lunedì 31 ottobre 2011

SILLABARI : La diversità e la diseguaglianza

SILLABARI : La diversità e la diseguaglianza

Da un lato, scopriamo il valore delle diversità; dall'altro, denunciamo il peso delle diseguaglianze. Ma le due letture si intrecciano raramente

Da qualche tempo ha crescente spazio – in analisi, dibattiti, proposte – il riferimento alle diversità. Un aspetto che si affronta con dati statistici, in analisi comparative, in documenti ufficiali e pubblicazioni di varie impostazioni. È tema di ricerche ed iniziative avviate grazie a bandi e finanziamenti dell’Unione Europea. C’è un aspetto dinamico: si guarda a possibili processi di cambiamento, a percorsi, nella prospettiva, appunto, una futura (possibile?) “società delle diversità”.

Teniamo presente questo dato: la popolazione mondiale sta per raggiungere la cifra di sette miliardi. Chiaro che saremo – e siamo già – proprio tanti; e che non si può essere che diversi.

Qui, limitandomi al contesto europeo, rifletto su alcune iniziative, già avviate o che si terranno nei prossimi mesi, delle quali ho conoscenza diretta.

“Living in diversity” è il tema posto al centro del suo impegno da un gruppo (i “concerned citizens of Europe”, così si definiscono) che da due anni ormai ha aperto, al Centro di Cultura contemporanea di Barcellona, un percorso di analisi e interventi. Ci si propone di far crescere, rispetto ai dati delle diversità, attenzione e consapevolezza. Nessuna risposta facile, nessuna soluzione a breve: si agisce in una prospettiva di medio – lungo periodo, riferita agli anni che abbiano davanti. Cercando di far crescere consapevolezza, appunto, della complessità dei processi in atto, dei molteplici e plurali soggetti coinvolti, dei dati della cultura di destra e del “populismo” che si sono in questi anni consolidati in tanti paesi europei; e certo del peso della crisi economica e sociale che stiamo attraversando.

Un altro riferimento: il 7 e l'8 dicembre prossimi si terrà a Berlino un convegno internazionale su “Diversity in societies of immigration”: studi di “casi”, e di modelli e politiche, con attenzione alle vicende – di cambiamento, di “integrazione”, di conflitto – in varie città europee. La domanda: come definire le diversità nel contesto delle nostre società, “società dell’immigrazione”.

Dunque l’impegno a ripensare le categorie di analisi e le parole stesse che usiamo. Si porta l’attenzione su contesti e normative, su strategie e pratiche, sui diversi “attori”. Si mette a fuoco il fenomeno dei numeri altissimi – e saranno sempre più alti – di coloro che sono parte dei processi di mobilità (meglio che dire migrazioni, un termine che coglie una parte soltanto di un fenomeno che necessariamente, nel prossimo futuro, andrà ridefinito).

Qui una nota sul “genere”, categoria ormai largamente recepita (io preferisco i generi). Di questo dato di diversità ci si è resi conto. Siamo donne e uomini.

Però non basta. Le diverse generazioni (condizioni, esperienze, aspettative); quali le risorse (economiche, culturali), quali i contesti (normative, processi di apertura, o resistenze). E anche in questo caso, importanti i molteplici, dinamici percorsi.

Gli altri riferimenti: ci sono le persone definite come diversamente abili e i “soggetti” LGBT.

Esperienze di vita a lungo lasciate invisibili, che sono oggi nominate.

Si è passati a un linguaggio, e ad attenzione e riconoscimenti, che rendono possibile appunto riflettere sulle diversità. In una conferenza all’Università di Padova (8 ottobre) si è affrontata in questa prospettiva la questione dell’omofobia: letture delle molteplici esperienze, iniziative, prospettive. Diversi: nella vita quotidiana, nelle relazioni. Certo anche nell’esperienza di discriminazioni; situazioni pesanti in molti paesi dell’Europa dell’Est, e certo ancora in Italia.

Ma – questo è emerso anche nel dibattito – assistiamo a un processo di crescente visibilità.

E di “voce”.

Oggi parliamo di coloro che sono diversamente abili (e non più di disabili, handicappati).

Anche queste, situazioni di invisibilità, e di fatto di esclusione dal “vivere normale”. In iniziative (realizzate dalla Fondazione Adecco in collaborazione con enti locali, che l’estate scorsa sono state presentate in incontri in diverse città) si sperimentano modalità di immissione nel mondo del lavoro di persone – giovani e meno giovani, donne e uomini – appunto diversamente abili. Operatori sociali, amministratori, imprenditori, e gli stessi soggetti, hanno avuto modo di, e sono riusciti a, riconsiderare le loro diversità nella prospettiva di vite, appunto, normali.

Analisi e letture che contraddicono la (più consueta) pratica di sottolineare, di questa fase storica, soltanto gli aspetti negativi. Tutti gli ambiti a cui si riferiscono questi accenni sono segnati dall’emergere di soggetti attivi e da spinte e meccanismi che, in qualche misura, aprono alla prospettiva di cambiamenti, di possibili percorsi, nella società, nella cultura. E c’è la pressione che in vari modi viene da organismi e iniziative a livello europeo e internazionale.

Stiamo – forse – imparando a collocarci nel quadro delle molteplici, complesse diversità.

Che si incrociano, certo, con i meccanismi – molti assolutamente tradizionali, alcuni nuovi – delle disuguaglianze: disuguaglianze nel riconoscimento di diritti, nella disponibilità di risorse economiche e nell’accesso a sostegni e servizi, e nelle “capabilities” (di questo ci ha reso consapevoli Amartya Sen).

Sono sistemi di pesanti disuguaglianze quelli in cui siamo collocati. Le nostre società sono strutturate in gerarchie economiche e sociali; anche il sistema dei diritti è, a suo modo, gerarchico. Non facile modificare questo impianto. Di questo ha parlato Romano Prodi nel ciclo di trasmissioni che tiene su La7, con attenzione ai meccanismi e ai dati, e con una forte denuncia della gravità dei problemi. Richiamando i meccanismi positivi che hanno caratterizzato, nei decenni scorsi, il “modello” del welfare state si è interrogato, facendo anche riferimento alle diverse situazioni e aree geografiche che conosce bene, sul mondo che verrà.

Nelle letture che colgono contesti ed esperienze in cui – in qualche modo – ci si apre allo scenario del vivere nelle diversità, quasi mai si affrontano le disuguaglianze. O si può forse dirlo così: questo dato lo si lascia sullo sfondo.

E nelle articolate analisi proposte nel corso della trasmissione del 18 ottobre, la parola diversità non è stata pronunciata.

Voglio solo dire che è davvero complessa, la lettura del sociale. Queste difficoltà le troviamo in tutti i differenti approcci disciplinari che si occupano di queste questioni (sulla base di statistiche e di studi approfonditi, affrontati sia a livello europeo sia in una prospettiva “globale”).

Non facile, confrontarsi con i molteplici aspetti del mondo che verrà.

Le foto sono di Salvatore De Villo
La riproduzione di quest'articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, lunedì 31 ottobre 2011

venerdì 28 ottobre 2011

DIARIO DI PAESE :INDIGNADOS : LA DISEGUAGLIANZA INSOPPORTABILE

DIARIO DI PAESE :INDIGNADOS : LA DISEGUAGLIANZA INSOPPORTABILE

CHE cosa vogliono le migliaia di cittadini che da quasi un mese manifestano davanti a Wall Street sollevando un´ondata di protesta che interessa ormai le maggiori città americane? Come leggere questo movimento variegato che non ha leadership, non ha scopi definiti, non si lascia facilmente rubricare da un´etichetta di partito? Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni importanti sindacati; ma non è per nulla inquadrabile in un´organizzazione gerarchica e poco inclusiva come il sindacato. Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni esponenti democratici di prestigio (e la buona menzione del presidente Obama); ma è critico nei confronti di un partito che non ha dimostrato coraggio di fronte ai repubblicani e attenzione all´impoverimento della società americana. Ma, nonostante questi distinguo rispetto alla politica organizzata, i cittadini che manifestano non sono “mob”, non sono una massa arrabbiata di americani invidiosi dei loro pochi ricchi concittadini, come gridano i repubblicani di “FoxNews”. E non sono neppure una pericolosa espressione di populismo anarchico, teste calde che vogliono, ancora secondo le accuse repubblicane, dividere l´America con la lotta di classe.

In effetti la stessa espressione “populismo” è poco adatta a rappresentare questo nuovo movimento di protesta, che per la radicalità ma anche ragionevolezza degli slogan e dei messaggi assomiglia al movimento per i diritti civili degli anni ´60, quello che ha manifestato contro la guerra in Vietnam, contro la discriminazione razziale e di genere. In quelle lotte vi era il futuro. L´America di oggi è figlia di quel movimento giovanile. Sarà anche questa volta così?

Per molti intellettuali e per alcuni commentatori televisivi potrebbe essere così. E quindi, l´espressione populismo (di per sé una categoria fumosa e difficile da tradurre in un concetto chiaro) è ancora meno adatta.

Populista è certamente il movimento del Tea Party, una congerie di molte delle categorie tradizionalmente associabili a questo tipo di movimento, per esempio: anti-intellettualismo o attacco ai “sapientoni” (per dirla con il Senatore Bossi) perché criticano e non si identificano con le opinioni popolari, istintive e radicali; e anti-governo o attacco alle politiche sociali che creano grossa burocrazia e mettono in moto più Stato e quindi un surplus di controllo della sfera economica. Il Tea Party si sente a suo agio con l´agenda repubblicana che da diversi decenni ha dato la sua totale adesione alla dottrina liberista, la quale addossa le responsabilità del declino economico dell´America a chi propone una più giusta distribuzione della ricchezza non a chi l´avversa, nella convinzione che se la natura degli interessi e dell´accumulazione seguisse il suo corso, a beneficiarne sarebbero tutti in proporzione. La retorica cristiana dei talenti e della responsabilità di usarli al meglio dà pathos a questa ideologia anarco-liberista, che si sente autorizzata dal Vangelo a svolgere la sua propaganda contro lo Stato, luogo satanico del potere e contro coloro che pensano di usarlo per una buona causa di giustizia. Dunque, anti-razionalismo, anti-intellettualismo, anti-governo: ecco gli ingredienti del populismo dei Tea Party. Il quale non è soltanto un movimento di protesta, ma è un movimento con un´agenda politica ben precisa, come il Congresso americano uscito dalle ultime elezioni sta dimostrando. Certo, il Tea Party non è unito sotto la guida di un leader carismatico e in questo non è simile ai populismi europei. È federalista come il Paese nel quale è nato, diramato attraverso le chiese evangeliche, riunito sotto i vari predicatori che mettono insieme l´omelia ogni domenica.

