressione generalizzata e settaria.

È opportuno e urgente creare delle commissioni locali di riconciliazione, protette dai caschi blu e in coordinazione con le agenzie Onu specializzate, anche in vista della ricerca dei detenuti, rapiti e scomparsi delle diverse parti in conflitto. Sarà anche necessario porre al più presto la questione della riabilitazione civile dei giovani coinvolti in organizzazioni terroriste e malavitose.

Lei ha ripetuto che per riappacificare occorre un processo politico negoziale. Ma si può immaginare questo senza un vero cambiamento nella struttura del potere, specie in una situazione come questa dove il governo è una facciata e anche il regime al potere obbedisce a un oscuro gruppo di supergerarchi? Bisogna salvare lo stato, certo. Esso è di proprietà del popolo. Ma prima è necessario liberarlo.

La sua iniziativa, caro Signor Annan, segna una tappa rivoluzionaria nel percorso dell’esercizio della responsabilità internazionale nella soluzione dei conflitti locali. La presenza disarmata dell’Onu oggi in Siria è una profezia gandhiana che vale ben oltre la crisi puntuale che si vuole così risolvere. La priorità sia allora quella di proteggere la libertà d’opinione e d’espressione della società civile siriana senza la quale è impossibile perseguire gli altri obiettivi essenziali alla pacificazione nazionale.
Con stima e gratitudine.
23/05/2012

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 16 giugno 2012