Occupy Wall Street non ha nulla di tutto questo. Ed è questa la ragione dell´incredibile attacco dei leader del Tea Party, i quali hanno annusato molto correttamente che questi manifestanti non hanno nulla da spartire con loro. Occupy Wall Street è un movimento spontaneo, e quindi democratico nel senso più elementare del termine, perché ispirato a ideali di auto-governo e di eguaglianza di cittadinanza. Lo slogan “Noi siamo il 99%” non intende fare guerra all´1%, cioè ai miliardari. Non è l´invidia che li guida come ha sostenuto un candidato repubblicano. Lo slogan chiede più semplicemente che chi ha più deve più contribuire anche perché quel di più lo ha in ragione di politiche adottate dai governi americani dalla fine degli anni ´70. Politiche alle quali tutti hanno obbedito e che però hanno favorito non tutti allo stesso modo. E non a causa dei talenti che il Signore distribuisce diversamente, ma di una mirata e sistematica politica della diseguaglianza.

L´equità fiscale non è proprio un obiettivo rivoluzionario. Se così appare è perché le diseguaglianze economiche e sociali sono ormai così radicali da aver dato vita a due popoli, un po´ come nell´antica Atene: anche oggi, gli oligarchi, benché dentro il sistema democratico, scalpitano per avere privilegi e non sottostare alla regola dell´eguaglianza. Occupy Wall Street mette in luce questa antica e sempre nuova lotta tra oligarchia e democrazia. Soprattutto, mostra come la seconda non sia semplicemente una forma di governo, ma anche un ideale, una visione di società che quando le diseguaglianze si radicalizzano, come ora, non riesce più ad avere il consenso di tutti. L´1% simbolico – i super miliardari – sta a significare che alcuni sono fuori dal patto democratico dell´eguaglianza. È questa la radicalità di Occupy Wall Street.

A chi è indirizzata questa radicalità? Qual è la relazione di questo movimento democratico con la democrazia delle istituzioni? Queste domande mettono in luce la crisi profonda di rappresentatività delle istituzioni democratiche. Occupy Wall Street non ha specifici obiettivi se non uno: entrare in comunicazione con coloro che operano nelle istituzioni, i quali hanno da anni spento l´auricolare e sono, come si dice in Italia, auto-referenziali. Dall´interno dei parlamenti non si vuole ascoltare. La scollatura tra dentro e fuori delle istituzioni democratiche è preoccupante e, purtroppo, non è destinata a risanarsi velocemente. Questo movimento chiede dunque una ricostituzione della rappresentanza politica. Sfida gli eletti nel nome dell´autorità dell´ascolto. E ha senso occupare le piazze fisiche, visto che quelle mediatiche sono interessate a mettere una cortina di silenzio sulle opinioni dei cittadini. Se c´è un contributo che Occupy Wall Street può dare è quello di creare un clima politico finalmente di attenzione; di costringere chi si occupa delle politiche nazionali a non girare le spalle a coloro che di quelle politiche devono subire le conseguenze. Si tratta di un richiamo ai principi democratici, dunque: a quella promessa di libertà e giustizia per tutti che è scritta nelle nostre costituzioni.

NADIA URBINATI da La Repubblica del 13 ottobre 2011

Eremo Via vado di sole, L'Aquila ,venerdì 28 ottobre 2011

DIARIO DI PAESE :Indignados. Chi sono ?

DIARIO DI PAESE :Indignados. Chi sono ?

Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera mercoledì 19 ottobre con l’articolo “Una bandiera primitiva” tenta di definire gli indignados. Chi sono ? Che vogliono? Martedì 18 su Libero e su Il Giornale Rondolino e Buttafuoco tentano a loro volta una fotografia di una certa tinta..Qualcuno ha affermato che queste analisi sono un atteggiamento snobistico sollecitato da una società di squali Ma sono veramente confusi ed emotivi, poco lucidi per il mondo attuale gli indignati che stanno manifestando in tutto il mondo ? Da chi sono formati gli indignati italiani: Movimenti spontanei nati sul web e sui social network Movimenti studenteschi come Unicommon e Link Sindacati come FIOM e Cobas Antagonisti e movimenti dei centri sociali italiani Ricercatori universitari come quelli raccolti da Rete 29 aprile e Coordinamento Precari Varie associazioni come quella del Popolo Viola.I punti fondamentali su cui vogliono delle risposte certe dai governanti : Un sapere pubblico: investire nel futuro finanziando oggi l’Istruzione Pubblica ;La Tobin Tax: una tassa sulle transazioni finanziarie ; L’acqua pubblica: no alla privatizzazione o liberalizzazione neppure della gestione di beni di primissima utilità;Default selettivo: se lo stato fallisce a pagare devono essere le banche, non i cittadini.Gli Indignados Italiani hanno anche dei leader: Francesco Raparelli di Unicommon; Giuseppe De Marzo di Coordinamento 15 ottobre ;Claudio Riccio di Link

Ecco il testo dell’articolo di Galli della Loggia : “L'indignazione è all'ordine del giorno. È di gran moda, anzi, visto che parti significative delle classi dirigenti europee e americane che fino a ieri sembravano del tutto a loro agio nel «sistema», adesso arrivano a dirsi, se non «indignate» anch'esse, perlomeno solidali con chi lo è.

«L'indignazione» all'ordine del giorno è l'ennesima manifestazione dell'antipolitica che cresce, della progressiva cancellazione dall'esperienza di masse crescenti di cittadini di che cosa voglia dire la politica e di che cosa sia il mondo. Infatti, chi cerca di capire come funziona la società, e insieme ha qualche rudimento di economia, e dunque qualche idea di che cosa siano la polis e il suo governo, di che cosa sia e di come sia organizzato il potere, non si indigna. Propone qualcosa, sciopera, fa la rivoluzione, vota per l'opposizione o ne crea una: ma non si indigna. Soprattutto non sta lì a «proclamarsi indignato». Marx non si indignava. E neppure Turati, per dire qualcuno di tutt'altra pasta. Robespierre lui sì, amava dirsi indignato, ma forse è passato alla storia per aver fatto anche qualcos'altro.

L'indignazione in politica, quando è autentica, è una reazione immediata ed elementare. Se diviene permanente, se diviene una bandiera, allora testimonia di una concezione delle cose più che semplificata: primitiva. È la concezione per cui il mondo dovrebbe essere buono e potrebbe esserlo se non fosse per qualche sciagurato che viola le regole senza che nessuno pensi a impedirglielo rimettendo le cose a posto. Non basta l'ingiustizia, infatti, per suscitare l'indignazione: è necessaria l'impunità dei colpevoli veri o presunti. L'indignazione - lo si vede e lo si sente bene nelle agitazioni odierne - è sempre una denuncia della protervia degli impuniti. Essa è animata da questo tratto elementare come testimonia del resto il carattere altrettanto elementare del rimedio che la piazza «indignata» propone per gli attuali problemi del mondo: il debito, i debiti? Non li si paghi! Un occhio per occhio finanziario, insomma: come non averci pensato prima.

Proprio per il suo tratto radicalmente (ed elementarmente) etico, l'indignazione ha successo innanzitutto fra i giovani ma più in generale in tutta una società come la nostra dove, come ho detto, sta scomparendo la politica con la sua noiosa complessità e dove tutte le spiegazioni del mondo fornite dalle ideologie di un tempo non hanno più corso.

Guai però, terribili guai, a sottovalutare la portata dei sentimenti elementari. Specie se scelgono come nemico un nemico già di per sé - per sua natura, a prescindere da ogni malefatta - impopolare come la finanza e le banche. È, questa, l'impopolarità tipica di ciò che risulta astratto, immateriale, lontano, per giunta transnazionale senza patria, incomprensibile (nessun gergo come quello finanziario è interamente dominato dall'inglese); come apparentemente incomprensibile è la magica capacità del denaro di crescere su se stesso. La finanza è il volto cattivo del capitalismo industriale che, almeno lui, si tocca con mano e più o meno si capisce cosa fa e come funziona.

Nulla come la finanza si presta a meraviglia a divenire il simbolo negativo dell'intero capitalismo, dell'intera dimensione economica quando questa non riesce più a darci le cose necessarie alla vita (innanzitutto il lavoro). Ma anzi, come sta accadendo in questi anni minaccia con le sue dure leggi di occupare ogni territorio sociale, di sterilizzare e cancellare ogni ideale collettivo, ogni progetto, ogni speranza. Quando accade cioè, come ora, che l'economia si trasformi in un economicismo asfissiante: vale a dire che essa diviene l'alfa e l'omega di tutto, il vincolo assoluto di ogni decisione.

C'è una sola barriera capace di tenere separata l'economia dall'economicismo. C'è una sola arma per impedire che le nostre società diventino altrettante succursali delle banche (magari della Bank of China): ma non è quella di indignarci e tanto meno di non pagare i debiti. È la politica. A tutti i costi, discutendo e dividendoci, ma questo solo ci può tirare fuori dai guai: tornare a una grande politica “

Dunque ?

Eremo Via vado di sole, L'Aquila,giovedì 27 ottobre 2011

giovedì 27 ottobre 2011

DIARIO DI PAESE : Effetti speciali

DIARIO DI PAESE : Effetti speciali

Roma come Napoli. .La fotografia di un paese che prende un giorno di ferie per regalarsi un sogno .

Afferma il neo premiato ( Premio Nobel ) Christopher Sims (in un recente articolo sul Journal of Economic Perspectives) : “Di fatto l’economia non è una scienza sperimentale e non può esserlo. Gli esperimenti “naturali” e i “quasi” esperimenti non possono di fatto essere esperimenti. Sono strumenti retorici che spesso spingono a evitare il confronto con le reali difficoltà econometriche.

The fact is, economics is not an experimental science and cannot be. "Natural" experiments and "quasi" experiments are not in fact experiments. They are rhetorical devices that are often invoked to avoid having to confront real econometric difficulties.”


Ci sono stati due esperimenti oggi a Roma e a Napoli di assalto economico a beni in svendita. A Roma per l’apertura di un nuovo supermarket di elettronica che prometteva sconti del 50% su gli articoli in vendita migliaia di persone tra transenne, risse e disordini. Migliaia di persone anche a Napoli per l’acquisto di un biglietto a prezzo scontato per la partita del Napoli calcio

A Roma : un enorme ingorgo ha avuto ripercussioni anche sulla Tangenziale e sul Gra. Il nord della città paralizzato per ore, mentre era ferma anche la metrò B per un tentato suicidio a Termini. Ottomila persone in fila al nuovo Trony, ma vietato l'ingresso a bambini e disabili per questioni di sicurezza. Risse, spintoni, schiaffi e vetrine in frantumi. Codacons chiede un risarcimento per i disagi e invita il negozio a dare un indennizzo ai cittadini danneggiati con un bonus da 100 euro da spendere nel punto vendita

Esperimenti naturali . Che però indicano un avamposto formidabile per nuovi indicatori economici .

Scrive Matteo Motterini nel suo blog Controvento (http://matteomotterlini.blog.ilsole24ore.com/)

: “Mi ha divertito il concorso bandito dall’Economist in cui si invitavano i lettori a proporre nuovi indicatori economici. Un farmacista ha detto di saper prevedere le crisi dalla vendita dei farmaci con fermenti lattici: l'austerità modifica le abitudini dietetiche e quindi stressa l’intestino. Intestini affaticati, crisi economica in arrivo. Un veterinario sostiene che le crisi sono precedute da una riduzione di vaccinazioni degli animali domestici. Un altro lettore consiglia di guardare alla vendita di preservativi. In aumento nei periodi di boom economico ma in diminuzione nei periodi di recessione. Lo stress è nemico della libido.

L’indicatore più originale riguarda la chioma dei politici. I Paesi in cui il leader politico perde molti capelli, si ingrigisce o, peggio, si sottopone a trapianto è certamente un Paese in cui questo leader ha molti problemi ed è destinato a finire male.

L’indicatore più “serio” e pronto all’uso per chi volesse arrischiarsi arriva da un analista finanziario. L’oro è un noto bene rifugio. E cosa succede prima delle crisi? Aumentano fortemente le ricerche su google sulla sua valutazione, come mostra il grafico qui sotto. La linea rossa è l’indice (invertito) della ricerca di “prezzo oro” su google e la blu l’indice fiducia dei consumatori.”

“Effetti speciali”(la presa d’atto di quanto accaduto dunque oggi a Roma e a Napoli ) è dunque un indicatore economico . Ma di che cosa ?

Dello scandalo che la nostra convivenza , il nostro modo di vivere ha prodotto negli ultimi decenni. Appena dopo la seconda guerra mondiale si andava in fila con tutta quella gente con una tessera dell’annonaria per avere un po’ di pane, il caro pane . E L’ECA l’ente comunale di assistenza vedeva in quegli anni a volte assalti di quel genere.

Poi questo paese è cresciuto, il boom economico ha portato livellamenti economici, nascita e crescita della classe operaia, del ceto medio. Insomma questo paese ha saputo dimostrare di saper crescere.

L'Azienda a Roma dunque incassa tre milioni di euro e si scusa con il sindaco di Roma per il disagio arrecato alla città

E ora che succede. E’ l’autunno di questo paese(ressa non per il pane ma per l'hi tech ) quando si aggiunge ancora a Milano il lancio di uova da parte degli operai alla volta degli edifici della Regione dopo l’annuncio che saranno licenziati.

Ecco che cosa succede .

Effetti speciali per un autunno italiano.

Eremo Via vado di sole, L’Aquila, giovedì 27 ottobre 2011

mercoledì 26 ottobre 2011

VOCI D’ALTRI E ALTRE VOCI Michele Sovente ( II )

VOCI D’ALTRI E ALTRE VOCI Michele Sovente ( II )

(da Per specula aenigmatis, 1990)

… at ego in summo monte ego maneo

cum tinnientibus umbris, cum evanescentibus

siderum laminibus fabulaturus: vidistisne

feretrum cerulum meum? Nonne ventus illud

dirupit et per fluctus fluctuantes disperdidit?

Audivistisne boatum? Et cepistisne hiatum?

At ego vestigia picturus deorum. At ego dearum

vestigia picturus algoris oras ignisque extremum

percurro. Extrema antiquorum verba percurro.

Memini et memini mihi aedes aeneas sedulum fabrum

finxisse. Memini et memini in aetheriis papyris

fabulas vates pinxisse. De Historia deiectus

Historiam deicio. Nec errabundum equitem voco

me ad statuas statuentes laturum. Nonne mei fatum

est in littera obscura? Hanc solum inquiro

et exquiro. Omnia et verba pereant. Et cetera.

*

[Vuote statue brulicavano nelle budella / della Storia. Gran tumulto sulla sommità / del monte faceva la legge. Di frodo cercavo / le vestigia degli dei. Vertebre venature verruche / il turbine cieco aveva dall’atmosfera catapultato. / Il turbine bieco le nubi aveva squarciato. Sof / fiando cenere sulle statue. Dappertutto impalpabili / filamenti di neve e luce biaccosa. Ruotavano schegge / magnetiche sul collo del Minotauro che guazzava / nell’immensa palude del nulla e lo vomitata a / quintali. La Storia furiosa e gloriosa gli depositava / in grembo sterco su sterco. Onice e metalli. Fibbie / e gingilli. Macchine e stratagemmi. Questo ed altro, / fabbro, imperterrito inventa e non darti pena: la tua / luce di iena, tutta la tua bella produzione / resteranno, sta’ certo, nelle budella della Storia: / * /… ed io sul più alto monte io resto / a parlare con le tintinnanti ombre e le meteore / scintillanti: chi ha visto il mio catafalco / inazzurrarsi? L’ha mai visto qualcuno nel vento / frantumarsi? Si è forse nel vuoto eclissato / il suo vorticoso boato? Ma io per dipingerle vado / cercando le vestigia degli dei. E forse per l’ultima / volta perlustro questi desolati e fiammeggianti / crateri. Forse per l’ultima volta le estreme / parole stremate degli antichi vado annusando. / Ombre e meteore mi rispondono «Ricorda i palazzi / di bronzo che il fabbro paziente per te costruì. / Ricorda e ricorda le favole d’aria che su ventosi / papiri il vate per te scolpì». La Storia megera / è la mia pattumiera: io sono la sua. Né invoco / l’errante cavaliere che mi conduca alle statutarie / statue. E ditemi: la mia sorte sta forse in una / lettera oscura? Sulle sue orme, disperato, consumo / i miei passi. E tutte le altre parole vadano a / picco. Et cetera.]

.

Nun ce abbasta

Me fótte ’a notte, me gnótte,

’a sete me guverna, ’a famma

me tène comme a na mamma,

sbàtteno ’i ffoglie attuorno, quanno

stò p’ascì ’u sole sghizzano ’i vvoglie,

’ncopp’ ’i ttàvule ’i ponte se scapìzza

vierno s’ ’a póvere attizza – stò ccò

’a scuorno r’ ’a vita ma niente ce può fò –,

ll’ossa meje se ’mpórpano r’ ’a lutàmma

’i ll’imberno, tu nun sì pe’ me

ll’ùrdemo scuoglio, ammagare putesse

’u mare squagliò ’i nomme nuoste

annure – è chisto ’u meglio cadó

ca ce fò ’a morte ma nun ce abbasta –,

d’i stelle mò mò accumparute forze

ponno stutò sti ’mbruoglie?

.

(da Carbones, 2002)

Parla Agrippina

Qui di fronte al mare

di fronte al mare

intreccio il mio dolore

con le onde…

Dolore assai crudele per un figlio

che crudelmente mi affidò alle onde:

cieche ombre adesso c’inseguiamo…

Il tufo in sé nasconde i miei sospiri

e nella lunga salsedine rinnova

la mia rovina…

Di fronte a me dilaga il racconto

delle onde: la mia voce

con l’acqua si confonde…

Mai tace il mio cruccio, la mia spina.

In sonno qualcuno

– Nerone? – mi supplica ghignando

Agrippina… Agrippina…

Da sempre questa

bieca eco mi accompagna mi attanaglia

e la dondola per chissà quanto ancora

il mare… il mare…

.

(da Bradisismo, 2008)

Senghiate trèmmano ’i riggiòle

Quanno ce cammine, tutt’ ’a casa

Abballa, na casa ca ’ncuòrpo tène

Tanta patemiénte, sèggie e spécchie

Se gnótteno póvere e vócche sgrignate.

Nu curtiéllo passa pe’ dinto

’i ppacche ’i mure, nu ciato fino fino

comme r’auciélle affucate, pe’ sótto

’i riggióle ’nbaranza se mòveno

e scroccano ’i ccose )o ll’ombre?)

e’ ’u piano accanto. E quanta

córe lònghe e nere, quanta vermicciùle

èsceno ’i notte ra for’ ’i riggiòle

pe’ te zumpò ’ncuóllo ’int’ ’u suónno!

.

(da Superstiti, 2009)

C’u scuro a viérno se sente

fuì ‘u viento ca se scarduléa

ac ventus per schidias

loin beaucoup s’en va avec

les plus petites particules

de tous les vents e carréa

il vento chissà dove

l’anima trascolorante l’anima

fluttuante di spettrali presenze

tandis que la nature

cutem aliam monstrat

rint’a nu munno ‘i mbruóglie.

L’uomo al naturale

Ecco: pianificati omogeneizzati

ciberneticamente programmati

riflessi condizionati.

Ecco: via gli stimoli aggressivi

i conflitti sempre e solo regressivi

uno il potere una la scienza:

gli Audiovisivi.

Ecco: sintetico funzionale

l’uomo al naturale.

(da L’uomo al naturale)

Lingua

Lingua in vacuo inscripta

relinquit simulacra amat

voraces-fugaces laminas

corporis nodos incidentes;

a latere historiae evidentia

evanescit trans nomina abrasa

et consumpta desideria

pacem vocant. Vacua lucet

lingua in frigore, varia

aequora eam incurrunt, nunc

lingufurca decidit-recidit

in vacuo inscripta infinito.

(da Cumae)

Michele Sovente era nato nel 1948 ed è autore di significative raccolte poetiche come L’uomo al naturale (Vallecchi, 1978), Contropar(ab)ola (Vallecchi, 1981), Per specula aenigmatis (Garzanti, 1990), Cumae (Marsilio, 1998), Carbones (Garzanti, 2002) e l’ultimo pubblicato appena un anno fa Superstiti (San Marco dei Giustiniani).

Sovente è stato cantore infaticabile e vitale, dapprima degli errori e degli orrori della società dei consumi, e poi della possibilità di immettere in una lingua poetica creativa a viva le inquietudini dell’esistere e le contraddizioni del vivere contemporaneo con una coerenza intellettuale stimabile. La sua attenzione anche per il significante lo porta a sperimentare e dare nuova linfa oltre che alla produzione in versi in lingua italiana a quella latina e dialettale (quello suo napoletano-flegreo), che costituiscono un unicum nella storia della letteratura italiana degli ultimi anni, dove poche sono le voci che sinceramente si sono sapute confrontare rianimandola, una lingua antica come il latino, o piuttosto un dialetto abusato quasi sempre secondo le oleografie più trite e rassicuranti.

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, mercoledì 27 ottobre 2011

martedì 25 ottobre 2011

MEDITERRANEO : Libia creazione artificiale del colonialismo italiano

MEDITERRANEO : Libia creazione artificiale del colonialismo italiano

Il colonnello Muammar Gheddafi non fu soltanto il satrapo orientale, vestito di una uniforme operistica che si pavoneggiava a Roma ostentando il ritratto di Omar El Mukhtar, martire della resistenza anti-italiana, sul bavero della giacca. Prima di seppellirlo conviene ricordare che il tiranno era pur sempre un leader nazionale e che perseguì progetti diversi, quasi sempre folli, ma non privi di una loro perversa genialità.

Il primo Gheddafi imparò la politica sulle pagine del Mein Kampf di Gamal Abdel Nasser, pubblicato e diffuso nel mondo arabo sotto il titolo di «Filosofia della Rivoluzione». Scelse la carriera militare perché le forze armate potevano essere, come nel caso del leader egiziano, la piattaforma da cui balzare alla conquista del potere. Riunì intorno a sé un gruppo di giovani ufficiali perché così aveva fatto Nasser nel 1952. Volle che il primo atto della rivolta fosse la cacciata del re perché Idris, ai suoi occhi, era la versione libica dell’egiziano Farouk. Scelse per sé il grado di colonnello, dopo la vittoria, perché nessun altro rango militare gli sarebbe apparso più desiderabile di quello dell’adorato Nasser. Fu nazionalista e panarabista perché quelli erano i due cardini dell’ideologia con cui Nasser voleva promuovere la rinascita politica e morale del mondo arabo. Dovette comprendere rapidamente, tuttavia, che l’identità nazionale libica era molto più labile delle identità nazionali dell’Egitto, del Marocco, dell’Algeria e della Tunisia.

La Libia era una creazione artificiale del colonialismo italiano, uno Stato composto da due territori (la Tripolitania e la Cirenaica) che avevano avuto storie diverse, popolato da tribù che avevano interessi contrastanti, abitato da circa due milioni di persone (tanti erano i libici quando Gheddafi conquistò il potere), sparse su un enorme territorio prevalentemente desertico. Demograficamente povera, economicamente sottosviluppata e priva di un forte passato nazionale, la Libia di Gheddafi era tuttavia, potenzialmente, un paese ricco, e tale sarebbe diventato a mano a mano che le grandi compagnie petrolifere scoprivano nuovi giacimenti di petrolio e di gas. A differenza di altri leader nazionali dei paesi emergenti, il colonnello ebbe quindi sempre a sua disposizione i mezzi finanziari necessari al perseguimento dei suoi obiettivi; ed è probabile che tanta abbondanza lo abbia sollecitato a concepire sogni smisurati e stravaganti. La storia della sua politica è anche la storia del suo denaro e del modo in cui venne impiegato.

La sua prima mossa fu quella di utilizzare il periodo coloniale italiano per risvegliare un sentimento nazionale non ancora esistente. La sua seconda mossa fu il panarabismo, vale a dire la formula adottata dalle fusioni che Nasser aveva già tentato con la Siria. Ebbe qualche apparente successo, ma nessuno dei matrimoni celebrati da Gheddafi (con l’Egitto, con la Tunisia, con il Marocco) venne consumato. Mentre il panarabismo restava soltanto una generosa utopia, Gheddafi andava alla ricerca di altri luoghi e di altri impieghi per il suo denaro. Decise che avrebbe combattuto l’imperialismo delle potenze neo-coloniali soprattutto per procura, vale a dire sostenendo e finanziando tutti i «movimenti di liberazione», dalle Filippine all’Irlanda, indipendentemente dalla loro fisionomia politica e dalla loro connotazione etnico-religiosa. E poiché il pozzo del denaro era senza fondo, Gheddafi dava prova contemporaneamente di una sorprendente bulimia militare e riempiva i suoi arsenali di aerei, carri armati, navi militari, sommergibili, missili, cannoni e armi leggere. Sembra che un giornalista straniero gli abbia chiesto: «Ma come può l’esercito libico di 30.000 uomini, diciamo pure di 60.000 se lei ne raddoppia la dimensione come pianificato, far funzionare 3.000 carri armati di provenienza sovietica?». Se fosse stato sincero, Gheddafi avrebbe risposto che diffidava delle forze armate e preferiva formazioni di militanti fedeli, create dopo la rivoluzione.

I suoi interessi e le sue ambizioni, nel frattempo, si spostavano dal mondo arabo all’Africa. Dopo avere sfrontatamente comperato con un diluvio di denaro la presidenza dell’Unione africana, cominciò a definire se stesso, senza un’ombra d’ironia, «re dell’Africa», anzi «re dei re dell’Africa», la carica che in passato era stata del «Negus Negast», imperatore d’Etiopia. In patria invece sosteneva di non avere cariche istituzionali e di essere semplicemente il «fratello leader», «guida verso l’era delle masse», «capo della rivoluzione». Per educare il suo popolo e rinnovare lo Stato scrisse un «libro verde» in cui erano esposti i princìpi politici ed economici della Terza Teoria Universale, una sorta di ultima profezia che avrebbe definitivamente seppellito quelle del capitalismo e del comunismo. Queste diverse incarnazioni, puntellate dai suoi generosi finanziamenti, lo avevano trasformato fisicamente.

Il giovane tenente del 1969, sobriamente vestito in una uniforme militare di taglio inglese, era diventato un nababbo orientale, avvolto in burnus sgargianti, spettinato, irsuto, mal rasato, regalmente capriccioso, protetto da un drappello di formose e robuste moschettiere. Le sue successive incarnazioni hanno procurato a Gheddafi uno stuolo di nemici. La Francia lo detestava per le sue interferenze nel Ciad e per l’attentato contro un aereo francese, la Gran Bretagna per l’uccisione di una poliziotta colpita da uno sgherro libico di fronte all’ambasciata di Libia a Londra, gli Stati Uniti per il contenzioso sul golfo della Sirte e l’attentato in una discoteca di Berlino, la gran Bretagna e gli Stati Uniti insieme per l’attentato contro un aereo della Pan American nel cielo scozzese di Lockerbie, i leader arabi per le sue intollerabili irruzioni negli affari interni dei loro Paesi, la Fratellanza musulmana per il modo in cui aveva perseguito, incarcerato e ucciso gli islamisti libici, la Svizzera per le misure di rappresaglia decise dal colonnello dopo l’arresto di Hannibal in un albergo di Ginevra, la Bulgaria per la lunga detenzione di alcune infermiere accusate di un reato inesistente. Aveva anche qualche amico, tra cui alcuni Stati africani e quei Paesi che, come il Venezuela di Hugo Chavez, lo consideravano una provvidenziale spina nel fianco dell’Occidente imperialista.

Ma il suo scudo più efficace fu il peso degli interessi petroliferi nell’economia dei Paesi che lo odiavano. La svolta ebbe luogo quando lo stesso Gheddafi, assediato dalle sanzioni e consigliato forse dal figlio Sef El Islam, decise che la rinuncia al nucleare gli avrebbe permesso di rompere l’assedio. Comincia così una fase in cui il colonnello non cambia stile e non abbandona le sue stramberie, ma esce dall’isolamento e mette a segno qualche successo come la liberazione di uno degli attentatori di Lockerbie, detenuto in un carcere scozzese. Sembra che le sue colpe siano state dimenticate e che i suoi potenziali nemici siano disposti ad accogliere festosamente (qualcuno troppo festosamente) il ritorno all’ovile della pecora nera. Molti sperano di averlo ammansito e contano di fare con il suo Paese affari importanti.

Tutto cambia ancora una volta quando il suicidio di un giovane tunisino fa saltare il coperchio della pentola in cui bolle e ribolle la rabbia dei giovani arabi. La rivolta libica scoppia a Bengasi, vale a dire in quella parte del Paese dove esiste una vecchia fronda che Gheddafi non è mai riuscito a estirpare. Ma la protesta non sarebbe bastata a detronizzare il Raìs se alcuni dei suoi vecchi nemici non avessero deciso di sostenere i ribelli riducendo considerevolmente la forza della repressione. Qualcuno lo ha fatto per saldare vecchi conti, recitare la parte del paladino della democrazia araba, prenotare per sé una fetta considerevole della ricchezza petrolifera della Libia. E qualcuno, come l’Italia, lo ha fatto per non essere estromesso dalla partita finale. Se avesse potuto difendersi in un’aula di tribunale, Gheddafi avrebbe forse chiamato sul banco dei testimoni molti soci d’affari. Ma della sua umiliante fine politica e umana, se avesse conservato un briciolo di intelligenza, avrebbe potuto rimproverare soltanto se stesso.

Sergio Romano Il volto di un satrapo 21 ottobre 2011 Il Corriere della sera

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 26 ottobre 2011

MEDITERRANEO : Questioni libanesi

MEDITERRANEO : Questioni libanesi

La Libia del dopo Gheddafi affronta il primo non indifferente ostacolo. Il corpo del dittatore, congelato in una cella frigorifera, diventa il simbolo della battaglia politica che scuote il Consiglio nazionale transitorio (Cnt): c'è chi vorrebbe seppellirlo a Sirte in una tomba anonima, altri propongono di tumularlo a Misurata, la città martire assediata per mesi dai lealisti, la tribù di Gheddafi vorrebbe portarselo via, secondo le consolidate usanze beduine. Il Colonnello è già un cadavere ingombrante che sta scatenando reazioni contrastanti mentre scorrono sui siti Internet le immagini di un'esecuzione barbarica, profondamente diversa dalle versioni ufficiali accreditate a Tripoli.

Il tragico epilogo di Gheddafi fa affiorare, come forse era prevedibile, una Libia spaccata in due. Il Consiglio nazionale transitorio si prepara ad annunciare la completa liberazione del Paese, il passo che dovrebbe precedere le dimissioni del Governo provvisorio. Ma l'aspetto più inquietante è che l'annuncio avverrà a Bengasi, la capitale della Cirenaica che ormai si contrappone a Tripoli seguendo antiche divisioni che nessuna monarchia o dittatura hanno mai ricomposto.

Il dopo Gheddafi dovrebbe dare l'eccitazione ma anche la vertigine di una pagina bianca tutta da scrivere: l'inizio di trattative per formare un nuovo Governo, poi un'assemblea costituente ed elezioni, forse, entro un anno. Quello che stanno facendo in queste ore nella confinante Tunisia, domani alle urne per la costituente, dovrebbero ripeterlo i libici. Ma in questa atmosfera confusa e pesante, già incupita dopo l'euforia seguita all'uccisione del Qaid, sembra un'impresa quasi impossibile.

Seri dubbi ci sarebbero stati anche in una situazione meno tesa e per una semplice ragione: con Gheddafi è sparito lo Stato libico, un Paese che aveva tenuto in pugno per 42 anni.

In Libia non ci sono mai state elezioni ma neppure istituzioni, quelle che esistevano erano soltanto dei simulacri, un fantasma denominato Jamaihiriya, la repubblica delle masse. Che cosa fosse nessuno lo ha mai capito ma la gestione, anche quella burocratica, si riduceva al 'divide et impera' di Gheddafi che dominava distribuendo prebende e punizioni.

L'incertezza è massima perché insieme allo Stato si deve rifondare pure una nazione. La guerra è iniziata con l'intervento Nato in appoggio ai rivoltosi di Bengasi. Il Cnt nato in Cirenaica ha rappresentato in questi mesi la storica suddivisione della Libia: furono prima la colonizzazione italiana e poi la monarchia di re Idris, sostenuto dagli inglesi, a unire nel 1951 Tripoli e Bengasi. Queste contrapposizioni regionali sono affiorate con evidenza ed è stata pure avanzata l'ipotesi di uno Stato federale. Ma in questo caso sono forti i timori di disgregazione: la soluzione federale implica una spartizione del petrolio, difficile da accettare perché la maggior parte delle riserve è in Cirenaica.

L'altra incognita è quella etnica e tribale. Tripoli è stata conquistata anche dai berberi e questi non hanno intenzione di deporre le armi fino a quando non avranno il riconoscimento dei loro diritti. Pesano ovviamente pure le rivalità tribali. Le tribù sono 140, quelle che contano non più di una decina ma le vecchie fedeltà di clan resistono nonostante l'emancipazione dalle strutture tradizionali.

Poi c'è la questione islamica. Alla testa del Consiglio militare nella capitale c'è Abdel Hakim Belhaj: sono stati i suoi uomini che hanno conquistato Tripoli. È un 45enne con un passato nella Jihad e in rapporti con Al Qaida che ha conosciuto le duri carceri libiche. Nella nebulosa islamica, sostenuta dai finanziamenti dalle monarchie del Golfo, ci sono personaggi alla Belhaji, descritto come un pragmatico, ma anche altri meno inclini al compromesso. Una cosa è certa: la democrazia libica ancora prima di farla bisogna avere la forza di immaginarla. Questo è un Paese che deve riconciliarsi con se stesso e con i principi di umanità e legalità che negli ultimi decenni non ha mai conosciuto.

Il tragico epilogo lascia un Paese spaccato in due di Alberto Negri in Sole 24 ore 22/10/2011

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 26 ottobre 2011

lunedì 24 ottobre 2011

ARTE FACTUM : Solo cemento ?

ARTE FACTUM : Solo cemento ?

(Parte seconda . Leggi anche : Paesaggio costituzione cemento )

Si è spesso parlato dell’influenza del paesaggio sui sentimenti, ma non credo si sia mai parlato di quest’influenza su un atteggiamento morale.

(Jean Genêt, Diario del ladro)

A colmare la lacuna denunciata da Genêt arriva questo importante saggio di Salvatore Settis, già presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e accademico di vaglia.

“Paesaggio Costituzione Cemento”, pubblicato da Einaudi, ci mette di fronte ad uno scempio inimmaginabile, e ci costringe a misurarci con quella vocazione all’abuso che oggi è una macchia sull’identità civile di noi italiani e al tempo stesso un segno sicuro della nostra disaffezione alla cosa pubblica.

L’Italia ha costruito buona parte delle sue fortune storiche proprio sull’eterogeneità e sulle dolcezze del suo paesaggio, humus fertilissimo per l’attecchimento di mille attività dell’uomo, ma anche ispiratore di vicende artistiche la cui eco ancora perdura e fa da traino ad un’immagine di “Bel Paese” che forse sarebbe il caso di aggiornare definitivamente.

Ma la nozione stessa di paesaggio soffre, nella sua accezione comune, di un’approssimazione che le si sta rivelando fatale. Settis, infatti, spiega molto bene come “paesaggio” non sia solamente il declivio boscoso che osserviamo da una finestra, un elemento estetico del nostro orizzonte quotidiano e mentale, e quindi un’istanza sacrificabile allo sviluppo. Il paesaggio è invece condizione irrinunciabile a quello stesso sviluppo, inteso in senso fisico, culturale ed economico, ed è così strettamente propedeutico al patrimonio pubblico (ambientale, artistico, culturale, economico) da risultarne indistinguibile, in ultima analisi.

La storia recente del rapporto fra noi italiani e il nostro paesaggio, invece, è una storia di ingratitudine e irriconoscenza, ma è anche un esempio unico al mondo di cecità e autolesionismo. La colata di cemento con cui ogni giorno sigilliamo centinaia di ettari di suolo è un’ipoteca sicura sulla qualità della nostra vita, e un’eredità avvelenata per le generazioni a venire. I costruttori oggi in Italia comandano, e impongono a tutto il paese un’agenda folle di cementificazione, utile solo al loro profitto e dannosa per la nostra salute, i rapporti sociali, il tessuto civile.


L’Italia, com’è noto, è un paese che soffre di una grave stagnazione demografica. La bilancia fra nascite e morti è praticamente in pareggio da molto tempo, e nonostante questo, in Italia si continua a costruire senza posa, come se da un giorno all’altro dovessimo trasformarci in un paese da mezzo miliardo di abitanti.

Gli strumenti per contrastare – argomenta Settis – però li avremmo, sono tutti nella Costituzione; e anzi l’Italia è stato un paese pioniere nel dotarsi di strumenti giuridici per la tutela del proprio paesaggio.

Un interocapitolo del libro è dedicato proprio alla formazione e allo sviluppo del concetto di tutela, e lungo, avventuroso, appassionante è il repertorio di passaggi storici che in Italia hanno sancito l’affermarsi di una coscienza in tal senso, dal cinquecento fino ai giorni nostri.

Ma la riflessione sulla conservazione dei beni culturali e paesaggistici oggi subisce un impasse drammatica, soprattutto a causa dei conflitti di competenza fra Stato e Regioni, e di quello che Settis definisce il conflitto irrisolto fra urbanizzazione e tutela del paesaggio. Leggiamo. “Il contrasto fra le ragioni della tutela, cioè del pubblico bene, e quelle degli interessi privati, che nel sistema di età fascista aveva trovato un precario equilibrio sorretto solo dalla ferrea centralità di uno stato deciso a contenere l’urbanizzazione, esplose con le autonomie regionali”.

Ecco il nodo da sciogliere. Ecco “la chiave di lettura del labirinto normativo in cui il paesaggio è prigioniero, e i cittadini sono ostaggi: sotto le questioni […] che sembrano governare il conflitto Stato-Regioni si cela in realtà la loro lunga guerra per le competenze”. Con ogni legge, sostiene Settis, si sposta il perimetro delle competenze degli enti, contribuendo alla vanificazione della tutela, neutralizzando ogni possibile controllo e dando luogo ad uno stato di fatto in cui ogni abuso è legittimo.

Chi può spezzare questo circolo vizioso? Solamente noi, i cittadini. Rivendicando appieno le nostre prerogative, mettendo in campo una nuova pedagogia dell’ambiente e del paesaggio, reagendo allo spaesamento che ci deriva dal non riconoscere più il paesaggio in cui viviamo e che ci fa sentire fuori luogo; facendo mente locale, ovvero partendo "dalla propria personale e limitata esperienza come primo passo per una più vasta presa di coscienza"; promuovendo infine una azione popolare che abbia al suo centro la convinzione, moralmente e giuridicamente fondata, che "l'ambiente, il paesaggio, il territorio sono un bene comune sul quale tutti abbiamo, individualmente e collettivamente, non solo un passivo diritto di fruizione, ma un attivo diritto-dovere di protezione e di difesa".

Il compito è arduo, è vero. Ma non c’è alternativa.

Salvatore Settis .Tra i suoi libri recenti: Italia S.p.A. L’assalto del patrimonio culturale (Torino 2007); Artemidoro. Un papiro dal I secolo al XXI (Torino 2008); Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile (Torino 2010); Artisti e committenti fra Quattrocento e Cinquecento (Torino 2011).

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, lunedì 24 ottobre 2011

ARTE FACTUM : Paesaggio ,costituzione e cemento

ARTE FACTUM : Paesaggio ,costituzione e cemento

(Parte prima Leggi anche Solo cemento ?)

Renzo Moschini responsabile nazionale dei parchi di Legautonomie così recensisce il libro :"Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile": l'ultimo libro di Salvatore Settis. Oltre 300 pagine che raccolgono contributi diversi ma tutti legati da un filo rosso sulle vicende storiche, culturali e legislative di una questione oggi come non mai di drammatica attualità.

Di particolare interesse e novità è sicuramente la ricostruzione di come l'assemblea costituente giunse, tra non pochi contrasti e polemiche, alla approvazione dell'art. 9 della Costituzione. Articolo, come Settis non manca naturalmente di sottolineare anche con piglio polemico, di grande attualità rispetto alla attuazione del nuovo titolo V della Costituzione che ha alimentato e alimenta vivaci controversie e fermo al palo però dal 2001.

Se "Il Bel paese maltrattato. Viaggio tra le offese ai tesori d'Italia" , il recente libro di Roberto Ippolito (Bompiani), offre uno spaccato impressionate e sconfortante delle fin troppe Pompei di questo Paese, il libro di Settis mette ancora una volta a fuoco le "cause" più di fondo; politiche, culturali e soprattutto istituzionali e normative.

Una riflessione a tutto campo estremamente severa, e senza peli sulla lingua, sul mancato governo del territorio in virtù del quale all'urbanistica - ma non alla pianificazione urbanistica - è stato permesso tutto, con pesante corresponsabilità bipartisan. E se allo Stato e al ministero dei Beni culturali Settis non fa sconti, come ben sappiamo anche dai suoi pungenti interventi sulla stampa, il bersaglio principale resta l'incapacità complessiva delle istituzioni, nessuna esclusa, di mettere a regime politiche che evitino una continua controversia con sempre più frequenti ricorsi alla Corte Costituzionale che risultano spesso paralizzanti e tali da alimentare altri litigi e controversie.

Se lo Stato e il ministero dei Beni Culturali e Paesaggistici, come anche in questo caso Settis ben documenta, si porta la sua rilevante parte di responsabilità, le regioni non sono da meno. Naturalmente con alcune differenze, come risulta chiaramente dalle legislazioni regionali che, anche nelle situazioni migliori, si sono spesso fatte prendere la mano da tentazioni "contestatarie" per puntare su scelte che, lasciando sovente mano libera ai comuni, hanno rinunciato a programmazioni regionali degne di questo nome.

Il nuovo titolo V considerato "assai infelice" (ma altrove definito addirittura "sciagurato") che fornirebbe nuove munizioni per quella "raffica regionalista" che tanto temeva Concetto Marchesi alla Costituente, tanto da spingerlo e rivendicare senza incertezze che la nostra Carta prevedesse nella maniera più chiara e precisa la competenza esclusiva dello Stato sul paesaggio per evitare, appunto, indigesti spezzatini regionali.

E dal momento che la Repubblica non si "riparte" più in regioni ed enti locali ma è "costituita" da regioni ed enti locali, verrebbe meno, secondo Settis, quell'argine fondamentale a una disordinata e caotica gestione del paesaggio e più in generale del territorio e dell'ambiente di cui stiamo già facendo e gravemente le spese. A questo rovinoso approdo si sarebbe giunti in ragione di quel prolungato braccio di ferro tra stato e regioni iniziato assai dopo rispetto ai timori di Marchesi. Da allora ha preso avvio, secondo Settis, quel clima quasi da "assalto alla diligenza" statale da parte delle regioni, di cui egli fornisce numerosi esempi, che avrebbero reso sempre più difficile fissare le linee di confine tra ambiente, paesaggio e territorio, se di confine si può parlare. Comincia così quel "progressivo spostamento dell'asse" della tutela di cui oggi registriamo una pericolosa impennata.

Si tratta di una valutazione molto critica che coglie innegabilmente un dato che purtroppo è andato via via aggravandosi. Da parte mia, ho avuto in un certo senso la fortuna di vivere quella fase, prima come amministratore comunale e provinciale e poi come parlamentare in commissione affari costituzionali della Camera e in commissione bicamerale per le questioni regionali, impegnata fra le altre cose in una indagine sulle regioni speciali, e devo dire che non si può ridurre tutto ad una sorta di "fatti più là" tra stato e regioni.

Il braccio di ferro ci fu naturalmente e si ripresentò ogni qualvolta si dovette o si sarebbe dovuto decidere non tanto e non solo su come ripartire le competenze fino a quel momento interamente statali, ma soprattutto come stato, regioni ed enti locali avrebbero dovuto spingersi su quei terreni nuovi che allora si andavano delineando e non soltanto nel nostro Paese: inquinamento, suolo, la legge Merli, la legge 183, quella sul mare, e poi sui parchi e così via con la istituzione del ministero dell'Ambiente, tutte cose che naturalmente Settis ricorda e per molti versi ripercorre, ma che sembrano nel suo libro connotarsi prevalentemente per la rissosità piuttosto che per la faticosa ricerca di un nuovo equilibrio.

Sì, perché il braccio di ferro non riguardò tanto, o soltanto, l'assetto consolidato ma anche le nuove responsabilità che in campo ambientale stato, regioni ed enti locali erano per la prima volta chiamati a "immettere" nei propri ruoli. Il che implicava anche una nuovo assetto, per esempio, ministeriale e non solo per quanto riguarda i ministeri nuovi come l'Ambiente ma anche quelli tradizionali, per esempio Agricoltura che fino a quel momento aveva gestito i parchi, o quello della marina mercantile che poi avrebbe dovuto farsi da parte e non soltanto per le aree protette marine che per la prima volta entravano in scena tra molti "mal di pancia".

Ricordo una polemica rovente con il ministro Mannino proprio su questo punto dove lo stato non intendeva fare nessun passo indietro, abbarbicato a un centralismo che di danni ne aveva già fatti tanti e non solo a mare e sulle coste. Si tratta in sostanza di vicende la cui lettura non può essere affidata unicamente a come i vari soggetti istituzionali intendevano spartirsi le competenze consolidate, ma come queste dovevano misurarsi con una realtà che vedeva paesaggio, ambiente e territorio chiamati a misurasi con profonde trasformazione la cui risposta non poteva venire solo da una accorta ripartizione di ruoli.

Ho già ricordato che Settis riconosce chiaramente che oggi è impresa ardua stabilire dove finisce l' ambiente e inizia il paesaggio e poi il territorio. Il piano dei parchi in base alla legge 394 del 1991 ha saldato e raccordato questi diversi aspetti, come è felicemente avvenuto in molte situazioni anche a noi vicine come il piano Cervellati per San Rossore. Avere sottratto il paesaggio al piano per ricondurlo comunque in altra sede può giovare a chi? Qui ciò che conta, infatti, non è a chi è finita questa titolarità ma perché si è operata questa scissione. Qui ciò che è venuta meno - e non è certo il solo caso - è quella "leale collaborazione" istituzionale indispensabile in una Repubblica che si "riparte" come recita il nuovo titolo V, ma che non era meno determinante prima.

La leale collaborazione non è mai piaciuta molto allo stato centralista e non solo al ministero dei Beni culturali, come di quello dell'Ambiente, e spesso neppure alle regioni. E se la raffica regionalista fa danni, quella statalista non ne fa di meno. La fase attuale - e questo emerge chiaramente in tutta la sua drammaticità dal libro di Settis - è particolarmente confusa e arruffata e la soluzione non può certo essere ricercata e trovata con nuove sfide a braccio di ferro spesso volte a trovare penose giustificazioni per i disastri avvenuti piuttosto che a evitarli. Essere ottimisti di questi tempi non è facile, ma rinunciare a provarci sarebbe colpevole.

Salvatore Settis .Tra i suoi libri recenti: Italia S.p.A. L’assalto del patrimonio culturale (Torino 2007); Artemidoro. Un papiro dal I secolo al XXI (Torino 2008); Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile (Torino 2010); Artisti e committenti fra Quattrocento e Cinquecento (Torino 2011).

[Le foto sono di Romeo Fraioli ]

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, lunedì 24 ottobre 2011

domenica 23 ottobre 2011

LA LUNA DEI LUNATICI La luna del mese di Ottobre. Dalla luna piena al primo quarto: miti, storie e aspettative…

LA LUNA DEI LUNATICI La luna del mese di Ottobre. Dalla luna piena al primo quarto: miti, storie e aspettative…

- Governa, conduce e regola con la sua forza attrattiva le acque terrestri, i cicli delle stagioni, il modificarsi della natura e indica persino i suoi rimedi, secondo antiche consuetudini primigenie; rappresenta la fertilità, opposta al sole, è segno di alchimia, tratteggia il divenire, il mutare: cicli mensili, ritmi biologici e le fasi della fertilità. La luna. Fecondatrice dell’universo con il suo volto livido e spettrale, così immaginato, accompagnava alla porta dei morti. Signora degli inferi, “scendeva”, calava con il suo moto, conduceva e scortava in basso, si scompariva con lei, senza speranza, e poi la luna ricominciava… da sola.

Da sempre, indicata, “segnata”, mostrata ”irraggiungibile” nei desideri, è simbolo di altre culture della conoscenza riflessiva, dell’inconscio, dell’anima, della memoria che proprio sulla terra, e su tutto quello che vive, trova una sua ragione: uomini, piante, animali sono prigionieri della sua funzione mnemonica, della sua reminiscenza platonica, volubilità e mutevolezza, instabilità, come se esistesse un’azione magica, con poteri straordinari, un’azione incantata, ammaliatrice tra il corpo celeste e il pianeta terra. Allora diventa Signora della notte e delle stelle, ordina gli incantesimi, dispone la magia, decreta la stregoneria, e procuratrice di sortilegi, trasforma a suo piacimento gli uomini in immortali e gli animali in orchi, esseri orrendi.

La donna è luna. Così è intesa nelle credenze e in un certo tipo di medicina, per i suoi ritmi biologici: dai flussi mestruali, gravidanza e concepimento concatenati al satellite, in un mondo secolarizzato, magico, fa scendere sulla terra gioie e speranze, tristezza e dolore, poiché dalle macchie della luna piena si traggono auspici per il futuro, interpretati ancora oggi, si concordano alleanze, accordi e patti, guardando il suo chiarore i feti saranno maschi se concepiti prima del plenilunio, e femmine, dopo, in quel calendario del computo del tempo.

La luna d’ottobre, calante (luna piena 7 ottobre, ultimo quarto 14 ottobre, luna nuova 22 ottobre, primo quarto 29 ottobre) nelle ore che precedono l’alba del giorno 16, si troverà sopra Saturno, nei pressi della costellazione del Cancro e del Leone per rinnovare narrazioni e leggende sulla terra. Rossa, sanguigna d’ottobre, facile all’ira, “cala e cresce” secondo la letteratura popolare che sopravvive, ed è ancora proiettata nel futuro, quando alziamo la testa al cielo, quei miti diffusi, apparentemente sepolti, tornano, come le macchie dell’unico satellite della terra, i profili di Adamo ed Eva mandati lì da Gesù, per punirli, e girano, vagano, con un mazzo di spine, la loro penitenza. Gli alberi non si potano con la luna crescente altrimenti la frutta marcisce, il vino si travasa alla “mancanza”, insieme alle semine, gli innesti delle piante, la falciatura del grano, la tosatura degli animali, l’uccisione del maiale e la preparazione delle sue carni, mentre con la luna nuova si possono preparare le conserve, altrimenti si guastano. Infine, la chioccia non deve covare la prima fase lunare: i pulcini morirebbero, attaccati prima dal torcicollo della luna, l’archetipo dei nostri sogni in fondo, delle nostre visioni oniriche, irraggiungibile…

22/10/2011 La luna del mese di Ottobre. Dalla luna piena al primo quarto: miti, storie e aspettative… di Vincenzo Battista pubblicato su http://www.ilcapoluogo.it/Blog/Viaggio-Viaggi/La-luna-del-mese-di-Ottobre.-Dalla-luna-piena-al-primo-quarto-miti-storie-e-aspettative-67985

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, domenica 23 ottobre 2011

sabato 22 ottobre 2011

ET TERRA MOTA EST : “Dei partiti non ci fidiamo più”. Gli aquilani lanciano una coalizione della società civile

ET TERRA MOTA EST :Appello (II) “Dei partiti non ci fidiamo più”. Gli aquilani lanciano una coalizione della società civile

Cento cittadini aquilani lanciano un’appello sul web: «La ricostruzione sia partecipata». E propongono una coalizione di liste civiche alle amministrative della prossima primavera

Il teatro dei bagni folla e poi dello sdegno e dell’indignazione. A L’Aquila, dopo il sisma del 6 aprile 2009, è andata in scena l’ascesa e caduta di Berlusconi. I siparietti mediatici, prima. Poi, la mobilitazione della popolazione contro il governo e le sue promesse mancate: le migliaia di cittadini con le carriole in mano, per pulire il centro dalle macerie, le manifestazioni con migliaia di persone, e le firme (oltre 50mila) per chiedere una legge che ristabilisca democrazia e legalità nell’area dell’emergenza.

Ora molti dei protagonisti di quelle battaglie promuovono un appello per lanciare la loro sfida: partecipare alle elezioni amministrative con una coalizione di liste civiche. Si ispirano alla rivoluzione gentile di Milano e Napoli. Ma sono ancor più netti e decisi: «Dei partiti non ci fidiamo più», dicono chiaro e tondo. Né di quelli al governo, che nella città del sisma ha mandato solo commissari ed esercito e non hanno mai ascoltato la voce dei cittadini. Né di quelli che siedono al Comune, retto dal Pd Massimo Cialente, accusato di essere «ambiguo e inconcludente», di alternare roboanti accuse a intensi flirt con Bertolaso prima, con l’abruzzese Gianni Letta, oggi.

A non andare giù a molti cittadini è stato il via libera del Comune al Progetto Case, le new town di Berlusconi, che hanno fatto di L’Aquila una infinita, invivibile, periferia (mentre la ricostruzione vera, a partire dal centro, è rimandata a non si sa quando). E poi il comunicato di Cialente in difesa di Bertolaso dopo lo scoppio dello scandalo della cricca (l’ex sottosegretario è stato rinviato a giudizio per gli appalti del G8 della Maddalena). Troppe concessioni a un governo che lascia ancora a terra 4 milioni di tonnellate di macerie, e senza casa 35mila persone, di cui solo 14mila ospitate nelle new town.

Quindi – annunciano gli aquilani – faremo da soli: «Una coalizione di liste civiche», per vincere le elezioni di primavera. Il candidato sindaco? «Lo sceglieremo tutti insieme». Il programma? «Partiamo da idee comuni, ma vogliamo scriverlo strada facendo». Al posto della campagna elettorale, un progetto di partecipazione aperto a tutta la città: workshop tematici da realizzare non in sale convegno, ma a contatto con la città vera, nell’immensa periferia delle new town. «Portiamo avanti una diversa concezione della delega. Non crediamo alle primarie, né basta un voto ogni 5 anni. Vogliamo una democrazia continua, nella quale i cittadini possano esercitare sempre controllo e partecipazione. Solo così potremo ricostruire la città, che per noi è un bene comune», spiega Ettore Di Cesare, uno dei promotori dell’appello, che ha raccolto oltre 100 firme di cittadini, esponenti della società civile, dell’economia, della cultura aquilana.

Docenti universitari, come il prorettore dell’ateneo Aquilano Giusi Pitari, la docente di ingegneria Laura Tarantino, e Antonello Ciccozzi, della facoltà di lettere, promotore di un progetto di “microzonazione del danno” per avvicinare l’assistenza ai bisogni dei cittadini: «Per il commissariato di governo chi ha un mutuo sulla casa distrutta e ha perso il lavoro e un familiare riceve la stessa assistenza di chi magari lavora nelle costruzioni e ha raddoppiato il suo fatturato», spiega Ciccozzi. Numerose le firme di commercianti, che col centro storico ancora chiuso non riescono a riaprire l’attività. E poi ingegneri, architetti, tecnici, impegnati direttamente nella ricostruzione, resa impossibile da norme spesso contraddittorie: «La sicurezza della ricostruzione viene sottoposta a parametri economici, e c’è ancora troppa confusione su tempi e modalità per iniziare i lavori. Gli ordini professionali avrebbero dovuto bloccare tutto all’inizio, per chiedere regole certe, qualità e sicurezza», spiega l’ingegnere Piero De Santis, uno tra i tecnici “critici” che ha firmato l’appello.

Tra i firmatari anche molti lavoratori del distretto dell’hitech aquilano, aziende come Alenia Thales e Technolabs, che provano una difficile rinascita, tra ammortizzatori sociali e problemi logistici (oggi a L’Aquila i cassintegrati sono oltre duemila, i disoccupati 4mila). E poi molti giovani e donne. «La politica deve cambiare genere e generazione», spiega Anna Lucia Bonanni. «Basti pensare che in Comune su 40 rappresentanti c’è solo una donna. E venti diversi gruppi consiliari. Ognuno è portavoce solo di se stesso».

Il tema della democrazia e della partecipazione è centrale, per gli aquilani che vogliono sparigliare le carte: «L’Aquila è un laboratorio sia di autoritarismo che di partecipazione», spiega Antonietta Centofanti, firmataria dell’appello e presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime della casa dello studente, dove sotto le macerie rimasero 8 giovanissimi. E l’Aquila è anche la città della rivolta: «Dopo il sisma tanta gente è tornata ad impegnarsi in prima persona, e non può farlo nei partiti che ormai hanno perso ogni rapporto con la società. Il Consiglio comunale, il sindaco, l’opposizione, avrebbero dovuto fare da scudo, difenderci da quelli che la notte del 6 aprile ridevano, pregustando gli appalti», spiega Centofanti. «Per fortuna siamo riusciti ad ascoltare quelle intercettazioni e questo ci ha permesso di metterci in moto. La ribellione è stata salvifica. E ora dobbiamo andare avanti. L’unica speranza è mettere in moto meccanismi di rivolta».

Per la rivolta, però, gli aquilani non aspetteranno le amministrative. Già da questo mese sono pronti a scendere in piazza. Su di loro pende, infatti, il fardello del pagamento delle tasse non versate nei primi 14 mesi di emergenza: secondo il governo dovranno restituire tutti gli arretrati, fino all’ultimo euro, a partire da novembre (molte buste paga potrebbero essere quasi azzerate). In Parlamento, inoltre, sta per iniziare la discussione sulla legge di iniziativa popolare che chiede risorse certe e una ricostruzione trasparente. Per sostenerla gli aquilani sono pronti a tornare a invadere la strade di Roma, con le loro bandiere neroverdi.

L’Aquila, i numeri dell’emergenza : La popolazione assistita a settembre 2011: 35.238 Di cui: 13.376 nelle new town del piano C.a.s.e. 12.192 ricevono il contributo di autonoma sistemazione 639 in strutture ricettive (alberghi) 177 nella Caserma della guardia di Finanza di L’Aquila

La crisi . 352mila ore di cassa integrazione a luglio 2011, equivalenti a 2mila lavoratori in cassa

1.300 lavoratori in mobilità 4.000 ricevono l’indennità di disoccupazione 7.000 disoccupati hanno smesso di cercare lavoro

I commissari : I compensi della struttura commissariale: Vicecommissario Antonio Cicchetti: 232mila euro l’anno Capo della struttura tecnica di missione arch. Gaetano Fontana: 100mila euro l’anno

Il salasso :100milioni di euro di tasse non pagate durante l’emergenza dagli aquilani dovranno essere restituiti da novembre

Link all’appello: http://www.appelloperlaquila.org/

Fonte Manuele Bonaccorsi

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 22 ottobre 2011

ET TERRA MOTA EST : Appello (I)

ET TERRA MOTA EST : Appello (I)

Leggi anche Et terra mota est : Appello ( II ) “Dei partiti non ci fidiamo più “

Alle cittadine e ai cittadini aquilani

Ciclicamente, e con drammatica cadenza, la natura e la storia affidano ad alcune generazioni il compito di far rinascere la nostra città.

Ma ricostruire senza pensare è un errore, il più grande. E purtroppo sta accadendo.

Le istituzioni, di qualsiasi livello, non sono state in grado, in oltre due anni, di indicare un’idea di città, un progetto capace di immaginare quale sarà il nostro modo di produrre, di consumare, di spostarci, di abitare, di comunicare, di divertirci e socializzare. Insomma di essere.

Senza un’idea di futuro credibile e ambizioso del quale sentirci parte, col passare del tempo, si faranno inevitabilmente sempre più strada sfiducia e tendenza a cercare altrove nuove possibilità per noi e per i nostri figli.

Bisogna rompere questa specie di incantesimo, scuoterci da questo torpore. E’ urgente costruire una visione riconoscibile e condivisa del nostro futuro per tornare a guardare con fiducia a noi stessi e alla rifondazione della città come obiettivo comune e simbolo identitario.

Non si può ricostruire senza reinventare la città: il suo significato dopo il trauma, la sua cultura, la sua economia e il suo posto nel mondo.

Il terremoto è un terribile fattore di discontinuità che ci obbliga a intraprendere un percorso di evoluzione e trasformazione che prima non abbiamo avuto la forza di avviare.

Dobbiamo accettare il cambiamento con la consapevolezza che, piaccia o no, nulla sarà come prima, non il tessuto urbano e nemmeno quello produttivo e sociale. Dobbiamo lavorare perché tutto sia meglio di prima, ripartendo dai problemi che affliggevano il nostro territorio e tutta la regione prima del sisma.

Non esistono vie di mezzo rassicuranti, ma solo sfide difficili e ambiziose che la nostra classe politica non può che continuare a fallire, come ha fatto con la gestione della non terminata emergenza e la mai cominciata ricostruzione.

Con i loro diversi ruoli, e con le loro diverse responsabilità, le “debolezze” di maggioranza e quelle di opposizione continuano, drammaticamente, a fare ordinaria bassa politica per affrontare una situazione che da quasi tre anni è invece tutta straordinaria. Il fallimento a cui ci stanno condannando è ovunque intorno a noi e, purtroppo, non potrà che peggiorare se le persone, le logiche e i metodi rimarranno gli stessi.

È necessario ribaltare il gioco. L’intera comunità si senta partecipe di una sfida, ogni cittadina e cittadino si assuma le proprie responsabilità e si riappropri del diritto a costruirsi una vita degna.

Molti dei firmatari di questo appello sono stati tra i primi a comprendere che la ricostruzione doveva partire dalla ricomposizione del tessuto sociale e da una comunità capace di far fronte all’emergenza, alle scellerate speculazioni di quelli che quella notte ridevano, alle vetrine mediatiche “dell’Aquila ricostruita”, ai commissariamenti e relativi rimpalli di responsabilità.

L’obiettivo delle mobilitazioni, dalle prime assemblee nelle tendopoli e negli alberghi fino alle grandi manifestazioni dell’Aquila e di Roma, è stato anche quello di aggregare una comunità coesa e solidale.

In questi mesi inoltre tanti hanno contribuito con idee e proposte ad alimentare il dibattito cittadino necessario per progettare le basi per la rifondazione della città.

Ora, in vista delle elezioni amministrative del prossimo anno, proponiamo che questo percorso metta insieme tutte le energie, si allarghi e cresca fino a diventare il progetto politico vincente per una comunità che vuole ricostruirsi migliorandosi.

Proponiamo un percorso di laboratori da cui possano emergere soluzioni condivise per la città, che tenga conto dei difficili mutamenti politici ed economici internazionali, e in cui si definisca un modello di sviluppo sostenibile capace di indicare la direzione anche agli altri territori abruzzesi.

Un processo che possa portare alla presentazione per le prossime elezioni di una coalizione di più liste civiche che autonomamente scelgano e sostengano un’unica candidata o candidato sindaco fuori dagli schieramenti dei partiti, con modalità che saranno condivise da tutti i partecipanti.

Un percorso che parte da lontano, credibile perché non improvvisato in occasione dell’appuntamento elettorale, che non si esaurirà con le elezioni, che coniugherà con maturità la partecipazione cittadina e la rappresentanza; un processo basato non su figure salvifiche ma sulle proposte e sul controllo della comunità nei confronti di chi sarà delegato a rappresentarla.

La risorsa principale è nelle nostre mani: la capacità di costruire strategie per indicare obiettivi, priorità e direttrici per lo sviluppo economico e sociale dei nostri territori.

Nei prossimi anni dobbiamo usare le risorse finanziare disponibili in investimenti a lungo termine, capaci di pianificare un nuovo modello di sviluppo urbano, non inseguire soluzioni forse più familiari ma non lungimiranti.

Non commettere l’errore del “tirare a campare” grazie all’afflusso di denaro pubblico per poi ritrovarsi nulla in mano perdendo l’occasione di riconvertire la nostra economia.

Si debbono destinare le risorse per favorire una vita qualitativamente migliore, con servizi a cittadini e imprese, infrastrutture materiali e immateriali e una pubblica amministrazione efficiente ai massimi livelli.

Questo è il nostro “pensiero lungo”, credere cioè che le aziende innovative, che creano lavoro stabile nel rispetto della sostenibilità ambientale e sociale di un territorio, siano attratte da servizi e condizioni di vita qualitativi, piuttosto che da incentivi fiscali a breve termine.

Partendo dai saperi del territorio e dal coinvolgimento delle comunità locali, il dinamismo imprenditoriale, la produzione culturale, quella scientifica e la sperimentazione creativa dovrebbero essere i cardini dell’azione di governo perché la nostra città sia attraente e stimolante per gli abitanti e gli investitori.

Queste direttrici sono la nostra scelta politica, affinché chi è stato tenuto ai margini possa esprimere tutte le proprie capacità e potenzialità.

Non ci possiamo più permettere il perdurare di rendite di posizione che bloccano il cambiamento. In nessun campo.

I nostri ragazzi e le nostre ragazze sono la risorsa più preziosa: da loro deve arrivare la spinta all’innovazione e all’evoluzione culturale ed economica necessarie a questo territorio. Per questo devono trovare terreno fertile e supporto per esprimere le proprie potenzialità, i sogni e la creatività.

Le donne, protagoniste indiscusse della quotidianità ordinaria e straordinaria che stiamo vivendo, devono vedere pienamente riconosciuta la loro specificità di genere nelle scelte economiche, nella rappresentanza, nella determinazione di modi, tempi e qualità dei servizi; devono essere punto di riferimento della gestione amministrativa e artefici della politica cittadina.

In queste righe citiamo consapevolmente poco le parole della prossima campagna elettorale: trasparenza, sicurezza, paesaggio, riqualificazione, riconversione, qualità della vita, ascolto, mobilità sostenibile, sostenibilità, agricoltura, scuola, università, socialità, sanità pubblica, ricerca, cultura, condivisione, beni comuni, terza età, lavoro, innovazione, solidarietà, turismo, centri storici o partecipazione; e manca il tema della ricostruzione del bene più prezioso e caro: le nostre abitazioni e i nostri monumenti.

Le vedremo utilizzate e manipolate nei programmi elettorali di ogni coalizione, ma queste sono parole da difendere non da abusare, e vogliamo dare loro un senso compiuto, perché non siano semplice propaganda ma le basi reali del nostro avvenire.

Questo è l’appello che rivolgiamo ai cittadini e alle cittadine aquilane, in particolare ai giovani che hanno il coraggio del cambiamento.

A chi pensa che mai come oggi il bene di ogni singola persona è il bene comune costruito da una comunità solidale e consapevole.

A chi come noi crede che il necessario cambiamento possa avvenire ormai solo fuori dalle logiche delle spartizioni partitiche, che la politica debba essere lo strumento di partecipazione alle scelte per il bene comune.

A chi crede che la forza di un programma dipende sia dalla qualità delle proposte che dal percorso di condivisione che le genera, dalla storia di chi lo propone e dalle forze che riesce a mobilitare.

A chi sente che oggi abbiamo la responsabilità di dimostrare di essere all’altezza di chi nei secoli ci ha preceduto e rifondare una città migliore.

Con tutto il coraggio di cui siamo capaci.

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 22 ottobre 2011